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Omelia XXXIII  Domenica del Tempo Ordinario 18 Novembre 2018


XXXIII  DOMENICA  DEL TEMPO  ORDINARIO [SCARICA]

18  Novembre  2018

Sul finire dell’Anno Liturgico siamo invitati a meditare sulla parte ultima dell’ampio discorso escatologico che Gesù rivolge ai discepoli (Mc 13) andando verso la sua passione, morte e resurrezione. Egli usa parole forti, credibili e autorevoli sulla “fine dei tempi” per preannunciare l’evento che ricapitolerà e darà un senso pieno a tutta la storia umana, la parusia, la venuta nella gloria del Figlio dell’Uomo. 

Alcune precisazioni sono necessarie.

Padre Giancarlo Bruni dice: “Le domande sull’origine del mondo, le cose prime o protologia, e sulla fine del mondo, le cose ultime o escatologia, accompagnano da sempre il cammino dell’uomo corredandolo di risposte date dalle visioni religiose, dalle riflessioni filosofiche e dalle ipotesi scientifiche. Tra le risposte, relativamente agli approdi ultimi, vanno annoverate quella giudaica e quella cristiana sotto il nome di apocalissi o rivelazioni. Un dato di fatto testimoniato da un’ampia letteratura, il genere letterario apocalittico dotato di un suo logos interiore, vale a dire di una sua interna razionalità e logicità i cui capitoli sono catastrofe, imminenza della fine, ultimo giudizio con relativa separazione dei buoni dai cattivi e nuova era. Il tutto in un clima di esaltazione, di paura e di attesa febbrile attenta a decifrare segni e a calcolare tempi. Una mentalità mai venuta meno nel corso della storia e con la quale lo stesso evangelista, che compone il suo scritto subito dopo il 70, ha dovuto fare i conti”.

Nella comunità dell’evangelista Marco c’erano alcuni gruppi apocalittici cui si attribuisce probabilmente la circolazione di un libricino denominato dagli esegeti “volantino giudeo-cristiano”, confluito in Mc 13 e trasformato radicalmente. Questo volantino presentava una lettura catastrofica del presente: disastri naturali, guerre, persecuzioni, la distruzione di Gerusalemme e del suo tempio, preludio della fine prossima del mondo. Un presente nella «tribolazione» (Mc 23,24) e nell’«abominio della desolazione» (Mc 13,14), letti come segni di una storia alla fine: «Passa la scena di questo mondo» (1 Cor 7,31), il tempo si è abbreviato (Mc 13,20; 1Cor 7,29), non ci sarà un’altra generazione (Mc 13,34). Segni dell’imminente venuta del Figlio dell’uomo nella potenza e nella gloria (Mc 13,26) a radunare gli eletti (Mc 13,27) nel Regno di Dio, in un mondo dove sono definitivamente sconfitti l’Avversario, il male e la morte. (cfr. padre Giancarlo Bruni).

Marco prende atto di questa “ansia apocalittica” e cerca di coglierne il positivo, come ad esempio il desiderio di emancipazione dall’idolatria e dal potere che spesso rendono la vita amara e impossibile; il desiderio di un mondo diverso da attendere “qui ed oggi” dal Signore. Possiamo dire che il racconto apocalittico è “l’urlo del povero in situazioni estreme” e Marco, quasi in maniera sapienziale, ospita l’“apocalittica” liberandola da ogni sfaccettatura negativa, ricorrendo ai detti di Gesù filtrati e ripensati dalla e nella comunità dei discepoli. Nel suo vangelo, leggiamo infatti “fate attenzione” (Mc 13, 23-33), “badate a voi stessi” (Mc 13, 9), “vegliate” (Mc 13, 33-35), affermazioni che mirano a risvegliare la coscienza dell’attesa nella venuta ultima del Signore, senza cedere all’indifferenza, alla mondanizzazione o al catastrofismo.

Nel brano di questa Domenica, abbiamo sentito che Gesù dice “in quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte” per parlare di una realtà: questo mondo e questa creazione vanno verso un fine, verso quel “giorno del Signore”, giorno di salvezza e di giudizio. Tutto risponde ad un preciso disegno di Dio che, in quanto Signore della storia e del tempo, vuole dare inizio ai cieli nuovi e alla terra nuova, instaurando il suo regno di pace e di giustizia (cfr. Is 65, 17; 2Pt 3, 13; Ap 21, 1). E ciò accadrà con la venuta gloriosa del Figlio dell’Uomo, il Signore Gesù Cristo: “allora vedranno il Figlio dell’Uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo”. 

“Spesso i cristiani leggono il tempo in maniera mondana, come un continuo omogeneo che esclude ogni attesa, un eterno presente in cui tutto può avvenire tranne la venuta gloriosa del Signore Gesù. Di fronte a questo atteggiamento rassegnato e fatalistico, occorre testimoniare che la parusia del Signore fa parte integrante del mistero cristiano, perché Egli ne ha parlato con chiarezza. Sì, il Figlio dell’uomo, cioè Gesù che è già venuto nella fragile carne umana, nato da Maria e morto in croce, Risorto e Vivente, verrà nella gloria, come Egli stesso ha dichiarato con un’autorevolezza frutto della sua assiduità con Dio: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (Enzo Bianchi).

Siamo chiamati, come discepoli del Signore, ad abitare la storia, con tutte le sue crisi, trasfigurandola. Gesù, infatti, ammonisce i suoi discepoli e noi, oggi, dicendo: “dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che Egli è vicino, è alle porte”. 

Viviamo il presente amando la terra in cui siamo con responsabilità, nell’attesa della parusia. “Vieni, Signore Gesù! Maranàtha!” è l’invocazione che dobbiamo ripetere nell’attesa del compimento, la venuta nella gloria del Figlio dell’Uomo. 

Vigilanza, attesa, responsabilità e preghiera costituiscono lo stile del discepolo di Gesù consapevole che “quanto però a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli, né il cielo, né il Figlio, eccetto il Padre”. Cristiani sono coloro che amano e attendono la manifestazione gloriosa del Signore Gesù Cristo” (cf. 1Cor 1,7; 2Cor 4,8) e affrettano con la loro attesa perseverante tale evento (cf. 2Pt 3,12). Questo è il loro tratto specifico nella storia umana. Ecco perché un grande padre della chiesa, Basilio, ha scritto: “Che cosa è proprio del cristiano? Vigilare ogni giorno e ogni ora, sapendo che nell’ora che non pensiamo il Signore viene”.

Un tratto caratteristico della vigilanza è la responsabilità, la custodia del fratello, in particolare di “colui che grida” per la sua condizione di povertà, di fragilità e Dio lo ascolta. È il tema della “II Giornata Mondiale dei Poveri”. Al “grido” siamo chiamati a rispondere e ad attivare processi di liberazione.  

Buona Domenica!

   Francesco Savino