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Mons. Nunzio Galantino si racconta in un’intervista a TV2000: Il video e il testo integrale


Dalla nascita della vocazione, agli studi, dalle “piaghe” della Chiesa, ai rapporti tra i cattolici e la politica, dalle guerre alla persecuzione dei cristiani, sino alla conoscenza con Papa Francesco.
Il vescovo di Cassano all’Jonio, segretario generale della CEI intervistato da Monica Mondo nella trasmissione Soul, in onda su TV2000 domenica 25 gennaio alle ore 11.20 e in replica alle ore 20,30 (canale 28 del digitale terrestre, 18 di TvSat, 140 di Sky e in streaming su www.tv2000.it).


Un segretario che non ha un segretario, un uomo di chiesa che non si fa quasi mai chiamare eccellenza. Non ha l’auto blu e vive in seminario:  tuttavia un uomo che ha parecchio potere, almeno così dicono.

Non so proprio di quale potere state parlando, almeno fino ad ora io non l’ho così sperimentato,  forse non me ne sono accorto… Chi sono io? Intanto sono figlio di una famiglia. Perché penso che ognuno di noi è il frutto di una famiglia, il frutto di un contesto e io sono figlio di una famiglia numerosa, in questi giorni se ne è parlato tanto!  A casa mia siamo nove figli. Quindi con un papà che portava a casa uno stipendio solo…e  siamo sempre stati bene, ovviamente con tutti i problemi, perché quando si è in tanti si moltiplicano le cose belle ma anche i sacrifici, le fatiche. La famiglia numerosa personalmente mi ha insegnato ad entrare in relazione con le persone più diverse. E anche noi , pur essendo in tanti e pure più o meno riconducibili alla stessa matrice, alla fine caratterialmente siamo  tutti diversi. Io poi sono un poco diverso dagli altri, più strano, particolare… probabilmente perché non ho continuato a vivere nella mia famiglia, a Cerignola, ma ho vissuto in seminario, ho avuto altre possibilità, ho dovuto difendermi  anche da certi tipi di realtà. Quindi l’ambiente familiare è stato un ambiente più di sfondo per me, in cui tornare, ma di fatto avevo altri punti di riferimento. Poi  non è che fossi proprio quel che più e di meglio potesse produrre una famiglia, in termini di obbedienza, di assuefazione alla vita tranquilla…

Lei allo scoccare della maturità   ha deciso di seguire gli studi di teologia e il seminario proprio in un anno, il 1968, in cui i preti lasciavano la tonaca. 

E’ stata una sorta di sfida con me stesso e anche con gli altri.

Una bella sfida, anche perché il contesto non aiutava:  decidere di seguire una vocazione religiosa era un po’ fuori moda. 

Ma erano però i tempi del Concilio, io ricordo la Gaudium et spes, la Dei Verbi, cominciavano ad entrare proprio nel cuore e allora ti sembrava di accettare una sfida. Ecco questa è la cosa bella. Io penso di aver   preso la mia decisione di rispondere di sì al Padreterno, che mi chiamava davvero, come una sfida, con coloro che mi accompagnavano, con cui condividevo la mia vita.

Mai avrebbe immaginato di diventare vescovo.

Di diventare vescovo proprio no, perché pensavo, e penso ancora, che   si fanno vescovi persone un poco diverse da me.

Lei ha studiato però filosofia all’Università statale, perché?

A Bari, grazie ai miei professori di teologia, perché mi avevano messo dentro tanta di quella voglia di ricerca che io pensavo potesse essere riempita, sanata, saziata, andando a confrontarmi con mondi altri: l’Università di Bari poi era abbastanza avanti dal punto di vista della contestazione di quegli anni. Tra l’altro uno dei miei professori  faceva parte, era stato identificato come facente parte della Baader Meinhof, ricorderete le Brigate Rosse tedesche, quindi stare lì per me era anche mettere alla prova  la mia esperienza di fede cristiana, la capacità di tenere testa.

Infatti si è messo a studiare approfonditamente un autore come Antonio Rosmini, soprattutto la sua opera più importante: Le cinque piaghe della Chiesa Cattolica. Quali sono oggi le cinque piaghe?

C’è da dire che le priorità non sono le stesse, l’intensità non è la stessa però ci sono ancora, eccome! . La prima piaga è, diceva Rosmini, la divisione del clero dal popolo nella liturgia, e una delle prime cose che propose fu di usare allora la lingua volgare nella liturgia!

E fin lì ci siamo arrivati. Però il clericalismo c’è ancora…

Ma guardate non è che usare l’italiano nella liturgia significhi automaticamente aver ricostruito un ponte, il clericalismo non è soltanto un fatto liturgico. E’ molto bella una battuta che ho sentito fare dal Papa una volta, non so se in pubblico, sicuramente in privato, parlando del clericalismo. Ha detto: “Il clericalismo è come il tango, lo si balla sempre in due: non esistono laici clericali o clericalizzati che non abbiano l’appoggio di qualche prete e non c’è un prete clericale che non abbia qualche laico che muore dalla voglia di fare il prete.

E’ sempre una questione di potere.

Il clericalismo alla fine si dimostra questo: prima di tutto è mancanza di fantasia, perché non è capace di vivere, scrivere la propria vita per quello che è e non per quello che vuole copiare dagli altri, che vuole assumere dagli altri. Il clericalismo è proprio questo: mancanza di fantasia, mancanza di progettualità personale perché non siamo chiamati  a fare i replicanti. Il clericale è prima di tutto un replicante, senza anima, capace di fare sempre le stesse cose, di pensare sempre le stesse cose, di parlare sempre nello stesso dialetto senza avere per una volta la voglia di dire qualcosa di diverso.

La seconda piaga di cui parlava Rosmini era l’insufficiente educazione del clero. Come, si potrebbe dire adesso, tutti i preti sono laureati! Non è quella l’educazione. Quando Rosmini parlava di insufficiente educazione del clero, parlava dell’ignoranza. Oggi c’è un modo diverso di essere ignoranti da parte di noi sacerdoti, quando non sappiamo intus legere, cioè entrare veramente col cuore e con la mente nella storia e nelle realtà degli altri. Io cosa me ne faccio delle mie lauree? E oppure ce le ho.  Ma che me ne faccio se non mi serve per potere leggere, leggere dentro il cuore delle persone?

 La terza piaga che Rosmini evocava era la divisione tra i vescovi…

E qui apro una parentesi, perché spesso questa Chiesa dà l’impressione, e  ha dato un brutto spettacolo di essere non solo divisa ma addirittura lacerata.

Certe volte emerge più la conflittualità che la comunità; ma, non vorrei essere contorto, però spesso il conflitto è frutto di una voglia di confondere l’unità con l’uniformità. Quando non si è capaci, come diceva Don Tonino Bello, di sposare la sinfonia delle differenze.

Quindi qualche litigio ci vuole?

Secondo me, come in una famiglia, quando non è pretestuoso, quando non è frutto di interessi meschini,  di eredità da dividere o di posizioni da coprire, quando non manca di rispetto, il litigio può essere utile. Quando spogliati di formalità e anche di inibizioni ci si sente liberi di dire esattamente quel che si pensa. E se dall’altra parte trovi una persona davvero libera come te il litigio può diventare un inizio di vita nuova;  nella Chiesa quando qualcuno dice: “Ohi, io non ci sto, su questo e su quello”, e  si discute, si parla, ci si mette alla ricerca nel rispetto del riferimento al Vangelo e non alle mie fissazioni…perché molto spesso questo è il problema, abbiamo confuso il Vangelo con le tradizioni,  non con la Tradizione, abbiamo assoggettato  il Vangelo alla pigrizia mentale. Molti hanno messo il pannicello caldo del Vangelo dove non andava assolutamente messo. Spesso bisogna chiedersi: chi parla, chi grida, chi va a mettersi sull’Aventino, chi decide di emarginare la persona, perché lo fa? Lo fa perché veramente vuole bene al Vangelo? Non è possibile. Il Vangelo non ci porta mai su questa strada. All’origine della divisione non può esserci mai la liturgia, mai il Vangelo, mai la carità, mai la pastorale. Ci sono le nostre fissazioni, acquisite altrove ma non nella Chiesa.

Passiamo alla quarta piaga.

Rosmini dice che è la nomina dei vescovi da parte del potere politico. Questo non c’è più, ovviamente, ma potrebbero esserci ancora le logiche con le quali si scelgono alcuni vescovi. Prima che mi facciate voi la domanda, pongo io il tema, perché qualche volta il problema è proprio chiedersi come vengono scelti i vescovi.

C’è anche il rapporto tra i cattolici e la politica, che in qualche caso è stato male interpretato e confuso. 

Non possiamo  ignorare che c’è stato un momento in cui il collateralismo l’ha fatta da padrone, ma dietro il collateralismo c’è stata sempre la voglia di difendere i valori del Vangelo, i poveri? Oppure una forma non molto dissimulata di potere, per cui se io prete mi ero ammanigliato con il politico più potente ero sicuro che qualche beneficio ne veniva, non a me personalmente, ma alla mia chiesa, alla mia struttura, alla mia realtà, alle mie opere? Questo non significa disimpegno in politica da parte dei cristiani, ma assolutamente! Guardate che l’impegno è una cosa l’inciucio è un’altra. Cominciano tutte due con la “i” ma sono due parole diverse. L’impegno nella politica, secondo me, deriva direttamente dall’Incarnazione, cioè dal fatto che Gesù Cristo si è fatto carne, che Dio si è fatto uomo: lì nasce l’impegno politico.

E’ ovvio che quando questo impegno politico nasce dalla voglia di mischiarmi con la gente, di porgere orecchio e cuore a quello che la gente avverte come problema, e con la gente, facendo leva su chi ha il potere, io cerco di rispondere a quelle urgenze: quella è la politica che ci vuole e guardate che quando facciamo questo tipo di politica difficilmente troviamo uomini politici che ci vengono appresso. Quello che manca veramente in questo momento, e non solo sul piano politico, è l’affetto, nel senso nobile della parola, per la cultura: noi abbiamo delle mezzecalzette sul piano culturale che poi fanno le mezzecalzette in politica, questo è il problema serio. Il Papa lo ripete sempre.

Voglio chiederle se è davvero possibile, in questi tempi dove la contrapposizione c’è,  non solo nella nostra politica, ma anche nelle politiche mondiali e si chiama guerra, se si può sempre dialogare, anche con chi ti vuole uccidere.

Qui  il realismo del Papa ci aiuta molto. Bonhoeffer nella sua opera La vita comune diceva: “Se un pazzo è alla guida di una macchina nella principale via di Berlino, il mio compito di pastore non è quello di seppellire i morti provocati dal pazzo, ma di salire sulla macchina e strappare il pazzo dal volante.” Questo mi pare dia il quadro per leggere quello che ha fatto Bonhoeffer nei confronti di Hitler, ma anche quello che ciascun credente è chiamato a fare. Il dialogo si, sempre, ma  il dialogo non significa mettersi di fronte all’altro e necessariamente aspettare che lui impari la mia lingua quando la sua è soltanto orientata, sintonizzata sulla violenza e sul sopruso. Bisogna che io trovi tutti i mezzi possibili e necessari perché l’altro capisca che il suo linguaggio è un linguaggio sbagliato che il suo linguaggio sta portando morte.

E quando fosse chiesto anche a noi quello che è chiesto a tanti cristiani che sono perseguitati in modo atroce, e la cosa ci lascia spesso indifferenti? 

Al di là delle parole, guardi, questa è una delle riflessioni che mi porto dentro continuamente, soprattutto da quando ho fatto in ottobre il mio viaggio nel Kurdistan iracheno. I cristiani perseguitati oggi non sono nemmeno in grado di alzare una mano, per cui subiscono soltanto. E pensare che loro possano attivarsi per mettersi contro coloro i quali, ad esempio l’Isis, li sta perseguitando, li sta massacrando, è assolutamente impensabile.

Cosa possono fare i cristiani in quelle circostanze?

Evidentemente difendere i loro diritti dove possono farlo. Loro lo stanno facendo ora soltanto fuggendo.  Non vorrei fare in questo momento il poeta sul dramma, però diventa indispensabile far capire ai nostri fratelli perseguitati che non  sono stati anche abbandonati da noi. Molto spesso il modo in cui loro affrontano queste realtà, la forza per reagire a queste persecuzioni terribili, la trovano nel nostro appoggio, nel nostro aiuto, nel nostro sentire con loro. Come diceva Mounier,  il male al petto per quel che devono soffrire.

La Chiesa, i vescovi, i credenti e quelli che si dicono tali, come fanno, come ha detto il Papa, a piangere con chi piange?

Non lo so se siamo in grado veramente in questo momento di versare lacrime con sincerità, con intensità. Ho l’impressione, e questo mi fa male veramente, che anche la persecuzione dei cristiani o comunque le morti violente per motivi religiosi, siano delle statistiche e finché saranno statistiche queste persone le piangeremo difficilmente…  Bisogna fare molto anche nella comunicazione. Io non voglio entrare  in polemica con nessuno, ma dieci giorni fa c’è stato questo terribile fatto di Parigi. Mi sono rivisto i telegiornali. Guardate che nelle stesse ore in Nigeria duemila persone venivano uccise, nelle stesse ore una bambina è stata fatta saltare in aria, il giorno successivo due bambine sono state fatte saltare in aria. La nostra comunicazione è stata concentrata esclusivamente sui fatti di Parigi. Ripeto, nulla da dire. Ma io mi chiedo: la comunicazione in quei giorni ha veramente contribuito a creare una coscienza, una consapevolezza, che potesse portarci a piangere perché delle bambine, che dovrebbero essere il segno di una vita che esplode, sono esplose in un altro senso? Siamo stati aiutati in quel momento? No, siamo stati aiutati a dire da alcune lobby, lasciatemelo dire, a dire tutti la stessa cosa E guai a no dire tutti la stessa cosa, lo sapete bene!

Lei parla con chiarezza. Però i cristiani anche nel mondo della comunicazione, come della cultura, hanno un complesso di inferiorità, sono spesso succubi,  non so se a lobby  o comunque alla cultura dominante. Come se avessero timore, forse perchè non sono così sicuri di rendere ragione della speranza che è in loro.

Secondo me è proprio così, perché c’è stato e c’è ancora un malinteso senso della fede.  Si pensa che avere fede voglia dire vendere il cervello all’ammasso invece la fede è effettivamente un’esperienza di amore ma vissuta con tanto di ragione, questo è il problema.  E’ vero che la fede è un innamoramento ma l’amore non rende ciechi.  Per fare qualche opera buona non è necessario avere la fede, basta avere un cuore mediamente aperto alle realtà che ti stanno intorno e avere un minimo di consapevolezza che quello che manca agli altri molto spesso ce l’hai tu perché l’hai rubato a loro, in un modo o nell’altro. Quindi la fede non è la somma di tutte queste belle cose più o meno accettabili. E’ rispondere di sì a una  proposta di amore, consapevolmente. La fede non è la somma di certi gesti, fossero anche pii. Noi di fatto confondiamo la fede con una serie di cose che ci piacciono e che mettiamo sotto l’etichetta della fede, invece l’esperienza cristiana è tutt’altro!

Dall’altra parte si vorrebbero chiudere i cristiani nelle sacrestie a dire le loro preghiere senza che però sgomitino  troppo nel mondo…

Sono due tentazioni opposte, alle quali manca la stessa cosa cioè capire che al  centro della vita cristiana non c’è il sentimento mio personale ma  un’esperienza precisa, reale che è legata e fondata sulla parola di Dio ed è mediata oggi da questa Chiesa, da questo Papa. Molti di noi fanno fatica a sintonizzare l’orologio della propria vita di fede sul fuso orario dello Spirito Santo,  pretendono di dettare il fuso dello Spirito Santo! Ma lo Spirito Santo che ieri ci ha dato questo splendido uomo che è stato papa Ratzinger, che prima ancora ci ha dato Giovanni Paolo II e prima ancora ci ha dato Papa Montini oggi ci da papà Francesco: dobbiamo imparare a sintonizzarci con lo Spirito Santo, invece noi vogliamo che lo Spirito Santo venga appresso a noi… vogliamo decidere noi cos’è la Chiesa e come deve essere la Chiesa tutto: ciò che rientra in quello schema ci sta bene, tutto ciò che resta fuori non ci piace.

Lei come ha conosciuto papa Bergoglio?

L’ho conosciuto al telefono! Cioè,  prima lo conoscevo come tutti quanti, perché l’ho visto in televisione il 13 marzo: ero  a fare lectio divina in diocesi, quando a un certo punto mi hanno fatto segno da dietro… Fumata bianca! Tutti quanti ci siamo trasferiti dalla chiesa nella sala accanto per seguire la televisione ed è uscito questo nome,  Mario… Maria… Bergoglio!  Chi sarà questo…? Non  lo conoscevo. Quindi io a quel punto ero con voi, assolutamente, nella stessa situazione… Ho imparato però  subito ad apprezzarlo, dal momento in cui ha fatto fare silenzio a tutto il mondo per invocare attraverso il popolo la benedizione di Dio su di sé.  Ho detto tra me e me:  mah… qui sta succedendo qualcosa di strano…!

Però quella telefonata?

Mi ha cercato al telefono e ha detto che aveva bisogno di parlarmi. Io in verità sono stato un po’ discolo perché mi ha chiamato il 18 dicembre e gli ho detto: Santità, io penso che Lei si è impegnato come me in questo periodo di Natale… possiamo vederci il 27 dicembre? E lui mi ha detto: sì sì, va bene, vieni all’orario che ti è più comodo. Quindi l’ho conosciuto per la prima volta il 27 dicembre a mezzogiorno quando sono andato da lui la prima volta e ho potuto parlargli, ascoltarlo sentire anche la proposta che lui stava per farmi. Gli chiesi  di poter rimanere nella mia diocesi e lui rimase un po’ sorpreso… e  gli dissi anche esplicitamente che aveva avuto coraggio a chiamare me! Mi rispose: “ Vedremo…!”.

A lei dà coraggio questo Papa?

Tantissimo. Mi dà coraggio, mi aiuta nei momenti di difficoltà, perché essere uomini, essere preti, essere vescovi ed essere segretari della Cei  non è proprio il massimo della tranquillità…

Quindi  per lei non c’è la paura? Per la Chiesa e  per il mondo?

Avere paura secondo me fa parte di ogni persona  normale: la paura rispetto a certe pazzie consumate contro gli uomini. A me ad esempio fa paura tantissimo pensare alla spregiudicatezza, alla spudoratezza con la quale tanti compiono il male. Io ho paura di incontrare sulla mia strada un mafioso, ad esempio. E  li ho incontrati.

Come si vince la paura?

Cercando di creare degli anticorpi alla paura cioè la consapevolezza che quel che si sta facendo mi è chiesto dal Signore, e ragionevolmente mi sembra che quello che mi ha chiesto è quel che so fare e posso fare.

Se dovesse scegliere  una musica dell’anima, come colonna sonora per questo momento della sua vita?

A me piace molto De Andrè, mi piace molto Battiato. E poi ho ascoltato tantissimo i Beatles , era un obbligo a quel tempo, perché uno che negli anni 70 non aveva avuto in regalo o si era messo i  soldi da parte per comprarsi il doppio album dei Beatles con  le canzoni dal 68 al 72 vuol dire che stava fuori dal mondo!  Poi si aggiunse in quel momento anche Jesus Christ Superstar! Mi piaceva  molto, soprattutto la musica…anzi  l’ho anche evocato anche durante alla discussione della tesi di laurea all’università di Bari, inventandomi delle cose che ovviamente i relatori non conoscevano… fu ammirato tantissimo in quella sede!

 110 e lode?

Quasi…

Grazie monsignor Galantino.  Eccellenza, Don Nunzio, come dobbiamo chiamarla?

Ma non avete altri problemi da porvi??? Scegliete pure  quel che volete, l’importante è che non mi chiami io da solo!