Il Vescovo a tutto il popolo di Dio
che è in Cassano all’Jonio
Una fiduciosa speranza per scelte profetiche
Sorelle e fratelli carissimi
in quel Battesimo che inserisce ognuna delle nostre vocazioni nel grande mistero di Cristo: ancora camminiamo insieme, resi più familiari gli uni agli altri dalla strada già percorsa e consapevoli che – come canta un famoso salmo di pellegrinaggio – cresce lungo il cammino il nostro vigore. È il dono della Chiesa: andare avanti, spesso in salita, dovrebbe stancarci, ma il Signore ci precede e seguirlo è un’esperienza di attrazione che cresce. L’Assemblea diocesana di quest’anno ci ha aiutato a comprenderlo e l’imminente Giubileo allargherà questa consapevolezza: speranza è il nome di ciò che è già sorto in noi. Speranza è il cuore che arde, come ricordano i due di Emmaus la strada percorsa dal Risorto con loro: prima non vedevano, non capivano, ma poi tutto diventò luce e la strada una corsa a condividere, a raccontare. Il mondo non è come pensavamo. La realtà è più ricca di come credevamo. La gioia è Lui con noi, che perdona e ricomincia. Le donne avevano ragione: avevamo torto noi a non ascoltarle.
Carissimi, il Battesimo ci ha inseriti in questa grande storia, che nella Pasqua di Gesù ha trovato il proprio centro. Non solo crediamo mentalmente, ma siamo innestati esistenzialmente nell’opera di Dio. Dio è coinvolgente e ci raduna: le assemblee eucaristiche domenicali in ogni comunità si legano e ci legano gli uni agli altri in un convenire che nella diocesi, Chiesa locale, allarga il nostro orizzonte e lo proietta universalmente, su quella cattolicità della Chiesa che abbraccia i popoli e le lingue, a servizio della riconciliazione di tutta l’umanità: famiglia comune, che abita una casa comune. Questa prospettiva, cui il Concilio Vaticano II ci ha educato e che papa Francesco nelle sue due grandi encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti ha attualizzato, è ciò che chiamiamo speranza: una profezia di giustizia e di pace a cui Dio lavora con noi. La Chiesa ci insegna che «i precetti dell’anno sabbatico e di quello giubilare costituiscono una dottrina sociale “in nuce”» (Compendio, 25). La promozione dello sviluppo umano integrale è di per sé un Giubileo in ogni luogo e in ogni tempo. In effetti, le ingiustizie che un Giubileo cerca di superare non dovrebbero aspettare anni prima di essere affrontate e corrette. L’esigenza di uno sviluppo integrale – e qui pensiamo al territorio della nostra Diocesi, della nostra Calabria – si riscontra in ogni momento e richiede giustizia ora e non solo perché viene il 2025! La Chiesa desidera quindi che il rinnovamento spirituale caratteristico del Giubileo e i suoi effetti sociali siano vissuti non solo in tempi e luoghi speciali, ma anche in circostanze ordinarie. A questo ci serve un’assemblea diocesana annuale – e siamo alla decima. La Chiesa invoca la realizzazione di riforme sociali alla luce del Vangelo, e lo fa incessantemente, non solo ogni 25 anni. «Questa economia uccide» ha denunciato Papa Francesco sin dall’inizio del suo Pontificato, facendosi non pochi nemici. E noi dobbiamo aggiungere: «questa politica uccide», «queste mafie uccidono», «queste contiguità, questi silenzi, questi doppiogiochismi, questi interessi colossali e nascosti uccidono». Noi scegliamo la vita. È il comandamento di Dio: «Scegli la vita!» (Dt 30). È l’economia di Gesù: «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10).
Mi sono chiesto a quale pagina evangelica ci orientino le sollecitazioni di questo straordinario momento della vita ecclesiale: le relazioni che hanno ispirato la nostra assemblea, la seconda sessione del Sinodo sulla Sinodalità, l’anno profetico che ci propone di vivere la Conferenza episcopale italiana, il Giubileo sulla speranza. La prima impressione, che ho dovuto approfondire, è stata questa: tutto sembra volerci restituire la centralità del Regno di Dio, quello che in modi diversi sia Giovanni Battista, sia Gesù predicavano vicino. «Convertitevi» – cioè voltatevi, cambiate prospettiva, invertite la vostra direzione, guardate – «il Regno di Dio è vicino». Alcuni studiosi hanno osservato che Gesù predicava il Regno di Dio, mentre la Chiesa primitiva iniziò a predicare Gesù. Sembra una battuta – e per altro predicare Gesù come il Cristo ha il suo senso, che non è slegato dal Regno di Dio – ma ci consente di misurarci con uno scarto: quello tra Gesù e noi, tra la sua missione e la nostra. Riconosciamo una continuità, ma in tante nostre fatiche anche una discontinuità. Il ministero messianico di Gesù, che vuole investirci di perdono, di liberazione e di gioia, era tutto orientato al Regno di Dio. Possiamo parlare di una vita, di un annuncio, di una trasformazione del mondo ben riassunti dall’imperativo «Apriti», «Effatà», pronunciato nel Battesimo anche su ognuno di noi. Eccentrica la vita di Gesù, eccentrica la nostra: il centro non è in noi, ma in Dio che viene, nel suo Regno che ci è stato detto di chiedere come il pane quotidiano: «Venga il tuo Regno». Nella sinagoga di Nazareth, quando secondo il vangelo di Luca Gesù si alza e sceglie dal rotolo di Isaia la pagina programmatica della sua vita, egli non solo descrive come un giubileo la propria missione, ma esprime in immagini il carattere trasformativo del Regno di Dio:
«Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi,
a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4, 18-19).
Nell’anno giubilare avremo modo di soffermarci su questa profezia in cui c’è già tutto di Gesù e di noi, ma vorrei ora spingermi oltre la prima impressione – che vi ho descritto – e lasciarmi portare con voi dalla centralità del Regno di Dio all’annuncio di gioia con cui il vangelo sorpassa le visioni di Giovanni Battista e traduce i suoi inviti alla conversione in un messaggio di segno diverso. Conversione, sì, ma non nel segno della paura. Regno di Dio, vicino, sì, ma come infinita speranza. Sono giunto così alla pagina che mi pare possa abbracciare molto di quanto ci ha fatto pensare: un vero e proprio vangelo – buona notizia che allarga la vita e quasi ci ricrea – in cui “fiduciosa speranza” e “scelte profetiche” sono saldate quasi in un canto. Parlo del ritmo delle Beatitudini. Forse sapete che il cardinale Carlo Maria Martini, come molti malati di Parkinson, fu molto aiutato negli ultimi anni dalla musica di Mozart: il suo ritmo, oggi studiato anche sotto questo aspetto, è particolarmente terapeutico per custodire il movimento che il male rende via via più difficile. Tuttavia, la musica che il cardinale volle ascoltare nelle ultime ore della sua vita – lo raccomandò al caro don Damiano Modena che lo assisteva – non fu quella di Mozart, ma quella delle Beatitudini. Il ritmo del Regno di Dio. Noi veniamo da una tradizione catechistica e morale che si è molto concentrata sul non peccare e che ci ha presentato così, purtroppo, i Dieci comandamenti. Oggi i giovani conoscono poco anche quelli, ma per lungo tempo li imparavamo a memoria e ci preparavamo alla confessione partendo da dei “non”: non rubare, non uccidere, non commettere, non desiderare, non dire. Ho pensato in questi giorni che se imparassimo a memoria le Beatitudini, ci disporremmo più facilmente a essere donne e uomini di speranza. Esse ci offrono un profilo umano – un modo di essere al mondo – che coniuga tratti spirituali precisi – povertà, mitezza, misericordia, semplicità di cuore – e linee di azione – operare la pace, avere fame e sete di giustizia, sostenere contrarietà e persecuzioni – con cui viene il Regno di Dio e il pianto può lasciare il posto alla gioia. È un profilo, naturalmente, per i singoli cristiani e anche per molti che pur dicendo di non credere o non avendo conosciuto Cristo già cercano il Regno di Dio e la sua giustizia: beati! Ma le Beatitudini delineano anche comunità con cui sperare: Gesù le pronuncia al plurale. Beati voi! Non: beato te! Così delinea un essere insieme alternativo e controcorrente, che non teme di essere minoritario, perché conosce la forza del sale, della luce, del lievito. Comunità di fede e di retta coscienza in cui e con cui sperare. Così, carissimi, il vescovo vi ha già dato il compito per il nuovo anno pastorale: imparare a memoria le Beatitudini. Sono nel vangelo di Matteo e in quello di Luca. I più motivati – lo vedremo alla fine dell’anno – impareranno tutt’e due! E dalla memoria al cuore, perché venga il Regno di Dio.
Il Giubileo sarà, quindi, opportunità per la nostra chiesa locale, per ripartire dalla speranza. Scrive Papa Francesco: “Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per tutti occasione di rianimare la speranza. La Parola di Dio ci aiuta a trovarne le ragioni” (Spes non confundit, I).
Viviamo un tempo, complesso e complicato, dove il futuro è visto come minaccia. Facciamo fatica a guardare avanti con fiducia: guerre, ingiustizie, crisi climatica, crisi della democrazia, crisi economica, aumento delle povertà … Per “organizzare la speranza” occorre tornare alla Parola di Dio, alla logica delle Beatitudini, che segnano, con tutto il Discorso della Montagna, un progetto di vita che Gesù propone a coloro che vogliono seguirlo, ieri come oggi.
Vorrei ora riprendere alcuni passaggi ai contributi di Kurt Appel, da Vienna, e di don Davide Caldirola, da Milano, intervenuti nella nostra Assemblea, il primo a tratteggiare la speranza, il secondo la profezia, in realtà entrambi a mostrarci quanto la speranza cristiana sia profezia, anticipo di futuro, presenza silenziosa e rivoluzionaria di Dio che regna: non al modo degli uomini – rumoroso, oppressivo, totalitario – ma a modo suo: delicato, liberante, inclusivo.
Sul prato verde del segno dei pani, Kurt Appel ci ha mostrato che il deserto è finito: a moltiplicarsi non sono tanto pani e pesci, quanto la gioia. È questo il segno per eccellenza, per cui i discepoli riconoscono in Gesù il vero giorno del Signore, noi diremmo: la fine del mondo. Un altro mondo appare: è questo che ogni nostra parrocchia dovrebbe rendere palpabile, percepibile, attrattivo. La fine del mondo è qui: fine di quel mondo che ti raccontano i social e i notiziari, fine della desertificazione della terra e dei cuori, fine delle separazioni e dei muri che non proteggono, ma imprigionano. Mi chiedo e vi chiedo: appartenendo al paesaggio delle nostre città, più come segni della storia che come indicatori di futuro, le nostre chiese cosa dicono? Chi vede una chiesa, fra noi, oggi, penserebbe mai che un altro mondo è qui? Questo invece è l’impatto del Regno di Dio. Questo è l’effetto non solo che Gesù faceva – quasi potessimo parlare di lui come di un personaggio del passato – ma l’effetto che fa, Risorto, dove due o tre sono riuniti nel suo nome. Non chiese museo, non liturgie di un altro secolo, non ripetizioni senza presa sui pensieri e sui cuori, non una pastorale senza aperture: eccentrica, la Chiesa, è quando non ha in sé – e nemmeno in noi – il suo centro, ma nel Regno che viene, cui è aperta. Strappiamo le parrocchie dal paesaggio, non per separarle dal loro territorio, naturalmente, ma per radicarle nel giusto modo: come Regno che viene, come gioia che irrompe, come speranza cui non ci si abitua. Non ci si abitua al nostro Dio. Non ci si abitua alla Pasqua.
Kurt Appel ha usato la parola «popolo»: sulle labbra del Papa ci ha forse fatto pensare all’America Latina, a una socialità che da noi non si trova più o che – quando ancora resiste – appunto, resiste, ma come senza gioia, lamentosa, più stanca che speranzosa. Kurt, però, non è venuto a noi dall’America Latina, ma dal cuore dell’Europa secolarizzata e non ha rinunciato a parlarci di «popolo»: perché la Chiesa non sarà mai di “pochi ma buoni” – diventerebbe una setta e ogni eresia è cominciata così – e la sua vocazione è ospitare, collegare, servire la grande voglia di senso, il desiderio di vita che è troppo frustrato da uno sviluppo senza interiorità. Crediamoci ancora: la nostra è una speranza di popolo, una speranza civile. La giusta distinzione tra sfera civile e sfera ecclesiale non giustifica il ritirarsi dalla vita comune, dalle sfide di questa regione, dal credere che in questa periferia d’Italia e d’Europa l’incarnazione continua. E continua nella nostra carne, nel nostro divenire popolo o, più realisticamente, nel nostro contributo alla costruzione di un popolo, più largo della Chiesa stessa. Il Regno di Dio, infatti, non è nostra proprietà. Non ne abbiamo il monopolio. Lo serviamo, lo indichiamo, lo accogliamo. Una speranza coinvolgente.
Nel descriverci una Chiesa dal volto umano, don Davide Caldirola ci ha descritto – in questo senso – una Chiesa dal volto divino. Come sottolineava don Sergio Massironi nella sua introduzione, non c’è sciagura più grande, tradimento più grande, eresia più grande, del dimenticare che il cristianesimo sta o cade sulla saldatura definitiva di umano e divino. Guai a chi abbandona il vangelo dell’incarnazione e ripristina esperienze del sacro, separando e separandosi dalla contemporaneità: è idolatria, finzione, simulacro di un divino inventato dagli uomini e contestato dal Dio vivente. Così Isaia, sin dal primo capitolo, dà a Dio stesso la parola:
«Smettete di presentare offerte inutili;
l’incenso per me è un abominio,
i noviluni, i sabati e le assemblee sacre:
non posso sopportare delitto e solennità.
Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste;
per me sono un peso,
sono stanco di sopportarli.
Quando stendete le mani,
io distolgo gli occhi da voi.
Anche se moltiplicaste le preghiere,
io non ascolterei:
le vostre mani grondano sangue.
Lavatevi, purificatevi,
allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni.
Cessate di fare il male,
imparate a fare il bene,
cercate la giustizia,
soccorrete l’oppresso,
rendete giustizia all’orfano,
difendete la causa della vedova» (Is 1, 13-17)
Don Davide ci ha parlato di una Chiesa che diventa fredda. L’Apocalisse dice “tiepida” e ricordate le parole di Dio alla Chiesa di Laodicea? Così siamo diventati insopportabili non solo a molti nostri contemporanei, ma – ecco la provocazione – a Dio stesso che in chi se ne va ci rivolge la Parola. Anche quando ferisce, la sua Parola è perché viviamo. Con molti esempi di vita pastorale don Caldirola ci ha mostrato che nuove strade si aprono: non a partire da noi, ma dalla vita, dalle soglie su cui ogni vita si trova traballante, a diverse età, fra tristezze e angosce, gioie e speranze. L’Esortazione Evangelii gaudium è una ‘esortazione’ e può intitolarsi così – la gioia del vangelo – precisamente perché ci ‘converte’, ci riorienta a quanto avviene fuori dalla Chiesa, a quel mestiere di vivere in cui nessuno può rimanere solo. Il nostro problema non è convocare – in quello siamo bravissimi: da secoli noi convochiamo – ma vedere, immedesimarci, uscire, far funzionare dentro di noi il vangelo non quando saliamo al pulpito, ma quando la vita grida. Grida gioia, qualche volta. Grida stanchezza, paura, dolore, sfiducia molte altre volte. Cercare la giustizia, soccorrere l’oppresso non sono un servizio sociale, ma un servizio al Regno di Dio. Nelle Beatitudini Gesù indica fuori di noi – persino nella fame e sete di giustizia – il Regno che irrompe, la gioia che viene. Prossimità. Forse in questa parola riassumerei la postura che don Davide ci ha descritto e che, come vescovo vorrei avere, se possibile aiutando ognuno di voi e ogni nostra comunità a farla propria. Prossimità, calore, ascolto. Quante parole sulla Chiesa. Quante parole della Chiesa. Ricordiamoci, però, ciò che più conta: quante parole alla Chiesa. Sono le parole alla Chiesa quelle con cui Dio ci genera e ci rende generativi. Ascolto, dunque. E prossimità. Di qui speranza e profezia. Consentitemi un esempio. Toccherò un tema “caldo”, ma è proprio su queste frontiere che la ‘prossimità’ sta o cade. Non soltanto dall’insegnamento morale della Chiesa, ma a volte più ancora dalla cultura, dagli sguardi, dalle parole dette e da quelle non dette, sono ferite molte persone con un orientamento sessuale diverso da quello della maggioranza. Esiste uno stigma, nella tradizione di molti popoli, anche del nostro, che rende chi è diverso come i lebbrosi dei vangeli. Ebbene, ricordiamo Gesù. Come saremo il suo corpo? Come stabiliremo il suo contatto delicatissimo e potente, che guariva le ferite dell’emarginazione e scandalizzava i duri di cuore? Ha scritto su L’Osservatore Romano pochi giorni fa il domenicano Timothy Radcliffe: «L’orientamento sessuale non dovrebbe essere al centro dell’identità di nessuno. L’identità risiede nella nostra capacità di amare e quindi di entrare nel mistero dell’amore sconfinato di Dio». E qui Radcliffe cita un gigante che Massironi citava sabato scorso, accostandolo a Martini e ad altri grandi vescovi europei del dopo Concilio. Radcliffe cita il cardinale Hume di Londra, che diceva quarant’anni fa: «L’amore tra due persone, siano esse dello stesso sesso o di sesso diverso, va custodito e rispettato. […] Quando due persone amano, sperimentano in modo limitato, in questo mondo, ciò che sarà la loro gioia infinita quando saranno insieme a Dio nell’aldilà. Amare un altro è infatti tendere la mano a Dio, che condivide la sua amabilità con la persona che amiamo». Commenta Radcliffe: «La sfida, per le persone gay come per tutti, è imparare a esprimere l’amore in modo appropriato, rispettando la dignità dell’altro come figlio di Dio». Sorelle e fratelli miei e soprattutto voi, cari fratelli sacerdoti, una Chiesa che ascolta non deve riconoscere oggi che proprio in queste sfide la Rivelazione si fa più chiara? Noi ascoltando, accogliendo, entrando nella sofferenza e nella storia altrui capiamo di più Gesù. Egli sfida tutte le culture a purificarsi. Noi dobbiamo leggere e rileggere la Bibbia ascoltando oggi la voce di Dio, non indurendo il cuore, lasciando emergere da testi segnati anche dalla nostra umanità e dalla nostra storia, testi intrisi delle culture cui sono stati scritti, la differenza di Dio, la sua eterna novità d’amore. Ascolto. Prossimità.
In quello che le Chiese in Italia vivranno come un “anno profetico” saremo invitati al confronto in diversi modi e a diversi livelli, con l’obiettivo di portare il cammino sinodale a una fase di coraggiose decisioni. Il discernimento, infatti, non è mai fine a sé stesso. È invece un’arte di decisione, attraverso l’attenzione, il dialogo, la preghiera, la discrezione. Gesù ha deciso. Ha saputo decidere non facendo mai né della preghiera, né della fiducia nel Padre un motivo per rinviare o evitare il rischio di scegliere, impegnando ed esponendo l’intera sua persona. Lo Spirito Santo è il soffio, la forza, il respiro che sostiene le decisioni.
Come sapete, dovremo confrontarci ancora, orientando la riflessione a delle coraggiose decisioni riguardo i cammini di iniziazione cristiana, osando – perché di questo si tratta – ritornare alla cura che nei primi secoli la Chiesa ha saputo avere inventando il catecumenato. Si trattava di percorsi comunitari in cui chi non conosceva il cristianesimo o ne aveva soltanto una qualche impressione superficiale e “per sentito dire” entrasse integralmente – cioè con la mente, certo, ma anche con i sentimenti, gli stili di vita, i comportamenti, le frequentazioni, i desideri – nella vita nuova dei cristiani. Non considerare più il cristianesimo come un dato culturale, come un’atmosfera respirata fin da bambini, ci mette in discussione, ma soprattutto ci restituisce la dolce e confortante gioia di evangelizzare, lasciandoci evangelizzare. Infatti, un approccio catecumenale non lascia nessuno come prima: né chi impara a conoscere Gesù e la vita cristiana, né chi la scopre ogni volta di più e meglio nelle domande, nel desiderio e anche nelle resistenze delle sorelle e dei fratelli che accompagna. Non distribuiamo quindi sacramenti come supermercati del sacro o agenzie deputate a soddisfare richieste senza profondità. Partiamo invece dal punto in cui le persone si trovano e capiamo di volta in volta che cosa è necessario, senza più avere una ricetta e un calendario necessariamente buono per tutti. Quanta libertà, quanta fantasia, ma anche quanta attenzione e impegno ci chiede un vero e proprio prendere il passo altrui.
Dovremo poi, provocati anche da coloro che desiderano ricominciare una vita secondo lo Spirito – e sono tanti, che spesso nemmeno provano più a rivolgersi alla parrocchia – confrontarci sulla Liturgia e sulla pietà popolare, verificando quale fonte e culmine della vita siamo in grado di fare riconoscere nei gesti che compiamo. Non basta un messale, non basta una processione. Dobbiamo osare – insieme, laici e consacrati – chiederci come il Regno di Dio – non qualche strana forza magica o potere sacro – agisce e si lascia interpretare nella ritualità. Il rito è fondamentale per gli esseri umani: il grande lavoro della Chiesa, in ogni epoca, secolo dopo secolo, è stato e sarà quello di esplicitare Gesù – il Gesù dei vangeli – nei gesti rituali. Bisogna frequentare e amare la Parola di Dio per lasciarla penetrare e convertire, che significa anche semplificare, modificare, rendere leggibili, senza ambiguità, i misteri celebrati. Non meno misteri, ma più domande su come il cuore, la mente, l’agire di una comunità sono aperti a Gesù da ciò che si celebra.
Posta così la questione liturgica, si vede come non sia sconnessa dalla dimensione formativa, che dal vescovo sino a chi sta ancora sulla soglia della vita cristiana rappresenta una vera e propria vocazione. Formazione alla parola di Dio, alla lettura dei segni dei tempi, alla cittadinanza responsabile. Tra spiritualità e lavoro, lectio divina e impegno politico, senza confusione deve esistere una circolarità che passa attraverso i luoghi e i tempi di una formazione di qualità. E qui capite che dobbiamo allearci: non ogni parrocchia può fare tutto, ma serve collaborare tra parrocchie, in diocesi e anche con tutte le forze positive del territorio, perché si faccia cultura: non cultura come intendevano gli eruditi di un tempo, che quasi sapevano come si esibisce un privilegio, ma cultura come intelligenza viva, santa inquietudine, volontà di aprire sé stessi e la propria terra al respiro di Dio e alle sfide della storia. Quando questo avviene, i linguaggi da usare (arte, musica, letteratura, cinema, poesia, spiritualità…) e la qualità della comunicazione smettono di essere un problema di tecniche e di abilità. Non dobbiamo sconfiggere il mercato sul suo terreno: perderemo sempre. La mediazione culturale della fede è fatta di semplicità: intendo per ‘formazione’ ciò che può renderci semplici, cioè dotati di quell’intelligenza che va subito al punto, con precisione e amore. È ancora in questo contesto e su questo sfondo che urge ripensare e rilanciare in Diocesi la formazione alla cittadinanza responsabile, all’impegno sociale e politico: è la carità più alta, è la “mistica arte” (J.B. Metz), la traduzione di quanto celebriamo nel linguaggio della comune convivenza, perché l’amore di Dio divenga amicizia sociale, giustizia di rapporti, riscatto degli scartati, voce di chi non ha voce. Occorre con urgenza rilanciare nella nostra chiesa locale la scuola “Aretè” che dal 30 Ottobre 2020 con passione, responsabilità e costanza viene portata avanti con la finalità di formare uomini e donne, giovani e adulti, a maturare una coscienza civica, partecipando alla “res-pubblica”, alla vita democratica dei nostri territori. Non è più l’ora di una delega deresponsabilizzante ma è l’ora di una partecipazione più fruttuosa alla vita democratica per i beni comuni, che sono a fondamento della costruzione di ogni comunità civile e sociale.
Ho già insistito sulla parola “prossimità” riassumendo le quattro vie che don Davide Caldirola ci ha delineato per diventare una Chiesa dal volto umano. Ebbene, vorrei tanto che fossero i sindaci, i presidi, i giovani, i poveri, le persone di passaggio, i nuovi arrivati a raccontare al vescovo la vicinanza delle parrocchie al loro impegno. Sì, come già avviene, sempre più vorrei che vistando ognuna delle vostre comunità qualcuno, magari ai margini o da fuori potesse avvicinarmi e dire bene di voi. Rileggiamo quante volte nelle Lettere di San Paolo e degli altri Apostoli proprio questa è la loro gioia: sentire come le loro comunità sono apprezzate, perché credibili e vicine. Questa è la missione. Non molto altro. E non si tratta di vivere a caccia di like o di consenso, ma semplicemente di presenza, di autenticità. Il contrario è l’ostentazione, la pretesa, la contrapposizione, l’ipocrisia. Nello stile è la missione. Lo ripeto: nel nostro ‘stile’ – il teologo francese Christoph Theobald fa di questa parola la chiave della testimonianza cristiana – c’è tutta la missione. Più delle cose che facciamo conta il ‘modo’ in cui le facciamo. Il ‘modo’ parla. Nel ‘modo’, nello ‘stile’ appunto, si può rivedere Gesù – il ‘suo modo’, il ‘suo stile’ – o non vederlo affatto. Se necessario, naturalmente, le parole espliciteranno il perché facciamo così e non diversamente: «Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (1Pt 3,15). Ma vedete l’intuizione di Pietro? Prima di dare risposte, bisogna che il nostro ‘modo’ d’essere susciti domande, curiosità. C’è un stranezza, insomma, una sorpresa che portiamo scritta in noi se siamo discepoli.
Quando parliamo di giovani, di emergenza educativa – dopo decenni, la parola ‘emergenza’ ha senso soltanto se indica ciò che ‘emerge’, ciò che è davanti a noi e fingiamo di non vedere – di presente e di futuro per questa nostra tribolata e amata terra di Calabria, noi non parliamo d’altro. Smettiamo di dividere la pastorale in compartimenti: per ogni cosa il suo ufficio e non ci pensiamo più. Quanto abbiamo condiviso di una speranza che fa della Chiesa una profezia, non una tappezzeria, riguarda i giovani, riguarda il territorio, riguarda la vita. Oltre agli specialisti, ci occorre la sintesi, l’unità, l’abbraccio non soffocante, ma motivante della comunità. Meno fatti propri, più comunità. Comunità pensanti, cuori pensanti: quando siamo così – e avviene già – i giovani ci stanno e mettono in campo nella Chiesa, nello studio e nel lavoro, ma persino nella politica, tutte le loro forze. Perché in ciò di cui abbiamo parlato si qui, si tratta di quel mistero che riguarda – ricordate? – «tutto il tuo cuore, tutta la tua mente e tutte le tue forze» e l’altro «come te stesso».
Vorrei quindi, cari sacerdoti e cari fedeli, care consacrate e carissime donne – di cui tanto la Chiesa ha bisogno nelle sedi decisionali, che la riforma o revisione degli organismi ecclesiali di partecipazione (tra sinodalità e corresponsabilità) e la revisione e il cambiamento delle strutture – mi riferisco alle questioni amministrative, all’accompagnamento e al supporto nella gestione del servizio giuridico e amministrativo (anche con la formazione di laiche e laici competenti) fossero questioni sentite, ma puramente strumentali nella grande missione che ci aspetta. Voglio dire: leggeri! Precisi, ma leggeri! Sgonfiamoci, alleggeriamoci, non fissiamoci su questa o quella forma: Ecclesia semper reformanda. Gli esperti ci aiuteranno; la Chiesa che è in Italia ci supporterà, ma il focus resti il Regno di Dio. Il resto sia totalmente al suo servizio. E cambi, si trasformi, si converta con noi. Non attacchiamoci alle strutture e alle norme. Ricordiamoci: Gesù.
È l’ora dell’audacia e del coraggio. È l’ora della trasgressione: nel senso etimologico di transgredior: andare oltre: oltre ogni pessimismo, fatalismo e accidia.
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così, infatti, perseguitarono i profeti che furono prima di voi».
Care sorelle e cari fratelli nella fede,
«Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».
Così sia di noi, carissimi. Non una roccaforte, ma sale, lievito, luce per la nostra terra e per il nostro popolo. E sarà speranza. E saremo profezia.
Grazie!
Castrovillari, 28 Settembre 2024
✠ Francesco, vostro Vescovo