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«È apparsa la grazia di Dio», Lettera Pastorale del Vescovo Savino per l’Avvento


«È APPARSA LA GRAZIA DI DIO» [SCARICA]

 CHIESA E DISCERNIMENTO NELL’EPOCA DEL POST-UMANO

INTRODUZIONE

Nella liturgia della veglia di Natale, una delle letture proposte è un passo della lettera di S.Paolo a Tito:

E’ apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo; il quale ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formarsi un popolo puro che gli appartenga, zelante nelle opere buone ( Tt 2,11-14).

Paolo invita Tito e i destinatari della sua lettera a rinnegare l’empietà (asèbeia). Nel corso della storia, l’empietà, ossia la mancanza di senso e fondamento al pensare e all’agire umano, ha assunto diverse forme.

Oggi, volendo definire il periodo storico che viviamo, si può dire che la tendenza culturale prevalente é quella di utilizzare il prefisso post. Si parla, infatti, di post-modernità, post-verità, post-umanità.

Il “moderno” può essere visto come il tentativo dell’uomo di guadagnare una propria autonomia (la sovranità soggettiva). Questo ha comportato anche una ri-definizione dei concetti sia di uomo che di verità.

In particolare, a seguito dei progressi compiuti dalla scienza-tecnica, la triade modernità-umanità-verità è oggi in crisi.

La cifra di questa trasformazione è fornita dall’idea di chiamare questo tempo di crisi, tempo del post-umano. Sarà proprio una nuova concezione del tempo a caratterizzare l’era del post-umano.

E’ un vero cambiamento d’epoca!

Il post-umano rappresenta un nuovo modo di intendere la variabile tempo: dopo aver negato il tempo di Dio, si passa ora alla negazione del tempo dell’uomo (nel quale l’uomo si considerava padrone di se stesso). Siamo così traghettati nel tempo della Tecnica: non più quindi un uomo padrone del tempo, ma un tempo che si deforma (si restringe, si allarga) in base alle esigenze della volontà della Tecnica.

Non coordinata assoluta in cui il mondo accade ma coordinata relativa al sistema di riferimento da cui osserviamo il mondo.

Ma per noi cristiani la variabile tempo è soggetta a cambiamento?

Sappiamo che è apparsa la grazia di Dio e con essa è apparso un modo nuovo di intendere e vivere il tempo. In Cristo Gesù, infatti, venuto tra gli uomini, il tempo di Dio e il tempo dell’uomo si contraggono in un unico punto denso di attesa: il tempo di ora, quello che Paolo chiama o nyn kairòs (cf. Rm 3, 26).

È in questo tempo che si situa la Chiesa, la comunità dei discepoli di Cristo, ed è in questo tempo che avviene il giudizio sulla storia e, in particolare, sul “tempo della Tecnica”, tempo di alienazione dell’uomo da ogni riferimento all’Assoluto.

Ogni giudizio sull’attuale tempo della tecnica richiede un discernimento che ciascun cristiano nella Chiesa di Cristo è chiamato a compiere.

Questo discernimento, ogni qual volta viene operato, consente allo Spirito Santo di ingravidare nuovamente il grembo della Chiesa per consentire una nuova generazione di credenti: i cristiani del tempo della fine, i pellegrini dell’Assoluto.

Solo a questi sarà possibile affidare il compito della nuova evangelizzazione, ossia l’attrazione di “ogni carne” nel campo di gravitazione della Fede in Cristo Gesù, vera forza di rinnovamento del mondo.

Il tempo di Avvento – Natale che, come cristiani, siamo chiamati a vivere diventa un tempo strutturato secondo tre movimenti (o dinamismi) fondamentali, che rappresentano il prolungamento dell’opera di Cristo nel mondo attraverso la vita delle comunità cristiane; il tempo di Avvento – Natale sarà, è per noi tempo di discernimento, tempo di generatività e tempo di evangelizzazione.

AVVENTO – NATALE: TEMPO DI DISCERNIMENTO (1 Cor 2,1-15)

Il discernimento è la capacità di riconoscere, alla luce della fede in Cristo morto e risorto, dove risiede la realizzazione più profonda del mio essere figlio di Dio e qual è il volto dell’amore che mi attira e mi porta a compimento.

Possiamo individuare cinque caratteristiche del discernimento cristiano:

1) Capacità di ascolto: occorre mettere a tacere i rumori del mondo, per tornare a riascoltare la voce della Sapienza che risiede nel fondo di ognuno di noi e far spazio alla Parola che ci interpella, e alla voce – o al grido – degli altri che ci mette in movimento. Tutta l’esperienza credente nasce dall’ascolto (Cf. Rm 10, 9-17).

2) Maturità: saper attendere il momento opportuno per compiere le scelte decisive per la propria esistenza. L’istantaneità della tecnica ci disabitua all’attesa, ma il ‘tutto subito’ ci rende disumani e schiavi dell’istante. La crescita ha i suoi tempi. La maturità è il tempo in cui, dopo aver ricevuto, si diventa capaci di dare. Ci istruisce a tal riguardo il testo biblico di Qoelèt (cf. Qo 3,1-15) ove la sapienza di Salomone ci ricorda che c’è un tempo per ogni cosa.

3) Umiltà: viene da humus, terra. Se non ci ricordiamo che veniamo dalla terra, e che grazie al soffio vitale di Dio possiamo sollevarci e guardare in alto, perderemo il senso del nostro esistere. Terra e cielo non sono contrapposti, ma uniti dentro di noi, che ne siamo impasto straordinario. Per questo umiltà non è rinuncia ma impegno, perché Dio, come ci ricorda San Paolo, ci ha resi suoi collaboratori (sunergòi).

4) Fede: è, letteralmente, corda, legame. Legame tra di noi, carovana solidale che si muove col ritmo salutare della prossimità (EG), che diventa fiducia. Legame col Padre, che fonda la nostra fraternità e diventa affidamento. Fede, fiducia, affidamento sono parole sorelle e programma del cristiano.

5) Coraggio: come suggerisce la radice della parola, il coraggio ha a che fare con il cuore prima che con la forza; non è l’assenza di paura ma la capacità di non lasciarsi paralizzare, perché si vuole bene al mondo. Solo l’amore ci rende davvero coraggiosi.

Il discernimento diventa così ricerca della “Volontà di Dio” che si recepisce solo assumendo il suo stesso “sguardo” sulle cose; tale sguardo coincide con lo Spirito che come ci ricorda S. Paolo nella I Lettera ai Corinzi scruta ogni cosa anche le profondità di Dio.

Il discernimento consente all’uomo credente di oltrepassare se stesso e i propri limiti assumendo la matrice Spirituale che lo costituisce come orizzonte ultimo che sollecita una operosità nel presente.

Se lo spirito non apre il nostro sguardo e non anima i nostri gesti, la parola di Dio pare follia. L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno. (1Cor 2,14-15).

Viviamo questo tempo di Avvento-Natale come uomini spirituali che, attraverso il discernimento, lasciano accadere nelle loro esistenze la parusia o l’avvento di Cristo, la sua presenza come segno di contraddizione che “sconvolge le vie degli empi” (cf. Salmo 145).

AVVENTO – NATALE: TEMPO DI GENERATIVITÀ (At 2, 41-48)

Abbiamo parlato molto durante l’assemblea diocesana di sterilità delle nostre comunità cristiane, della loro incapacità di generare alla fede.

Prima di pensare a strategie pastorali che possano “ingravidare” il grembo della Chiesa e delle nostre comunità, ritorniamo a confrontarci con la vita e l’esempio delle comunità apostoliche così come emerge nel libro degli Atti:

Allora coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno si unirono a loro circa tremila persone.  Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere.  Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli.  Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune;  chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.  Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore,  lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo.  Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati. (Atti 2,41-48)

Questo testo ci rimanda i tratti essenziali del volto di una comunità di fede che potremmo definire senza dubbio generativa:

  1. Accogliere la parola: non si genera se prima non si è ricevuto, non si mette davvero al mondo se prima non si è accolto. Senza questo movimento ricettivo non generiamo vita nuova ma fabbrichiamo idoli.

2) Essere perseveranti nell’insegnamento degli apostoli: perseverare è verbo che indica capacità di stare, di permanere, di durare, di dimorare. Ma non implica immobilismo e passività, tutt’altro! Questa “santa ostinazione” nell’ascoltare e osservare l’insegnamento degli apostoli è la condizione perché ciò che abbiamo ascoltato si radichi e dia frutto. Senza la pazienza del perseverare, di una continuità che a volte ci sembra faticosa – specie quando ci sembra di non vedere frutti immediati – ciò cui abbiamo dato inizio si spegne. In tale insegnamento è racchiuso il “germe” della vita eterna, ciò che porta a compimento ogni membro della comunità cristiana.

Di qui una duplice responsabilità nella perseveranza, sia di chi guida le comunità, nel conservare integro tale insegnamento e trasmetterlo fedelmente, sia di chi viene guidato operando vigilanza su se stesso e su coloro che sono stati scelti da Cristo come araldi del vangelo.

3) Erano perseveranti nella comunione: il termine greco che traduciamo in italiano con comunione è koinonìa ed indica letteralmente una relazione intima e profonda tra coloro che sono uniti da una medesima caratteristica. Questo carattere comune è ciò che san Giovanni ci insegna nella sua prima lettera: quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo (1Gv 1,3). Nella comunione sperimentiamo che il legame tra noi e col Padre è fonte di energia che ci rinnova e di forza che ci sostiene.

Il fondamento della nostra comunione è il legame con la Trinità, che è a sua volta comunione di differenze; più questo legame viene cercato e consapevolizzato più la comunione tra noi si rafforza e si riempie di gioia.

4) Erano perseveranti nella frazione del pane: condividere il pane era nell’antichità un gesto che evocava una profonda intimità fra coloro che vi partecipavano. Il pane rappresentava in qualche modo il cuore, la vita, le aspirazioni profonde di coloro che ne facevano parte. Il verbo che indica il frazionare il pane significa letteralmente “rompere la continuità”, spezzare per fare entrare l’altro dentro “il cuore”, dentro la “vita”, dentro le “aspirazioni più profonde”. Il pane è anche il simbolo della nostra capacità di coltivare e trasformare, della nostra umanità operosa e creativa, della dimensione sociale ed economica del nostro vivere.

Solo così avviene la comunicazione di “me a te” e “te a me”, non più due pani separati ma un unico “pane di Vita”, un “noi” che raccoglie il mondo intero.

5) Essere perseveranti nelle preghiere: ogni comunità che vuole essere generativa deve cercare la propria fertilità nella preghiera.

Il testo degli Atti utilizza il plurale le preghiere per indicare la molteplicità dei cuori che si rivolgono a Dio nella consapevolezza della propria fragilità (senza la quale nessuno sente il bisogno di pregare) ma anche nella lode e nel ringraziamento nell’unica sinfonia della preghiera.

Riassaporare il ringraziamento significa restituire in qualche modo a Dio la grazia che ci ha donato in un circolo virtuoso di “Sussidiarietà divino-umana”.

AVVENTO – NATALE: TEMPO DI EVANGELIZZAZIONE (At 8, 26-40)

Sempre risalendo alle comunità cristiane delle origini, come ce le descrivono gli Atti degli Apostoli, focalizziamo la nostra attenzione sul verbo evangelizzare; il termine greco che traduciamo con evangelizzare è euangèlizo e significa annunciare la bella  notizia; bella notizia che naturalmente è anche buona (il prefisso eu- indica sia la bellezza che la bontà dell’annuncio). E proprio perché bello e buono l’evangelo è sempre vero e corretto altrimenti non è neanche tale.

Ritroviamo questo verbo in un episodio degli Atti (cf. At 8,26-40), dove il diacono Filippo istruisce e battezza il sovrintendente della regina Candace: Filippo, prendendo a parlare e partendo da quel passo della Scrittura, gli annunziò la buona novella di Gesù (At 8,35).

Questo episodio permette di ricostruire quello stile dell’evangelizzazione che dovrebbe caratterizzare ogni cristiano.

Tutto avviene nella precarietà e nella ricchezza di un incontro “stradale”. Ciò che spinge Filippo ad andare verso l’eunuco, simbolo del mondo che non ha ancora accolto il Vangelo, è lo Spirito, presenza immediata del Cristo Risorto.

In questo incontro si manifesta la mancanza che l’eunuco ha della comprensione del libro del profeta Isaia.

L’eunuco, all’interlocuzione di Filippo circa il suo livello di comprensione del testo, reclama qualcuno che gli dia la chiave del senso, per aprire il tesoro spirituale che si nasconde dietro la lettera della Scrittura.

A questa domanda di senso deve rivolgersi primariamente l’evangelizzazione della Chiesa.

È l’esegesi, l’operazione primaria dell’evangelizzazione; fare l’esegesi significa aprire attraverso la chiave del senso la ricchezza spirituale della Scrittura. Il primo esegeta dell’agire di Dio nella storia della salvezza è il verbo che si è fatto carne, come ascolteremo durante il Natale: “Dio nessuno l’ha mai visto; l’Unigenito Dio che è nel grembo del Padre, Egli l’ha spiegato (exegésato)”. Gesù non ha soltanto rivelato Dio all’uomo; l’ha spiegato perché Egli è la Sua stessa Parola fatta carne nel grembo di Maria.

Com’è espresso dalla Costituzione Dogmatica del Concilio Vaticano II Dei Verbum, la Sacra Scrittura è la norma normante della fede cristiana (cf. Costituzione Dogmatica Dei Verbum).

Questa chiave del senso è ciò che impegna la ricerca teologica e la sapienza del Magistero della Chiesa costantemente, ed è anche il compito che viene affidato ad ogni comunità credente, che amplia e sviluppa il deposito della fede davanti alle sfide culturali che il nostro tempo impone.

L’ultima indicazione che il testo ci rimanda è la constatazione che non c’è nessun impedimento, una volta compreso il senso profondo delle Scritture e acquisita la chiave del senso a celebrare la grazia di Dio attraverso i sacramenti e soprattutto attraverso il sacramento del Battesimo: che cosa mi impedisce di essere battezzato? (Atti 8,36)

Ed alla riscoperta del battesimo che dovremmo dedicare il nostro impegno evangelizzatore, non solo sul piano simbolico-rituale ma anche soprattutto sul piano esistenziale dell’essere in Cristo.

La parola battesimo viene dal greco baptìzo che significa abbattere.

Abbattere prima di tutto “l’autismo culturale” che avvolge oggi le nostre comunità; abbattere i meccanismi di difesa che a volte siamo costretti ad innalzare e che ci isolano dalla verità e dalla totalità di ciò che siamo.

Il Battesimo in questo modo diventa segno e profezia di uno stato di eccezione in questo mondo:  Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto.  A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio (Cf. Gv 1,11-12).

Se siamo figli e dunque fratelli, per quanto a volte possa essere faticoso o spaventarci, va seguita la strada che ci ha indicato Gesù, che “Siede a tavola con tutti e non si vergogna di chiamarli fratelli” (Ebrei 2,11).

Vivere il nostro battesimo oggi è testimoniare, nelle rinnovate forme che sapremo generare illuminati dallo Spirito, questa fraternità universale. Solo allora potremo davvero essere pronti ad accogliere il Dio che viene.

Lui venuto dalle nostre strade,

camminava come uno di noi

amico fratello padre…

Il nostro cuore era la sua casa

(D. M. Turoldo)

   Francesco Savino