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Lettera Pastorale Quaresima – Pasqua 2022 di Mons. Francesco Savino


Le parole che ci salvano

Il vocabolario della Quaresima e della Pasqua

 

Premessa

Ritorna la Quaresima e ci prepara alla Pasqua. Ci espone all’annuncio più grande mai udito, che ha sconvolto e riaperto la storia umana: la morte è stata vinta. Qualcuno l’ha sconfitta per noi e definitivamente! Annuncio che avviene attraverso poche parole – Cristo è risorto! –  ma parole che contengono un potenziale rivoluzionario. Esse sono precedute e preparate da quelle che, accompagnandoci per quaranta giorni, ci immetteranno nelle celebrazioni pasquali. Non solo come un affluente che sfocia in un fiume più grande, ma come un movimento dello stesso percorso, come un fluire sotterraneo e ignorato da tutti, finché non viene alla luce.
La Quaresima è paragonabile a questo scorrere nascosto, precedente e solitario. Soprattutto per i suoi quaranta giorni essenziale è il valore delle parole e dell’unica Parola che li illumina. Li investe di luce discreta e che talvolta ferisce, lava e guarisce. Luce che, chiarendolo, fa morire il male e riaccende la vita. Stiamo parlando della Parola di Dio, tutta da riscoprire, accogliere, amare e praticare.     

Le parole che ci salvano…

Uno degli aspetti tipici della nostra contemporaneità è il rapporto di amore-odio con la parola e le parole. Da una parte, il mondo della parola catalizza i sospetti e le prevenzioni stereotipate di chi pretende di dividere la realtà in opere e discorsi: un dualismo naif, che vorrebbe separare l’utilità dell’agire dalla presunta vanità del parlare. Per altro, la dicotomia così posta tra il “dire” e il “fare” si allea spesso con un’altra pretesa antitesi, quella tra parola e immagine, che consegna al mondo del “visuale” la quota di maggioranza nel dinamismo della comunicazione. Dall’altra parte, proprio la parola impoverita, la parola screditata, la parola emarginata rimane lo strumento preferito – e saccheggiato – da ognuno di noi nell’universo dei media. Con la differenza che l’antico prevalente atteggiamento di lettura e di ascolto oggi è rovesciato nell’impeto social di esprimersi comunque, senza necessariamente ascoltare.
Eppure, proprio la crisi della parola, soprattutto della parola meditata e riflessa, amplifica la nostra nostalgia e il desiderio di parole efficaci, capaci di creare coscienza dei valori, di radunare consensi ed energie attorno al bene di tutti, alla dignità della persona, alla tutela della casa comune. Contro questa aspirazione – lo si sperimenta ogni giorno – agiscono parole che soffiano sulle braci dell’insoddisfazione e delle paure, creando culture di sospetto e identitarismi divisivi, capaci anche di condizionare su larga scala le volontà dei singoli, dei gruppi sociali e dei popoli. Tuttavia – e su questo vogliamo scommettere – lo stesso potere della parola può assumere valore salvifico, pacificatore.
Il Cristianesimo ha il dovere di sostenere e promuovere il valore salvifico della parola. Pensiamo alla parola che si sforza di interpretare i potenti dinamismi sociali contemporanei, senza strategie di ambiguità e di tensione, ma favorendo criteri di obiettività, franchezza, cooperazione. Pensiamo alla parola che arriva all’intimo dell’altro, che crea relazione tra le persone. Alla parola che custodisce la memoria, che mantiene l’identità del cuore, che sostiene la speranza. Lo psichiatra Eugenio Borgna si è recentemente domandato: “Quali parole pronunciare per arrivare al cuore degli altri e di noi stessi?”. Perché, come aggiunge, “la parola è memoria, ed è speranza, nel cuore”. Borgna cita una bellissima poesia di Emily Dickinson sulla fragilità e sulla misteriosa durata della parola: 

“Una parola muore, appena è detta,

dice qualcuno.

Io dico che comincia

appena a vivere

quel giorno”.

La parola ha una sua vita, una sua consistenza, che nasce dal cuore di chi l’ha pronunciata, ma continua a trasmetterne la presenza infinitamente oltre.
Dobbiamo imparare “a distinguere lo statuto della parola da quello della chiacchiera che il nostro tempo, invece, confonde colpevolmente. In questa confusione è certo che anche la politica ha le sue profonde responsabilità. Non si tratta di una distinzione banale. La filosofia e la psicoanalisi l’hanno ribadita anche sul piano categoriale. 
La chiacchiera è senza peso, vuota, irresponsabile. Può mutare rapidamente direzione e contenuto senza che questo sollevi alcun problema. Il suo abito è aleatorio, la sua disposizione camaleontica, la sua volubilità senza consistenza la offre a farsi strumento di raggiro. Per questo la chiacchiera può essere tranquillamente priva di coerenza etica e logica. 
La parola implica invece l’esistenza di un peso. Non assomiglia ad un vento che segue una direzione incerta, ma ad una lama che taglia e lascia il segno” (Massimo Recalcati, Il peso della parola, La Repubblica, 31/01/2022).
Ebbene, queste qualità della parola umana, nella logica dell’incarnazione, sono assunte dalla Parola di Dio, che viene ad abitare in mezzo a noi. San Giovanni Crisostomo, maestro della parola, ammirava a tal proposito la “condiscendenza” di un Dio che ha “adattato” il suo parlare alla nostra condizione. «Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo» (DV 13).
La Bibbia è la testimonianza normativa di come la parola di Dio si è fatta parola umana. E nella liturgia, tale Parola risuona viva al cuore della Chiesa, perché, abitata dallo Spirito, agisce efficacemente nella nostra esistenza, produce la conversione, orienta la vita, si concretizza nelle opere dei credenti.  E questa azione divina della Parola non distrugge, ma assume, la forza efficiente che già per natura appartiene all’autentico parlare umano.
Abbiamo sempre bisogno di riconquistare la fiducia nella Parola, ma anche nelle parole, in cui il Verbo non ha disdegnato di farsi presente. Docili alla Parola, aperti ad essa, ci lasciamo inabitare dalla sua presenza che, con la forza dello Spirito, agisce, salva, ama.
In questa lettera, vorrei tornare allora alla Parola e alle parole della Quaresima e della Pasqua. Proporrò un breve itinerario lessicale fra alcune parole-chiave di questi tempi liturgici, per poterle accogliere con rinnovata consapevolezza, al di fuori da ogni mera abitudine. Perché queste parole tornino davvero a parlare ai nostri cuori e alle nostre comunità. In fondo, noi non siamo chiamati solo ad “accogliere” la Parola, ma a consegnarci ad essa.
Scelgo alcune parole che risuonano nella liturgia. Dico volutamente “ri-suonano”, poiché esse ritornano a essere pronunciate come parole tipiche di questi tempi liturgici. Noi potremmo rischiare di assuefarci alla loro presenza e fare di esse solo dei “suoni” che ritmano il cammino in questa parte dell’anno, senza lasciare che esse parlino al nostro essere. Perciò dedico loro una sosta di ascolto e di meditazione, non tanto per ridare loro significato, ma perché siano esse, queste parole, nel contesto della Parola di Dio, a infondere in noi il significato di cui sono cariche.

Le parole della Quaresima e della Pasqua

  • Conversione

È la prima parola che “risuona” nel cammino di Quaresima. «Convertitevi e credete nel Vangelo». È la parola che concentra il messaggio fondamentale di Gesù, fin dall’inizio del suo ministero, come ci è attestato da Marco: «Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi (metanoèite) e credete nel Vangelo”» (1,14-15).
“Convertitevi”: un verbo preciso, forte, pregnante. La vulgata traduceva “paenitemini” (anche oggi l’inglese traduce “repent”) e per molto tempo questo potente e fiducioso annuncio di Gesù, trasmesso dalla liturgia della Chiesa, è stato limitato al suo senso “penitenziale”, come ad invitare soltanto alla pratica ascetica incoraggiata dal clima della Quaresima.
Ma “metaonèite” è un imperativo potente, quasi insostenibile per l’uomo. Gesù chiede alle folle il cambiamento della mente, quindi del cuore, della vita, delle opere. Dunque un appello alle forze umane, affinché con i propri mezzi il discepolo compia la radicale trasformazione del proprio essere? Il contesto della predicazione di Gesù suggerisce  ben altro. L’invito alla conversione non è solo un insegnamento morale, né soltanto un programma antropologico; esso si situa prima di tutto in un contesto cristologico. Il dono imprevedibile, la novità divina, sono annunciati come “tempo che si compie” e come “presenza del Regno di Dio”. Il tempo compiuto e il regno di Dio si concentrano nella persona di Cristo. Il messaggio è Lui. Il dono è Lui. Dalla sua presenza, discende la fiducia dell’invito: convertitevi, credete. Il termine verso cui si dirige la conversione non è uno sforzo del cuore umano, è il Vangelo, è Cristo.
E così l’invito alla conversione non suscita immediatamente ripiegamento penitenziale su di sé. Suscita riconoscenza, gratitudine, speranza: ci è data la possibilità di aprirci al cuore di Dio, di tornare al prossimo, di guardare al Regno che Cristo viene a instaurare! Grazie a lui, possiamo cambiare cuore. E allora, certo, occorre anche la dimensione della penitenza, dello sforzo, del dono di noi stessi. Ma questo cammino di conversione è possibile perché Cristo è con noi, continua a darci tutto di sé.

  • Penitenza

Secondo la traduzione della CEI del 2008, nel Nuovo Testamento troviamo il termine “penitenza” solo tre volte. Per due volte è usato da Luca negli Atti, per specificare il Battesimo di Giovanni (“Battesimo di penitenza”, appunto). Una sola volta si trova sulla bocca di Gesù, quando rimprovera le città della Galilea, perché Tiro e Sidone al loro posto  “già da tempo avrebbero fatto penitenza, ravvolte nel cilicio e nella cenere” (Mt 11,21).
In tutti e tre i casi, si tratta di traduzioni del verbo greco “metanoeó” o del sostantivo “metánoia”, che, ricorre però molte altre volte nel Nuovo Testamento e che abbiamo già tradotto con “conversione”.
Fare penitenza non esprime un fine in sé, ma una condizione del cammino permanente sulla via della conversione. Non si tratta di una pratica esteriore, di un mero esercizio ascetico, ma di tutto un atteggiamento di vita, mediante il quale il discepolo si rende disponibile a guardarsi con gli occhi stessi di Cristo, per prendere coscienza della distanza che separa il proprio cuore dall’Amore di Dio, rinnegare se stesso e camminare con gratitudine e fiducia verso di Lui.
Le pratiche della penitenza servono, quindi, ma come aiuto al cammino di conversione, e in modo consono alla spiritualità e alla maturità di ciascuno.

  • Preghiera

Senza di Te non possiamo esistere!”. Occorre prendere coscienza di questo. Non ha senso la vita senza di Lui. Bisognerà, allora, dare alla preghiera il posto che le compete. Blaise Pascal così afferma: “Ogni infelicità dell’uomo deriva da una sola cosa: da non poter starsene quieto in una stanza”.
“Non siamo più capaci”, scriveva padre Mariano Magrassi, monaco benedettino e arcivescovo di Bari-Bitonto, “del riposo contemplativo, di quella «quies» che non è inattività, anzi è la suprema attività, che era al centro, invece, dell’esistenza dei nostri Padri”. Ancora padre Mariano Magrassi scriveva che: “La chiesa non si ringiovanisce anzitutto con nuove istituzioni, ma aprendosi al soffio dello Spirito. Le strutture ci vogliono, ma devono essere animate, e l’animazione viene dalla contemplazione. Questo è il compito della preghiera: dare lo spazio vitale allo Spirito di Dio”.
Charles de Foucauld, parlando della preghiera diceva: “Esalarsi davanti a Dio in pura perdita di se”, cioè stare davanti a Lui perché lo amo, perché non posso fare a meno di Lui.
La preghiera è soprattutto un bisogno dell’amore.
Il tempo della Quaresima si apre con il ritiro di Gesù nel deserto e si conclude con la sua preghiera nell’Orto del Getsemani e sulla croce. La Chiesa apre poi il tempo di Pasqua invitando “i suoi figli sparsi nel mondo a raccogliersi per vegliare e pregare” (liturgia della Veglia Pasquale) e lo conclude invocando lo Spirito Santo sul modello di coloro che “erano perseveranti e concordi nella preghiera” (At 1,14).
Queste semplici constatazioni ricordano quanto la spiritualità di questi tempi liturgici sia profondamente innervata e sostenuta dalla preghiera dei singoli fedeli e delle comunità, espressa anche in manifestazioni di pietà popolare profondamente radicate.  Si tratta di un’osservazione scontata e non ci sarebbe neanche bisogno di evidenziarla. Ma nel nostro tempo di rapida trasformazione e ridiscussione dei costumi (anche religiosi), niente di ciò che appare tradizionalmente consolidato è immune da fughe o rivisitazioni demolitrici. Per di più, nel tempo della pandemia, la scoperta di nuove forme surrogate e distratte di liturgia, servite a domicilio dai media, può avere accentuato una certa disaffezione dai luoghi e dai momenti delle assemblee comunitarie.
Ma non tutto è disperso. Abbiamo ancora la possibilità di valorizzare molto le occasioni di preghiera comunitaria che risvegliano nei fedeli quel richiamo a essere popolo, nell’incontro con Cristo crocifisso e risorto, insieme alla Vergine Maria. L’importante è non cadere nella scontata e irriflessa ripetitività. Nel riproporre le consuetudini di preghiera e di devozioni popolari, si potrebbe trasmettere un senso di inerzia abitudinaria, oppure un respiro di vita, di carità, di speranza. Questo respiro fresco non dipende per forza da un cambiamento delle forme esteriori della pietà popolare; dipende piuttosto dalla fede e dall’amore con cui le viviamo, le prepariamo, le proponiamo.
Il nostro popolo in fondo ha bisogno di sentire che nella liturgia c’è vita. C’è la Vita. Ha bisogno di riassaporare il gusto e la fiducia di ritrovarsi, non solo per un bisogno di socialità (che potrebbe essere surrogato da altre socialità, non ecclesiali), ma proprio per l’intimo anelito, spesso inconsapevole, di essere comunità, di sentirsi attesi, di sentirsi Chiesa. Una riunione assembleare dove non ci si sente attesi e accolti, ma solo fruitori di un servizio, non serve a tale fine. Ma se si manifesta una comunità che davvero sa pregare insieme, questa è una grazia che può portare lontano.
Certo, la preghiera non vive solo nella dimensione comunitaria. Il brano evangelico del mercoledì delle ceneri introduce piuttosto alla preghiera “nel segreto”, nel chiuso della propria camera. Ma in quel contesto, il monito di Gesù non è indirizzato contro il culto assembleare, è rivolto piuttosto a fuggire quelle forme di religiosità finalizzate alla mera apparenza. Nondimeno la preghiera comunitaria non svuota la preghiera intima, anzi la incoraggia e la alimenta. E viceversa. Chi sa vivere e amare la preghiera comunitaria, da essa accoglie nel proprio intimo lo spirito dei figli che invocano e cercano il Padre, per condurre a Lui ogni istante privato della propria esistenza e sostenere la propria missione di amore. E, d’altra parte, un cuore intimamente animato dalla preghiera andrà ad arricchire coralmente le voci di una Chiesa che si accordano nella lode, nell’invocazione, nella speranza.  

  • Croce

“Stat Crux dum volvitur orbis”. “La croce rimane salda mentre il mondo gira”. Il motto dei Certosini racchiude in sé una visione del mondo e della storia che nasce dall’annuncio del Vangelo. In una realtà mondana, che in sé si presenta mutevole ed effimera, la croce di Cristo è il fondamento stabile e perenne della creazione e della storia della salvezza. Essa allarga le sue braccia su tutto l’orizzonte della storia, fissa la terra al Cielo e assicura che la Verità esiste, ed è l’Amore.
Eppure la stabilità della croce non è da contemplare come una statica e immutabile verità metafisica. Al tempo stesso la croce racchiude e compie tutto ciò che è fragilità,  cammino, fedeltà, dono di sé, effusione di amore. È il mistero per il quale la stabile ed eterna verità di Dio si rivela e si offre nella precarietà infima di un cammino di dolore. Stabilità e precarietà, eternità e cammino: la croce si definisce in questi termini contraddittori, che si conciliano e si riuniscono nella pienezza dell’Amore di Dio.
Nessuna persona umana può racchiudere in sé la pienezza dell’Amore che la croce dona e rivela. Però ognuno può compiere dei passi di cammino. Ogni passo non è una pienezza, ma può dirigere verso di essa. E così noi siamo chiamati al cammino della croce: la pienezza dell’amore che si adatta alle possibilità umane, del passo dopo passo.
Rileggiamo la colletta della 2a domenica di Quaresima nell’anno C: «O Padre, che hai fatto risplendere la tua gloria sul volto del tuo Figlio in preghiera, donaci un cuore docile alla sua parola perché possiamo seguirlo sulla via della croce ed essere trasfigurati a immagine del suo corpo glorioso». Cos’è dunque la via della croce? È la strada che parte dalla Gloria eterna di Dio, dove nessuna creatura può arrivare; da questa strada però può discendere il Figlio, che viene a passare attraverso l’umiliazione, dove l’umanità già si trova; da quel momento la strada di Cristo viene aperta per tutti coloro che lo seguono, e dall’umiliazione apre l’accesso alla Gloria.

  • Silenzio

Evocando i quaranta giorni di Gesù nel deserto, il silenzio è un atteggiamento tradizionalmente collegato alla Quaresima. Silenzio come interiorità, come preghiera, come discernimento, certo. Da questo punto di vista, il silenzio non è una meta o un fine in sé, non è neanche un rifugio occasionale; è piuttosto una disposizione permanente dell’animo all’ascolto, alla riflessione, all’azione che ne consegue.
In questo senso il silenzio è rispetto della parola. La parola deve essere rispettata nella sua integrità. Come attraverso le parole, noi abbiamo il dovere di dire la realtà rispettandola, non manipolandola, allo stesso modo la parola stessa deve essere salvaguardata nel suo significato originale. Non le si può far dire quello che essa non contiene, altrimenti è sfruttata, manipolata.
Il silenzio è quindi l’atteggiamento dell’uomo che riconosce la verità della parola e le corrisponde il giusto ossequio. Dal proprio punto di vista psicoanalitico, Massimo Recalcati avverte che solo il silenzio di chi ascolta rende possibile la parola del soggetto, solo il silenzio «sa onorare simbolicamente la parola di chi parla» (in “Jacques Lacan. La clinica psicoanalitica: struttura e soggetto”, Raffaello Cortina, Milano 2016, p. 464). Non ci si può sovrapporre alla parola ricevuta con le proprie parole. La parola dell’altro, la parola della realtà, ha in sé un significato proprio, rigoroso, che non possiamo rendere fluttuante a nostro arbitrio.
Questa etica della parola, che appartiene a ogni comunicazione umana, è particolarmente esigente nei confronti della Parola di Dio. Il silenzio davanti alla Parola è l’ascolto adorante, che il discepolo le presta per accoglierla e comprenderla, viverla e annunciarla, con la somma attenzione a dirla con le proprie parole, senza che le parole si sostituiscano al Verbo di Dio. Per analogia si può applicare ciò che Sant’Agostino diceva a proposito del diminuire dei profeti e di Giovanni davanti al Cristo: «deficiunt voces, crescente verbo» («Al crescere del Verbo, diminuiscono le voci», Discorso 288 ). Le voci che esprimevano la Parola diminuivano nel loro ruolo di fonte della verità, nella misura in cui veniva il Verbo, la Verità che esprime se stessa. Allo stesso modo le parole umane servono come strumento del Verbo, ma non come sostituzione al primato del Verbo.
C’è quindi un silenzio inteso come assenza di voce e di parola. Ma c’è un silenzio ancora più autentico, che si mantiene proprio mentre si parla e si annuncia: si fanno tacere le parole che scaturiscono dal primato dell’uomo, per pronunciare solo ciò che attingiamo dal Verbo.

  • Ascolto

L’ascolto può essere inteso come l’altra faccia del silenzio. È culto reso alla Parola, perché sia essa ad agire con il suo potere.
Senza l’atteggiamento silenzioso dell’ascolto, la Parola può essere comunque ricevuta, ma non per servirla, bensì per servirsene. Il sociologo francese Philippe Breton approfondisce un’antitesi eloquente: «il potere della parola contro la parola del potere» (Elogio della parola, Eleuthèra, 2004). Se rispetti la parola, allora essa può esprimere il potere che ha in sé. Ma puoi manipolarla e farle perdere il suo significato, secondo ciò che serve al tuo potere. E la parola del potere svuota il potere della parola.
La parola del potere è quella che, nel deserto, echeggia dalla bocca di satana: parola rapita dal suo contesto di verità, trasformata, asservita, subdola. Il potere della Parola permane nella bocca di Cristo, che custodisce ogni parola nel senso voluto dal Padre.
Allo stesso modo, il potere della parola è da riconoscere nell’ascolto dell’altro. Proprio l’onore dovuto alla Parola di Dio ci obbliga ad onorare la parola che ci viene rivolta dal prossimo, in tutte le forme in cui egli può esprimersi: perché l’altro è un valore in sé, che Dio stesso ha costituito come tale; e perché anche attraverso l’altro, Dio può farci giungere la manifestazione del suo volere e della nostra missione.

  • Digiuno

Digiuno è una parola che sullo sfondo della Quaresima non sta mai in piedi da sola, ma si regge attorno ad altre voci. Il brano evangelico del Mercoledì delle Ceneri (Mt 6,1-6.16-18) fa precedere il digiuno dall’elemosina e dalla preghiera. Il digiuno di Gesù nel deserto (1a domenica di Quaresima C; Lc 4,1-13) è frutto di una mozione dello Spirito e avviene in un contesto di tentazione.
Nel primo caso, ci troviamo nel contesto di un insegnamento sulle condizioni del servizio verso Dio: fuggire dall’ipocrisia e dalla ricerca del consenso umano, ricerca della gloria di Dio e non della propria. Con il digiuno si fa un vuoto nel proprio corpo e nel proprio spirito: mentre il corpo si priva del cibo, lo spirito resta in attesa di qualcosa. Nell’ipocrisia, tramite il digiuno lo spirito resta in attesa di un riconoscimento umano; nella rettitudine, il digiuno fa spazio alla presenza di Dio.
È l’atteggiamento di Gesù nel deserto: «Non di solo pane vivrà l’uomo». Egli fa spazio al volere del Padre, per nutrirsi di ogni parola che esce dalla sua bocca. Gesù si libera da se stesso, allontana il tentatore che vorrebbe prendere il posto rimasto libero nel suo cuore, accoglie in quello spazio di piena libertà solo la volontà di Dio.
Il vero digiuno, per ogni uomo, è uno spazio che si libera nel cuore. Libertà dalle brame che schiavizzano, libertà per ritrovare se stessi, libertà per amare, per servire, per donarsi, a Dio e al prossimo.

  • Carità

La carità non è ovviamente una parola da rinchiudere nel vocabolario “della” Quaresima e neanche “della” Pasqua intesa come tempo liturgico. La carità trascende ogni caratterizzazione. Se viene ripiegata a “pratica” indicata per un tempo determinato o per situazioni limitate e definite, essa non è più la carità. Sarà elemosina, sarà offerta, sarà dono; ma l’Amore, che è anche in queste opere, le rende vere e le supera  tutte.
Certamente però la Carità è fonte ed è frutto del Mistero Pasquale. In esso si  rivela l’identità di Dio che è Amore e si realizza la novità assoluta dell’essere umano, reso partecipe della vita filiale di Cristo per il dono dello Spirito.
Nel Mistero Pasquale della croce e della risurrezione di Cristo, la Carità ci raggiunge, ci parla, ci avvolge, ci trasforma: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Per il dono di Cristo, «mediante il suo sangue» si compie il disegno eterno di Dio che ci vuole «santi e immacolati di fronte a Lui nella carità» (Cf. Ef 1,3-14).
È dunque nel mistero del dono di Cristo che si riconosce e si definisce cos’è la Carità, e al tempo stesso si trova la nostra identità e la nostra strada, come spiega l’enciclica Deus Caritas Est di Benedetto XVI: «Nella sua morte in croce si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo — amore, questo, nella sua forma più radicale. Lo sguardo rivolto al fianco squarciato di Cristo, di cui parla Giovanni (cfr 19, 37), comprende ciò che è stato il punto di partenza di questa Lettera enciclica: “Dio è amore” (1 Gv 4, 8). È lì che questa verità può essere contemplata. E partendo da lì deve ora definirsi che cosa sia l’amore. A partire da questo sguardo il cristiano trova la strada del suo vivere e del suo amare» (DCE 12).

  • Fraternità

«Primogenito tra molti fratelli, dopo la sua morte e risurrezione ha istituito attraverso il dono del suo Spirito una nuova comunione fraterna fra tutti coloro che l’accolgono con la fede e la carità: essa si realizza nel suo corpo, che è la Chiesa» (Gaudium et Spes, 22).  La fraternità umana è costituita attorno alla primogenitura di Cristo. In Lui, rinati nella sua morte e risurrezione, siamo resi partecipi della figliolanza divina, relazione che lega in modo unico il Verbo al Padre.
Per fondare la fraternità, dunque, la comunanza di dignità umana non basta. Più che nella comunanza di natura, la fratellanza umana è fondata nella vocazione ad essere in Cristo tutti figli dell’unico Padre. Leggiamo dall’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco:  «Come credenti pensiamo che, senza un’apertura al Padre di tutti, non ci possano essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità. Siamo convinti che “soltanto con questa coscienza di figli che non sono orfani si può vivere in pace fra noi”. Perché “la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità”». Solo il riconoscersi figli dell’unico Padre permette di riconoscersi fratelli.
Al tempo stesso però, la fraternità non è da considerare solo un dono ricevuto, acquisito. Essa è una relazione che ci viene affidata, e quindi è sempre da costruire, da proteggere, da amare. Nella stessa enciclica Fratelli tutti, papa Francesco invita a “sognare insieme”, esorta a realizzare insieme un “sogno di fraternità”: «Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!» (FT 8).
Il rischio dei cristiani è conservare la fraternità nel cassetto delle verità da credere. Ma la fraternità, che Cristo ha fondato a prezzo della sua morte e per la grazia della sua risurrezione, è sempre da costruire, sempre da cercare, da sospirare insieme. Anche il sogno comune è qualcosa di solido, se alimenta l’esperienza condivisa della fraternità.

  • Speranza

«La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui» (Rm 5,5-9).
San Paolo annuncia la speranza, perché la morte di Cristo è Amore riversato nei nostri cuori. La speranza non delude, rassicura l’Apostolo. Non ci deve apparire scontata quest’affermazione da parte sua. La speranza che a partire dalla morte si volge verso il futuro fa parte dello scandalo e della follia della croce. Per comprendere la forza di questo “scandalo”, pensiamo per un attimo alla “speranza” dei discepoli di Emmaus. Era una speranza coniugata al tempo passato: «Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele…» (Lc 24,21). La speranza che rimane coniugata al passato è l’affermazione della resa, è la fine del cammino, l’estinzione del futuro. E invece, quella sera di Pasqua, la speranza riprese la sua corsa e la sua forza di orientare il cammino dell’oggi dei discepoli.
Siamo chiamati ad essere testimoni della speranza. Non di un sentimento consolatorio, vagamente rivolto a un futuro indefinito; ma della certezza che l’amore di Dio guida oggi i nostri passi nella carità, verso quel compimento che Egli vorrà assicurare.

  • Gioia

Il Vangelo di Luca è tutto incluso dentro l’annuncio e il compimento della gioia. All’inizio è la gioia preannunziata dagli angeli: a Zaccaria («Avrai gioia ed esultanza, e molti si rallegreranno della sua nascita»: 1,14), a Maria («Rallegrati, piena di grazia»: 1,28), ai pastori («Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo»: 2,10), ma anche gioia che coinvolge il bambino nel grembo di Elisabetta («Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo»:  1,44). All’altro capo del Vangelo di Luca, vi è la gioia che conquista gli apostoli dopo l’incontro con il Risorto: già nel cenacolo, quando «per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore» (24,41); e poi dopo l’ascensione, quando «tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio» (24,52-53).
La gioia annunciata nei Vangeli dell’infanzia è compiuta nella risurrezione del Figlio dell’Altissimo, e gli Apostoli ne sono i primi frutti e testimoni. Da quel nucleo della Chiesa nascente, che si ritrova con grande gioia a Gerusalemme, prende forma e si irradia la gioia del Vangelo.
La gioia non è una situazione contingente, ma una proprietà essenziale dell’incontro con il Risorto e del suo annuncio. «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù» (Evangelii Gaudium, 1). Non una condizione che si possa programmare e costruire, ovviamente. Essa è un frutto dello Spirito (cfr. Gal 5,22), segno della sua presenza nei discepoli del Risorto.
Questo non significa che la gioia risparmi i credenti dai turbamenti e dalle amarezze provocati dalla concretezza della vita e dalla realtà del dolore e del male, dentro e fuori di noi. Ma la gioia del Vangelo è una condizione capace di animare il cuore anche nelle sofferenze, di trasmettersi e testimoniarsi nelle relazioni quotidiane, di anticipare nella speranza la gioia definitiva a cui il Risorto ci invita e ci attende.

  • Resurrezione

La risurrezione di Cristo «non è affatto un semplice ritorno alla nostra vita terrena; è invece la più grande “mutazione” mai accaduta, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazareth, ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo: per questo la risurrezione di Cristo è il centro della predicazione e della testimonianza cristiana, dall’inizio e fino alla fine dei tempi» (Benedetto XVI, Discorso al Convegno ecclesiale di Verona, 19.10.2006).
È proprio la risurrezione di Cristo che ci fa volgere verso il mondo e non verso noi stessi.  Non ci permette neanche di chiuderci in un rapporto intimistico con Dio. Perché la risurrezione non riguarda solo Cristo, non interessa solo i cristiani. La risurrezione di Cristo è la novità assoluta che abbraccia tutti gli uomini e le donne, tutta la storia, tutto il creato, l’eternità.
Cristo risorto è la nostra visione di Dio, di noi stessi, del mondo. In suo nome, ci occupiamo di tutto ciò che Cristo si occupa, amiamo tutto ciò che egli ama. Non c’è niente di ciò che sia stato fatto nuovo dalla risurrezione che possa sfuggire dal nostro interesse: tutto ciò che è umano, tutto quello che appartiene alla nostra storia, al nostro prossimo, agli esseri viventi, alla nostra casa comune, al futuro dell’umanità, alla sua pienezza alla fine dei tempi. La resurrezione di Cristo abbatte ogni frontiera tra i recinti del sacro e gli spazi profani, tra le occupazioni religiose e quelle laiche, tra la fede e la vita: tutto ciò che esiste è coinvolto dalla grazia di Cristo risorto, e di questo noi siamo testimoni. È in nome di Cristo Risorto che la Chiesa, fin dalla Pentecoste, è chiamata ad aprire le porte chiuse e ad uscire, verso il popolo radunato a Gerusalemme, verso la Galilea, la Samaria e gli estremi confini della terra, ieri, oggi e nell’attesa della sua venuta.

Conclusione

Il movimento di uscita della Chiesa inizia già dal sepolcro vuoto, anche se sarà lo Spirito della Pentecoste a inaugurare, per volontà di Cristo, lo slancio missionario. In quel mattino, nel primo giorno dopo il sabato, i discepoli furono inviati in Galilea: «Presto, andate a dire ai suoi discepoli: “È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete”. Ecco, io ve l’ho detto» (Mt 28,7).
La Galilea, il luogo in cui tutto era cominciato, il luogo del primo incontro con Gesù! Ma ora l’appuntamento fissato in Galilea non è un ritorno al passato. Certo, implicitamente, tornando al luogo delle origini, i discepoli sono invitati a ripercorrere nel cuore e nella fede tutta l’esperienza vissuta fino a quel momento, e a saperla rileggere alla luce del Risorto. Ma dalla Galilea il Risorto invia i discepoli: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli…» (Mt 28,19).
«Dov’è la Galilea di oggi, dove possiamo incontrare il Cristo vivente?», si chiede Tomáš Halík, facendosi provocare dal “segno” e dalla “sfida” delle chiese vuote. Non soltanto tra coloro che in qualche modo sono “residenti” (“dwellers”) nell’appartenenza religiosa, ma tra coloro che sono in ricerca (“seekers”). «La principale linea di divisione – riflette – non è più fra quanti si considerano credenti e quanti si considerano non credenti. Vi sono “cercatori” fra i credenti (coloro per i quali la fede non è un “retaggio”, ma una “via”) e fra i non credenti, che respingono i concetti religiosi proposti loro da quanti li circondano, ma provano comunque il desiderio di qualcosa che soddisfi la loro sete di significato». E conclude: «Sono convinto che la “Galilea di oggi”, dove dobbiamo cercare Dio, che è sopravvissuto alla morte, sia il mondo dei cercatori» (T. Halík, Il segno delle chiese vuote. Per una ripartenza del cristianesimo, Vita e Pensiero, 2020).
Io non parlerei di “linee di demarcazione”: credo che il tempo di pensare in termini di confini sia finito. E cambierei leggermente la domanda: non chiediamoci tanto “dove possiamo incontrare Cristo”, ma più precisamente “dove Cristo ci attende”. Il che equivale a chiederci dove Egli ci invii. Ebbene, in questo mondo, i cercatori – della verità, del senso, della giustizia, o magari proprio i cercatori di Dio, di Cristo – sono già una voce che ci chiama ad uscire e andare loro incontro. In essi non si può che riconoscere l’attesa di Cristo. Ma che cosa dire anche di coloro che sono indifferenti e, almeno apparentemente, non cercano? Anche i “non-cercatori”, o “apatei”, esistono tra i non credenti come tra i credenti. Forse proprio i credenti che non cercano costituiscono la sfida più difficile per la gioia del Vangelo. La sfida parte proprio dal risvegliare il senso della ricerca, la nostalgia dell’amore di Dio.
Ecco allora l’orizzonte di una Chiesa tutta sinodale. Non una comunità che si auto-analizza, e progetta proprie strategie. Ma una ekklesia che si raccoglie e si dilata, si ricentra sull’esperienza di Cristo e si distende fiduciosa all’incontro del nostro tempo. E mentre porta la gioia del Vangelo, la Chiesa stessa si fa cercatrice di Cristo. Dopo la sua Risurrezione, dopo essersi manifestato a porte chiuse, egli uscì dal circolo degli apostoli e fece uscire anche loro, verso la Galilea. In questo modo, Egli li mise nella condizione di essere sempre essi stessi cercatori prima che donatori, bisognosi prima che detentori. Egli li preparò a vincere la tentazione di sentirsi sempre protettori di Cristo e custodi di una presenza ben sicura al loro interno. E invece Egli travalica sempre ogni recinto di sicurezza e spinge la sua Chiesa a sentirsi sempre precaria di certezze umane, ma forte di fiducia in Colui che sempre la chiama alla sua sequela.
Mentre dunque ci spingiamo fiduciosi in un cammino sinodale e missionario, continuiamo noi per primi ad andare incontro a Cristo, bisognosi di incontrarlo e di lasciarci correggere e fortificare da Lui, così da poterlo testimoniare e accompagnare presso ogni cuore che si apre alla sua ricerca.

Buon cammino alla sequela di Cristo, crocifisso e risorto, sul passo degli scartati.