Omelie

Mercoledì  Santo 2022 – Messa Crismale –


Is 61,1-3.6.8b-9; Sal 88; Ap 1,5-8; Lc 4,16-21

13 Aprile 2022

 

Nella celebrazione della Messa Crismale, che esalta la natura sacerdotale dell’intero popolo di Dio e rende grazie a Dio, il Padre, per il dono del sacerdozio ministeriale, sento in me il desiderio profondo di comunicare con voi, carissimi confratelli presbiteri.

“La messa del crisma […] è una manifestazione della comunione dei presbiteri con il proprio Vescovo nell’unico e medesimo sacerdozio e ministero di Cristo” (Lettera della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti del 16/01/1988, n.35).

Abbiamo la gioia di ritrovarci in presenza. 

Abbiamo riascoltato le parole di Gesù che ci vengono trasmesse da questa liturgia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me… Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato…”.

Credo che non ci rendiamo mai conto abbastanza della forza disarmante di questa Parola che ci raggiunge al presente. Al presente: lo Spirito del Signore è sopra di me… oggi… Certo, la Parola è sempre presente, viva tra noi, e intellettualmente questo non ci sorprende. Eppure, la consapevolezza del sapere non può sminuire il senso dello stupore e del tremore davanti a un mistero che non “si ripete”, ma è sempre nuovo. Oggi la Parola di Dio giunge a noi non semplicemente come parola ridetta, sempre uguale a se stessa, ma come voce viva, attuale, che sa aprire nuove brecce nella nostra anima e illuminare nuove vie per i nostri passi.

Se ci trovassimo insieme solo per riproporre delle usanze rituali e per riascoltare quanto già altre volte fu annunziato alle nostre orecchie, allora la nostra presenza sarebbe solo un reiterare il passato, una replica rassicurante quanto sterile. E, in una mera rievocazione del passato, anche la Parola risulterebbe innocua, incapace di scomodare i pensieri, le scelte, le azioni del nostro presente.

E invece la Parola di Dio ci incontra proprio oggi, con la sua forza di risvegliare i cuori, di animare, convocare, esortare, correggere, purificare, inviare. Lasciamoci interpellare, come singoli presbiteri e come comunità di presbiterio; presentiamoci fiduciosi, liberi e senza barriere davanti al suo appello; usciamo da ogni possibile forma di riparo che ci acquieta e lasciamoci condurre nel campo aperto della missione quotidiana, dove la nostra coscienza si espone senza riserve al confronto con la realtà e il nostro ministero si inoltra su percorsi in parte già noti, ma anche su terreni inesplorati. Questo comporta che la nostra fedeltà non possa mai adagiarsi sulla mera “normalità” o nell’abitudinarietà delle rive su cui riassettiamo le reti. Proprio poche settimane fa, parlando dei presbiteri, il Santo Padre ci ha incoraggiati in tal senso: «Sento che Gesù, in questo momento storico, ci invita ancora una volta a “prendere il largo” (cfr Lc 5,4) con la fiducia che Lui è il Signore della storia e che, guidati da Lui, potremo discernere l’orizzonte da percorrere» (Discorso al Simposio “Per una teologia fondamentale del sacerdozio”, 17 febbraio 2022).

Sento di dirvi grazie per quello che siete e per come vivete il ministero, consapevoli tutti che siamo abitati da limiti che, con la grazia di Cristo, possono diventare opportunità di crescita e di cambiamento.

Vi invito ad una verifica sulla nostra comunione presbiterale partendo da un frammento di riflessione del card. Giovanni Colombo che così diceva: “Celebrare la messa crismale comporta per il presbiterio e per il popolo di Dio il proposito di verificare la realtà vissuta della nostra comunione: se tutti camminiamo con lo stesso passo, se la giusta libertà dei figli di Dio non venga in noi insidiata da principi di anarchia e di aberranza. È giusto ravvivare la gioia della comunione fra noi”, una comunione che c’è ma che va verificata e ampliata, e di questo dobbiamo sentire l’esigenza di ringraziare Dio.

Non dimentichiamo che, come affermava il card. Carlo Maria Martini, «la nostra comunione presbiterale è radicata nel mistero pasquale, al quale veniamo associati in maniera particolare non solo mediante il battesimo, nel quale “morti e risuscitati con Gesù riceviamo lo spirito di figli adottivi che ci fa esclamare: Abbà, Padre” (SC n.6), ma anche mediante l’imposizione delle mani del Vescovo, per cui diventiamo partecipi del “Ministero di Cristo Maestro, sacerdote e re, per il quale la chiesa qui in terra è incessantemente edificata in Popolo di Dio, Corpo di Cristo e tempio dello Spirito Santo” (PO n.1)».

Lasciar pregare Gesù in noi, come ci insegna la liturgia, è il modo più sicuro per convincerci che, malgrado tutto, la comunione presbiterale è necessaria e urgente per noi stessi e come testimonianza credibile per le nostre comunità e per l’intero popolo di Dio. È per dare contenuto a questa comunione che anche quest’anno, carissimi confratelli nel presbiterato, vi ho scritto una lettera dal titolo “Essere presbiteri oggi, con il coraggio del nostro Dio” (cfr. 1Ts 2, 2). Questa lettera è tutta una riflessione sul coraggio di essere presbiteri grazie al coraggio nel nostro Dio.

Ho voluto farvi notare che la parola “coraggio” è l’insieme di due parole: “cor” e “agere”, cuore e agire. Dalla loro interazione, nasce una qualità del cristiano –e tanto più del pastore – che non sempre consideriamo a sufficienza in chiave spirituale: “cor” e “agere”, nel loro richiamarsi, definiscono infatti il coraggio.

Cari confratelli, riscopriamo insieme il coraggio di essere presbiteri.

Anche se come affermava don Abbondio ne i Promessi sposi “Il coraggio, uno non se lo può dare”, domandiamoci: cos’è il coraggio di un pastore?

È l’atteggiamento che nasce dalla preghiera quando l’amore spinge verso quelle esigenze, individuate nell’ascolto di Dio e della coscienza, che abitano tuttavia nel terreno della fatica o della paura. Il coraggio è necessario quando la coscienza, illuminata dalla sapienza, sostenuta dalla preghiera e animata dalla carità, impone di agire oltre le resistenze poste da ciò che incute soggezione o minaccia o semplice inerzia.

Nella lettera vi invito a declinare significativamente il coraggio secondo quattro paradigmi: il coraggio di uscire, di aprirci, cioè, pastoralmente a ciò che è ignoto, il coraggio di fare sinodo, cioè di affidarci, che richiede lo sforzo e la forza di uscire da certi schemi, il coraggio della parresia, di parlare con libertà e franchezza, di dire sempre ciò che è vero, il coraggio di amare, di donare e donarsi senza condizioni e senza contraccambi.

Se il coraggio “uno non se lo può dare”, l’amore invece sì.

È Dio stesso che ci comanda di amare, con un appello più che con un’ingiunzione. Il coraggio di amare è prima di tutto il coraggio di un sì al Dio della vita e della vocazione, a Colui che sempre ci precede.

L’olio che in questa liturgia si impone alla coscienza di tutto il popolo di Dio, che unge la “barba di Aronne” non resta a profumare la sua persona, ma si sparge e raggiunge le periferie.

“Il Signore lo dirà chiaramente: la sua unzione è per i poveri, per i prigionieri, per i malati, per chi è triste e solo. L’unzione non serve a profumare noi stessi, e tantomeno a conservarla imbottigliata, perché l’olio diventerebbe rancido… e amaro il cuore. Il buon sacerdote si riconosce da come viene unto il suo popolo” (cfr. card. Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, “Nei tuoi occhi è la mia parola”, ed. Rizzoli, 2016).

Mentre rinnoviamo le nostre promesse sacerdotali questo è l’augurio che mi piace condividere: ungiamo ogni periferia geografica ed esistenziale.

✠   Francesco Savino