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VIDEO E DOCUMENTI | Assemblea Ecclesiale Diocesana, le Conclusioni del Vescovo


CONCLUSIONI DELL’ASSEMBLEA DIOCESANA [SCARICA]

Il Vescovo a tutto il popolo di Dio che è in Cassano all’Jonio

“Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito”
(Gv 3, 8)

PREMESSA: Chiamati a discernere

  1. Da una stanca consapevolezza a una consapevolezza responsabile.

La vita vera è nuda, non si immagina, non si pensa, si vive, si tocca. Si diventa veramente consapevoli solo se si tocca la vita, se incontriamo qualcuno fisicamente e se ciò ci trasforma (cfr. Luigi Verdi).

“La realtà è più importante dell’idea. La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà. E’ pericoloso vivere nel regno della sola parola, dell’immagine, del sofisma” (EG n.231).

Domandiamoci: Cosa dice la realtà contemporanea a noi chiesa? Schematicamente possiamo concordare nel riconoscere:

  • la fine del paradigma giuridico (Chiesa societas) a favore del paradigma del mistero (Chiesa mysterium) (Chiesa da, per, verso)
  • la fine del paradigma giuridico-piramidale-clericale (gerarchia-monaci-laici) a favore del paradigma comunionale (chiesa communio=unità nella distinzione)
  • la fine del paradigma autoreferenziale (ecclesiocentrismo) a favore del paradigma del Dell’apertura all’altro (da Dio per il mondo). L’alterità definisce la Chiesa.

“Il mondo è cambiato!”

“Ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18, 8). La domanda di Gesù ci invita, oggi più che mai, ad abitare il nostro tempo con il desiderio di creare condizioni affinchè alla domanda di Gesù possiamo rispondere affermativamente. La risposta affermativa sarà possibile se il primato della grazia di Cristo intercetterà la nostra responsabilità di Chiesa in cammino, di “Chiesa in uscita”. Una chiesa che metta in crisi l’assioma “si è fatto sempre così”.

La questione del “come” oggi la Chiesa possa assolvere il compito che le compete, cioè di predicare a tutti Gesù Cristo” (RdC 57), necessita di alcune attenzioni che vanno perseguite:

  • Costruire piccole comunità cristiane, credibili nella testimonianza del Vangelo;
  • Pensare e agire nel segno della Incarnazione;
  • Diventare “bilingui”, ossia abilitarsi a parlare sia la lingua da cui è stato tradotto il messaggio sia quella delle persone in cui si vuole “ri-tradurre” tale messaggio (cfr. Paul Ricoeur).
  • Praticare, sapientemente, il discernimento.
  • Il discernimento: stare al mondo da testimoni.

Discernere, per orientarsi e per orientare in un mondo che è sempre più complesso e che non può più essere (ma forse non lo è mai stato) riconducibile e riducibile ad un orizzonte noto e dunque regolabile attraverso norme chiare, esaustive e valide per sempre. Per vivere abbiamo bisogno di continuare a pensare; e il discernimento ha a che fare proprio con il pensare.

Attenzione: non è la complessità di oggi che ci richiede tale esercizio. Di discernimento abbiamo sempre avuto bisogno. Ma oggi, in questo contesto, comprendiamo davvero come non possiamo più farne a meno, come spesso ci siamo illusi di poter fare, riducendo la realtà a quel già noto cui bastava applicare le norme di sempre e… funzionava (o ci sembrava che funzionasse). Oggi tante cose non rispondono più come ci si attenderebbe.

Abba Poimen disse che abba Ammonas diceva: “Un uomo può passare tutto il suo tempo portando la scure, ma senza riuscire ad abbattere un albero. E ce n’è un altro, invece, esperto nel tagliare, che con pochi colpi abbatte l’albero”. Diceva che la scure è il discernimento (Detti dei padri, Serie alfabetica, Poimen 52).

Il discernimento è fondamentale nell’esperienza comunitaria cristiana.

 

Nell’esperienza ecclesiale urge che entri il pensiero, l’intelligenza e il discernimento di tutti, ciascuno con il suo carisma. Don Primo Mazzolari usava ripetere spesso ai suoi parrocchiani: “Quando entrate in chiesa, vi togliete il cappello, non la testa”. Nella Chiesa non è di casa la paura di pensare. Dice efficacemente papa Francesco nell’Amoris Laetitia: “Il discernimento deve aiutare a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti”.

Risposta a Dio, crescita attraverso i limiti: ecco gli elementi in gioco. C’è Dio e ci sono i nostri limiti umani e in mezzo c’è l’opera del discernimento, che è ciò che permette di crescere.

La chiesa cresce grazie al discernimento.

Lo apprendiamo dagli Atti degli apostoli. Le grandi evoluzioni sono state frutto di scelte, coraggiose e a volte controcorrente. Solo per fare alcuni esempi:

  • la scelta di Mattia, al posto di Giuda (At 1,15-26): c’è un fatto inatteso e drammatico, la defezione di Giuda, che “ferisce” il corpo voluto da Gesù; che fare? arrendersi? Gesù non c’è più per scegliere o dire cosa fare: gli Undici (comunità ferita, approssimativa e mancante) prendono atto, reagiscono e scelgono (anche se lasciano l’ultima parola a Dio, con il tiro a sorte);
  • l’istituzione dei Sette, che affianchino gli Apostoli per l’assistenza delle vedove (At 6,1-6): c’è un bisogno, cui si risponde con un nuovo ministero (innovazione non esente da rischi, visto che il primo dei Sette finirà ben presto martire, per mano di uomini dell’altra fazione);
  • l’apertura ai pagani che Pietro opera (At 10), confrontandosi con un uomo in carne ed ossa, Cornelio che, pur essendo pagano, fa elemosine e prega (cf. At 10,2). E Pietro deve elaborare un pensiero per sé e per gli altri che poi gli chiederanno conto, rimproverandolo di aver frequentato dei pagani (cf. At 11): Lc ci mostra Pietro proprio nel travaglio di questa elaborazione quando dice: “Pietro allora prese la parola e disse: ‘In verità sto rendendomi conto (katalambanomai) che Dio non fa preferenza di persone’” (At 10,34); e in quel verbo c’è Pietro che si vede “superato” da Dio, cioè si rende conto che Dio va oltre il limite cui lui si sarebbe fermato;
  • le scelte coraggiose del cosiddetto sinodo di Gerusalemme (At 15): anche qui coraggio e innovazione non

La chiesa è cresciuta (e cresce!) grazie al discernimento. Viceversa muore laddove manca coraggio e fatica di discernere, perché di fatica si tratta! La fatica di discernere, di assumersi la responsabilità di pensare. Osare pensare… anche rischiando l’errore. Azione costante e mai finita.

Rifiutare questa dinamica  significa rischiare di “spegnere lo Spirito”, come dice ancora Paolo: “Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie. Esaminate ogni cosa (panta de dokimazete) e tenete ciò che è buono” (1Ts 5,19-21).

Non dobbiamo pensare che l’arte del discernimento possa risultare, in ultima analisi, un cedimento da parte della Chiesa ad un pensiero debole o a un relativismo in cui nulla più ha valore. Anzi il discernimento va in profondità, va a scandagliare le ragioni, le motivazioni, il cuore delle cose e delle vicende. Quindi nessun relativismo, ma anzi radicalizzazione delle esigenze evangeliche.

Rifiutare la fatica del discernimento, significa ricadere nel male del fariseismo, contro il quale Gesù si è ripetutamente scagliato.

1)     Non lasciamoci rubare la Comunità. Evangelizzazione e Comunità.

“La parola comunità evoca tutto ciò di cui sentiamo il bisogno e che ci manca per sentirci fiduciosi, tranquilli e sicuri di noi”: così scrive il sociologo Zygmunt Bauman.

Ritorniamo ora alla domanda posta nell’introdurre l’assemblea: “è possibile una IC senza una comunità?”

Se l’evangelizzazione, priorità della Chiesa, mira a fare dell’uomo un battezzato-cristiano, è anche vero che la scoperta di essere in pochi o in tanti ad essere stati evangelizzati e quindi battezzati, porta gli stessi a sentirsi parte di un solo corpo, il Cristo, che è il capo e fonda la Comunità-Chiesa.

Affermava il card. Joseph Ratzinger nel libro “La fraternità cristiana” che “il fatto di diventare una sola cosa con Cristo include il fatto che anche i cristiani diventano una cosa sola tra di loro e significa di conseguenza una cancellazione dei confini naturali e storici che separano. Al di là dei necessari confini legati allo stato sociale o gerarchici, deve perciò regnare l’èthos di una fraternità paritaria”.

“Ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così. Quindi se uno è in Cristo è una creatura nuova. Le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove”(2Cor 5, 16 s.).

“Grazie a questa realtà sconvolgente della nuova creazione,- puntualizzava Ratzinger – le precedenti distinzioni perdono la loro importanza. Insignificante diventa anzitutto la grande e principale distinzione che fino ad allora aveva diviso insuperabilmente il mondo: la distinzione fra Israele e il mondo, tra puro e impuro, tra eletti e non eletti”.

Il mistero di Cristo, che si vive nella Chiesa dei battezzati, è un mistero della soppressione dei confini. Afferma l’apostolo Paolo: “quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più né giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (cfr. Gal 3, 27 s.).

Le chiare parole dette dal Signore al giovane ricco: “perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo” (Mc 10, 18) lasciano sussistere un solo confine, quello tra creatore e creatura. Le altre differenze sono insignificanti.

Una puntualizzazione necessaria: la Comunità-Ecclesìa-Parrocchia si realizza nella  celebrazione dell’Eucarestia, che, nella teologia classica viene concepita  come  la “concorporatio cum Christo”, come l’unificazione dei cristiani nell’unico corpo del Signore. La celebrazione dell’Eucarestia va anche riconosciuta ed attuata in partenza interiormente come sacramento della fraternità e deve apparire come tale pure nella sua forma esteriore. Essa deve diventare visibilmente il sacramento della fraternità, per poter così esplicare pienamente la sua capacità di formare la Comunità. Infatti anche la missione del singolo cristiano, vissuta nel silenzio e nella vita appartata, è una forma di servizio fraterno e conferma la fraternità stessa.

“Erano perseveranti nell’insegnamento degli Apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel Tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e

 

semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati” (At 2, 42-47).

E’ una icona, quella degli Atti degli Apostoli, di vita ecclesiale che, con le dovute differenze di tempo e di cultura, diventa per noi chiesa di oggi, emblematica e paradigmatica di come vive una Comunità-Parrocchia-Chiesa sul proprio territorio.

Siamo chiamati, dunque, ad edificare piccole comunità cristiane significative.

 

“Dalla crisi odierna emergerà una chiesa che avrà perso molto. Diverrà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi. Non sarà in grado di abitare gli edifici che ha costruito in tempi di prosperità. Con il diminuire dei suoi fedeli, perderà anche gran parte dei privilegi sociali. Sarà una chiesa più spirituale, che non si arrogherà un mandato politico, flirtando ora con la sinistra e ora con la destra. Sarà povera e diventerà la chiesa degli indigenti. Sarà un processo lungo, ma quando tutto il travaglio sarà passato, emergerà un grande potere da una chiesa più spirituale e semplificata. A quel punto gli uomini scopriranno di abitare un mondo di indescrivibile solitudine, e avendo perso di vista Dio, avvertiranno l’orrore della loro povertà. Allora, e solo allora, vedranno quel piccolo gregge di credenti come qualcosa di totalmente nuovo; lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto” (J. Ratzinger, Queriniana 1971 in “Fede e futuro”).

Questa è la sfida: costruire comunità cristiane, evangelizzanti.

2)  L’Evangelii  Gaudium,  la  sua  traduzione  in  Diocesi  e  lo  “stile evangelizzatore”.

Il mandato di Papa Francesco affidato a Firenze a tutta le chiesa italiana è stato tradurre in ogni chiesa locale (Diocesi) il suo manifesto programmatico pastorale, l’Evangelii Gaudium. Noi l’abbiamo tradotto in un Progetto Pastorale di quattro anni, a partire dallo scorso anno. Richiamo all’attenzione di tutti lo stile evangelizzatore che ne emerge.

Che lo stile cristiano non sia questione di forma e di gusti bensì di contenuto e di annuncio del Kerigma, quindi al contempo di pastorale e di dottrina, è dato che emerge con evidenza dal Nuovo Testamento e in particolare dai Vangeli, dove gli insegnamenti di Gesù sul “come” vivere i Comandamenti di Dio e sul “perché” osservarli sono di gran lunga più numerosi e insistenti di coloro che si limitavano a enunciarli o a moltiplicarli. Gesù è l’uomo, figlio di Dio, che “ci ha insegnato a vivere in questo mondo” (cfr. Tt 2, 12) attraverso il suo stile, il suo modo di stare in mezzo a noi come segno dell’amore del Padre.

L’ultimo numero dell’introduzione dell’EG (18) delinea un determinato stile evangelizzatore da assumere in ogni attività che si realizza. Questo “stile evangelizzatore” o questo “modo di comunicare con gli altri”, la famosa “uscita”, è ciò che caratterizza il testo in quanto tale e il suo redattore che si coinvolge radicalmente. Questo “stile” si caratterizza anzitutto per un linguaggio autoimplicativo che non teme di rivolgersi in modo molto diretto al destinatario, parlando  dunque  con  l’“io”,  con  il  “tu”  e  il  “voi”,  con  il  “noi”.  “Denuncia”  e  “promessa  e

 

annuncio” si affiancano, così come il “no a questo …” e il “si a quello …”. Lo stile che emerge dalla esortazione di Papa Francesco è caratterizzato dalla creatività. Per dirla con una espressione forte che si ritrova nella esortazione apostolica, possiamo dire che lo “stile dell’evangelizzatore” deve esprimere la mistica della fraternità .

“Oggi, quando le reti e gli strumenti della comunicazione umana hanno raggiunto sviluppi inauditi, sentiamo la sfida di scoprire e trasmettere la «mistica» di vivere insieme, di mescolarci, di incontrarci, di prenderci in braccio, di appoggiarci, di partecipare a questa marea un po’ caotica che può trasformarsi in una esperienza di fraternità, in una carovana solidale, in un santo pellegrinaggio” (EG 87).

Sulla mistica della fraternità si gioca la coerenza, l’autorevolezza e la credibilità delle nostre comunità cristiane-parrocchie.

Le parole che declinano in concreto questa mistica della fraternità sono: inclusione, porte aperte, dialogo, pace, uscita, ospedale da campo, evangelizzatori con spirito, gioia del Vangelo, spiritualità, preghiera.

3)     La generatività.

a) I quattro verbi del generare.

Di generatività si può e si deve parlare nella società e nella chiesa: radicata nella nostra esperienza originaria, essa non è riducibile alla sfera biologica, ma attraversa l’intera vita personale e sociale. La generatività ha la forza per candidarsi a essere il nucleo vivo di un nuovo immaginario della libertà, in grado di portarci nella società al di là dei consumi e delle sue passioni tristi, nella chiesa al di là di sterili e frustranti programmazioni pastorali. La generatività è intrinsecamente legata all’esperienza della gioia della vita dentro e fuori la chiesa (cfr. Mauro Magatti, Chiara Giaccardi, Generativi di tutto il mondo unitevi!).

Generare è, per eccellenza, il modo dell’essere che non sta chiuso in sé, ma si riconosce in relazione, aperto verso altri e alla vita ed è anche, per eccellenza, il modo dell’agire della persona: far essere qualcosa che prima non era.

Ha scritto Hannah Arendt in Vita activa: “Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è umile, e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità” (Vita activa, 1958, Bompiani, Milano 1994, pag.129).

Per comprendere la “dinamica generativa” è opportuno puntualizzare i verbi dell’azione generativa.

Primo verbo: DESIDERARE.

“Strano, non continuare a desiderare i desideri” (Rilke, Elegie duinesi)

Etimologicamente, desiderare significa “fissare attentamente le stelle”, lasciarsi attrarre. L’esperienza del desiderio è sempre esperienza di una alterità e, dunque, porta con sé sempre una quota di perdita dell’identità. L’esperienza del desiderio è l’esperienza di una forza in eccesso, di una forza che proviene da me, ma che trascende l’“io”. Il desiderio è una potenza che sovrasta e decentra l’“io”; è costitutivo della persona umana. Io sono preso, portato, posseduto, animato, invaso, percorso dal desiderio. E proprio per questa ragione il desiderio non è mai tutto mio, ma è piuttosto sempre aperto sulla figura dell’Altro e sulla sua alterità. Queste considerazioni sono riconducibili a Massimo Recalcati, discepolo di Jacques Lacan.

Ma il desiderio, in quanto apertura verso l’altro, nella sua esperienza concreta, può incontrare alcuni fallimenti.

Quando il desiderio si avvita su se stesso, è tipico di ogni narcisismo; quando è desiderio di piacere diventa godimento, soprattutto nell’esperienza della perversione sessuale in cui si verifica l’egemonia del godimento a “spese” dell’altro. Altro fallimento del desiderio è quando esso viene vissuto come pulsione di morte. I fallimenti del desiderio ci fanno cogliere il paradosso del desiderio.

Mai senza l’altro, scriveva Michelle de Certeau. In fondo il desiderio è sempre desiderio dell’altro, di altro. Di farlo essere, non di possederlo, perché il possesso cancella l’altro o lo riduce a merce.

Secondo verbo: PARTORIRE, mettere al mondo.

Se desiderare non significa annettere ma far nascere, far essere nel mondo lasciare uscire da sé, il partorire è conseguenza dell’incontro con l’altro. Si partorisce in due. Il parto è “condivisione”. Reciproca generazione! Il bambino che nasce cambia la donna in madre e l’uomo in papà! Si può generare perché si è stati generati. Ci accomuna l’“essere figli”. “Generare è dunque mettere al mondo facendosi inizio, senza pretendere di essere origine assoluta; è ricevere, è restituire in forma nuova. E’ farsi tramite, ma non tramite insostituibile e originale e nemmeno pura “funzione trasmissiva”, strumento per un fine. Io non sono nel generare-partorire Dio. Sono l’inizio ma non l’origine. Per poter generare, partorire, occorre prima di tutto concepire. Concepire, cum-capere, vuol dire prendere presso di sé, accogliere, contenere. Il concepire significa, allora, fare spazio dentro di me. Far essere ed essere fatto sono le note del concepire e del partorire- generare. Va ricordato, anche, che se è vero che partorire, mettere al mondo, è un’esperienza esaltante, è anche vero che è un’esperienza dolorosa e impegnativa. Mettere al mondo non è mai un atto privato ma appartiene alla “comunità”, a tutti.

Terzo verbo: PRENDERSI CURA.

Non basta partorire, mettere al mondo, perché colui che è venuto al mondo necessita di qualcuno che lo curi. Se metto  nel terreno una pianta e non la  innaffio, muore; se partorisco un figlio e non me ne prendo cura, egli non può sopravvivere; se dò inizio ad una storia d’amore e non la alimento, l’amore si spegne; se fondo un’impresa senza preoccuparmi della sua sostenibilità nel tempo, essa è destinata al fallimento. Prendersi cura  è  un  accompagnamento  educativo  complesso,  al  tempo  stesso,  bello.  La  cura riscalda e trasforma lo sguardo. La cura è un paradigma di relazione con l’altro. La cura è sempre fonte di energia, stupore e imprevedibilità. Le relazioni, messe al mondo, vanno non solo coltivate ma custodite. Custodire è la parola forte della responsabilità verso l’altro. Chi non custodisce l’altro messo al mondo produce solo macerie.

Quarto verbo: LASCIARE ANDARE.

E’ il momento più delicato della relazione con colui che è stato messo al mondo. Lasciarlo andare significa accettare di farlo vivere autonomamente altrimenti lo ridurremmo ad un clone. Lasciare andare dice che siamo stati insostituibili e che non siamo indispensabili. Se amiamo ciò che mettiamo al mondo, non possiamo che desiderare la sua pienezza di cui il distacco è condizione. Lasciare andare significa sia “tagliare il cordone ombelicale” sia passare il testimone.

La dinamica generativa, con le quattro azioni simbolicamente espresse dai quattro verbi, ci salva dal delirio dell’“io”. La generatività, aperta all’evento, alla sorpresa, a ciò che ancora non conosce, implica aprirsi al mistero che la abita.

b) Una  comunità      Per  una   pastorale   generativa   ovvero   il   cammino   di rinnovamento di IC.

«Siamo invitati a curare una dinamica generativa, non semplicemente amministrativa, per accogliere gli eventi spirituali presenti nelle nostre comunità e nel mondo, movimenti e grazia che lo Spirito opera in ogni singola persona, guardata come persona. Siamo invitati a impegnarci a destrutturare modelli senza vita per narrare l’umano segnato da Cristo, mai assolutamente rivelato nei linguaggi e nei modi». (Papa Francesco, lettera ai consacrati e alle consacrate Rallegratevi, 2 febbraio 2014).

Una puntualizzazione: “la parola grembo … è ricca di spunti evocativi … grembo dal latino gremium, seno, che unito con lembo è quanto si può abbracciare e stringere al seno, quell’incavo che si forma nell’abito tra le ginocchia e il seno quando una persona è seduta e nel quale le madri tengono il loro bambino; e anche ventre materno” (Ferrara Mori G., Un tempo per la maternità interiore, Borla ed, Roma 2008, 109-110). Per gli ebrei è nel grembo materno che il bambino impara tutta la Torah. La comunità “Chiesa” per essere generativa deve imparare ad essere madre dalle madri. La Chiesa, nostra madre, genera dal suo grembo verginale i figli che essa ha concepito per la potenza dello Spirito Santo. Come sostiene Franca Felizziani “nei documenti ecclesiali si parla spesso del grembo materno della Chiesa, cioè si attribuiscono alla Chiesa funzioni generative proprio della donna e dell’uomo”.

“Una chiesa che vive il suo servizio alla “generazione” dei cristiani è, quindi, una chiesa che si lascia continuamente rigenerare dalla novità del vangelo” (don Luigi Girardi).

La “comunità generativa” rivitalizza l’istituzione per promuovere le relazioni, rende duttile l’organizzazione per favorire l’incontro delle persone, mantiene viva  la tradizione per fare spazio allo sviluppo in senso evangelico, si prende cura di sé per riuscire ad avere cura degli altri. Allora una “pastorale della generazione” o pastorale generativa è una pastorale che genera la fede avendo a cuore prima di tutto le persone,

 

raggiungendole nelle dimensioni degli affetti, del lavoro e del riposo, delle loro fragilità. Si tratta di passare da una logica delle “cose da fare” a quella di un “modo di essere”.

Una “pastorale generativa” può essere definita una forma di testimonianza del Vangelo che riesce a suscitare nelle persone implicate (sia operatori che destinatari) un cambiamento nel loro modo di comprendere se stessi e il mondo cui appartengono (sono così rigenerate), dando vita a un nuovo modo di stare in questo mondo e di implicarsi in esso (diventano a loro volta rigeneranti). Ciò chiede attenzione alle persone, offerta di luoghi e forme di condivisione delle proprie esperienze umane, capacità di leggere il significato di tali esperienze, fiducia nelle persone e sul futuro, apertura al nuovo, capacità di cooperare. Si tratta, allora, di scoprire, e quindi acquisire, uno “stile” in cui “forma” e “contenuto” si corrispondano. Non dimentichiamo che “le style c’est l’homm meme”, lo stile è identità.

Il “cuore della generatività” è accompagnare. L’accompagnare esprime il coinvolgimento con colui che si accompagna e l’accompagnamento è caratterizzato da tre tensioni fondamentali: la fiducia, il sostegno e la progettualità. Nella fiducia l’accompagnato si apre a nuove esperienze e situazioni che attivano il processo di crescita e che segnano positivamente la maturazione della fede. Nel sostegno, l’accompagnatore fa sentire l’accompagnato accolto e compreso. Nella progettualità è sintetizzata tutta la fecondità dell’accompagnamento che ha come fine ultimo l’autonomia di colui che è accompagnato. Va anche puntualizzato che chi accompagna non è il centro dell’avventura educativa, anzi, ad un certo punto, egli deve scomparire. Farsi compagni di viaggio non significa altro che impegnare la propria vita per favorire l’azione dello Spirito Santo, che è dono del Risorto e che abita inaspettatamente tutte le persone. Chi accompagna deve farlo nella gioia del Vangelo.

Accompagnare è grazia attraverso la quale la chiesa stessa può essere rievangelizzata oggi: nella misura in cui rinasce nella comunità il desiderio missionario di farsi compagna di strada, rinasce la comunità stessa, evangelizzata da coloro che accompagna.

4)     Iniziazione cristiana:  una  sfida  complessa  ma  affascinante.  Quali  scelte in Diocesi?

Il compito di ripensare l’iniziazione cristiana può essere paragonato a quello della ristrutturazione di una casa antica e ormai invecchiata, «non per rimettere in valore il suo pregio di antichità (la tradizione) ma per renderla abitabile per gli inquilini di oggi. I quali, tra l’altro, non hanno nessuna intenzione di uscire da essa nel tempo della ristrutturazione». Con questa immagine fr. Enzo Biemmi, FSF, Presidente del Gruppo catecheti europei e Direttore dell’ISSR di Verona, sintetizza la complessità dell’annuncio nei paesi di antica cristianità.

Faccio mie, come vostro Vescovo, nella Diocesi di Cassano all’Jonio, le convinzioni maturate durante questi ultimi anni in Italia nei processi di sperimentazione che hanno cercato    il    superamento    del    tradizionale    «catechismo»    scolastico    settimanale,

 

sintetizzandole in tre punti di convergenza: la convinta scelta della triplice prospettiva missionaria, iniziatica e antropologica; il recupero della centralità della comunità ecclesiale e della famiglia nell’iniziazione cristiana dei ragazzi; la presa in carico da parte di un gruppo variegato di persone del compito complesso dell’iniziazione cristiana.

Se vogliamo dare una svolta a tutto l’itinerario di IC, oltre alla mia disponibilità, è fondamentale la disponibilità dei presbiteri e delle comunità parrocchiali a resistere e durare nel tempo. Dobbiamo essere liberi dalla “concupiscenza dei risultati” e consapevoli che il cambiamento, fidandosi e affidandosi alla grazia dello Spirito, rivitalizza la parrocchia-comunità.

Prima di fare delle proposte concrete, riassumo brevemente quanto ci ha comunicato fratel Enzo Biemmi, sulla crisi della catechesi (più precisamente del genere catechistico) e sulle conseguenti sue sfide all’interno dell’attuale dispositivo di IC in atto.

DA DOVE VENIAMO

Veniamo da quella forma di catechesi che chiamiamo comunemente il “catechismo”, con le sue cinque caratteristiche inconfondibili: una classe, un maestro (il catechista), un libro (il catechismo), un metodo: domanda e risposta; l’obbligo di frequenza (se si vogliono ricevere i sacramenti bisogna mandare i figli al catechismo e come genitori partecipare a un numero minimo di incontri). Malgrado tutto l’impegno profuso dal 1970 a  oggi, il nostro resta un impianto catechistico scolastico. Questo tipo di catechesi ha funzionato senza particolari incrinature perché era in funzione di un dispositivo di iniziazione cristiana indirizzata ai piccoli e finalizzata ai sacramenti da ricevere. Possiamo definirlo un processo di familiarizzazione della fede in preparazione dei sacramenti. Appare piuttosto evidente che un tale dispositivo di iniziazione cristiana ha operato una duplice semplificazione rispetto al modello di iniziazione dei primi secoli della Chiesa: da un’iniziazione riservata agli adulti siamo passati a un’iniziazione per i piccoli, essendo i grandi già cristiani; da una proposta di tirocinio alla vita cristiana siamo arrivati ad una “preparazione per ricevere bene i sacramenti”. Per un simile impianto di iniziazione cristiana l’ora settimanale di catechismo era proprio quello che ci voleva. Questa catechesi e questo dispositivo di iniziazione erano armoniosamente inseriti in un tipo di parrocchia che abbiamo definito della “cura animarum”, la cura delle anime che avveniva tramite una serie di servizi religiosi (la predicazione, la catechesi, le missioni popolari, il catechismo per i sacramenti, la dottrina cristiana per gli adulti nella Domenica pomeriggio, le devozioni, i pellegrinaggi… ), finalizzati a nutrire la fede dei cristiani. La parrocchia si configura così come agenzia di servizi religiosi per persone già credenti in un paese cristiano. Non possiamo non rimanere ammirati da questa armonia dei differenti livelli e da come la Chiesa sia riuscita a trovare il modo giusto di servire il Vangelo. Questo modello di inculturazione della fede era adeguato perché poteva fare conto su tre grembi generatori della fede.

 

TRE GREMBI GENERATORI DELLA FEDE

La fede veniva trasmessa in famiglia, non teoricamente, ma dentro la vita quotidiana. Si trasmetteva per osmosi, nelle vicende e nelle esperienze quotidiane: le feste, i lutti, le difficoltà economiche, il modo con cui si pensava e si parlava, il modo con cui si pregava insieme. Quando iniziava la scuola elementare, la maestra prendeva il testimone e continuava questa educazione religiosa diffusa, essendo la scuola una settimana di educazione morale e religiosa, senza fratture con quello che avveniva in famiglia. Poi c’era il paese, che era una famiglia allargata, il terzo luogo educativo in sintonia con i primi due. Questo sistema sociale costituiva il tessuto generativo per l’educazione umana, morale e religiosa dei ragazzi. Erano tre grembi iniziatori, e iniziavano a vivere, a comportarsi bene, a credere in Dio. Era quello che Joseph Colomb ha definito il “catecumenato sociologico”. La parrocchia non aveva di per sé il compito di generare alla fede, ma di nutrirla, curarla, renderla coerente. Per quello che riguarda la catechesi, occorre essere consapevoli di questo: nessuno dei nostri nonni e delle nostre nonne catechiste si è mai sognato di iniziare alla fede attraverso l’ora del catechismo. L’iniziazione era “sociologica”, il catechismo era il momento cognitivo di un vissuto cristiano diffuso. Noi abbiamo progressivamente assistito al divenire sterile dei tre grembi vitali generatori della fede. Il paese è ora il villaggio globale. La scuola si basa sul principio della laicità. La famiglia sperimenta la difficoltà della trasmissione da una generazione all’altra. Anche gli adulti credenti sono privi di parole per comunicare la fede ai figli.

L’IMPLOSIONE DEL CATECHISMO SETTIMANALE

Cosa è avvenuto nella Chiesa italiana dal 1970 a oggi. A mano a mano che venivano meno i grembi generatori sociologici della fede, abbiamo cominciato a caricare sull’ora settimanale di catechismo il compito di iniziazione alla fede. Siamo stati progressivamente abbandonati da coloro che generavano alla fede. Ci siamo trovati ad assumere questo compito dentro l’ora scolastica settimanale di catechismo. Come può un’ora di lezione iniziare alla fede? Questo spiega “l’implosione” del catechismo, al quale si chiede quello che non è in grado di dare. Attribuire al catechismo il compito di iniziare alla fede costituisce un’impresa impossibile. Proprio l’implosione dell’ora del catechismo ha però permesso di avviare un ripensamento non solo dell’ora di catechismo, ma dell’impianto di iniziazione cristiana e, potenzialmente, della parrocchia.

I TRE GRANDI CAMBIAMENTI DI PROSPETTIVA

Dentro una situazione così complessa, possiamo dire che la Chiesa italiana ha individuato linee di cambiamento non limitandosi al cambio di paradigma della catechesi, ma prima di tutto del processo di iniziazione cristiana.

La prima “linea” di conversione è la prospettiva  missionaria  della pastorale  nella prospettiva del primo annuncio. Si può dire che questo sia, in termini di presa di coscienza ecclesiale, il risultato più consistente del primo decennio, che ha avuto la sua espressione nel Documento sul volto missionario delle parrocchie, nella Nota sul primo annuncio, nella Lettera ai cercatori di Dio e nella Lettera ai catechisti per il quarantesimo del Documento Base. Quest’ultima riassume bene la questione: Molti ritengono che la fede non sia necessaria  per  vivere  bene.  Perciò,  prima  di  educare  alla  fede,  bisogna  suscitarla:  con  il primo annuncio dobbiamo far ardere il cuore delle persone, confidando nella potenza del Vangelo, che chiama ogni uomo alla conversione e ne accompagna tutte le fasi della vita.

Dentro questa proposta di conversione missionaria  della  pastorale spicca, per qualità interpretativa e propositiva, il Documento sul volto missionario delle parrocchie. Viene delineato con lucidità il cambiamento in atto, con l’invito a raccogliere la sfida. Sono indicate le due possibili derive per le nostre parrocchie (l’autoreferenzialità e la riduzione della parrocchia a centro di distribuzione di servizi religiosi), viene proposta la figura di una Chiesa vicina alla vita della gente; si invita a ripartire dal primo annuncio; vengono date preziose indicazioni sull’iniziazione cristiana; viene indicata nella pastorale integrata o a rete la via da percorrere a servizio del Vangelo.

La seconda conversione riguarda il ripensamento del modello di iniziazione cristiana in prospettiva catecumenale. Già autorevolmente richiamato dal Direttorio Generale per la catechesi, che invita a fare del catecumenato il paradigma della stessa catechesi, questo invito ha trovato una proposta di attuazione nelle tre note dei Vescovi italiani sull’Iniziazione cristiana. La seconda nota, in particolare, quella per l’iniziazione cristiana dei ragazzi tra i 7 e i 14 anni, ha ispirato in Italia molte delle sperimentazioni di rinnovamento della prassi ordinaria di iniziazione cristiana dei ragazzi. La terza nota, invece, è la più feconda per ripensare un processo di riscoperta della fede da parte degli adulti. Condividiamo oggi tutti la necessità di un processo di iniziazione cristiana che assuma in pieno l’ispirazione catecumenale. Così la definisce il Direttorio Generale per la catechesi: La concezione del Catecumenato battesimale, come processo formativo  e  vera scuola di fede, offre alla catechesi post-battesimale una dinamica e alcune note qualificanti: l’intensità e l’integrità della formazione; il suo carattere graduale, con tappe definite; il suo legame con riti, simboli e segni, specialmente biblici e liturgici; il suo costante riferimento alla  comunità  cristiana.

La terza conversione consiste in un vero e proprio trasloco. Si tratta della centratura dell’annuncio sugli snodi fondamentali dell’esistenza umana. Il convegno ecclesiale nazionale di Verona, superando l’impostazione centrata sui compiti fondamentali dell’annuncio, della liturgia e della carità, ha invitato «a partire dalla persona e dalla sua esigenza di unità, piuttosto che da una articolazione interna della Chiesa, seppur fondata teologicamente». I cinque ambiti individuati (la vita affettiva, il lavoro e la festa, la fragilità umana, la tradizione, la cittadinanza) sono luoghi di esperienza esemplificativi dell’arco intero della vita e della convivenza umana. Questo dislocamento della proposta di fede dalla logica e organicità del contenuto alla logica e organicità dell’esistenza umana nei suoi snodi fondamentali, apre per la pastorale in prospettiva missionaria il tempo di una esigente e feconda riformulazione. «Mettere la persona al centro costituisce una chiave preziosa per rinnovare in senso missionario la pastorale e superare il rischio del ripiegamento, che può colpire le nostre comunità». Il piano pastorale per il secondo decennio Educare alla vita buona del Vangelo, tra gli obiettivi e le scelte prioritarie, riprende i cinque ambiti di Verona e li indica come piste di evangelizzazione e di contributo educativo. Questi tre cambiamenti di prospettiva (missionaria, iniziatica e antropologica) hanno sostanzialmente cambiato le nostre linee progettuali e costituiscono l’orizzonte nel quale collocare la riflessione e la pratica pastorale delle nostre parrocchie per gli anni a venire. È questa la prima “armonia”, l’orizzonte condiviso del cammino che ci sta davanti nel servizio del vangelo.

 

LE ESPERIENZE IN ATTO (TENTATIVI, SFIDE, DOMANDE APERTE)  E LE PROPOSTE-SCELTE PER LA NOSTRA DIOCESI

E’ sempre fratel Enzo Biemmi che ci viene incontro in tanti suoi articoli ed interventi, in alcuni dei quali fa sintesi di tutte le esperienze messe in campo in alcune Diocesi.

I TRE MODELLI IN ATTO

  1. Il modello strettamente catecumenale
  2. Il modello dei quattro tempi (cfr. Diocesi di Verona)
  3. Il modello consueto con ispirazione catecumenale
  • Un testo per avere un’idea dei tentativi in atto
  1. Il modello strettamente catecumenale.

Tre esperienze fanno da riferimento, per la loro durata e per il peso istituzionale che stanno avendo: quelle delle diocesi di Brescia, di Cremona e di Padova. Queste tre diocesi hanno adottato, per tutte le loro parrocchie, il modello catecumenale, secondo l’articolazione proposta dal RICA e dalle Note della CEI sull’iniziazione cristiana. Pur nelle differenze, si tratta fondamentalmente di percorsi di iniziazione cristiana dei ragazzi centrati sul coinvolgimento dei loro genitori. La proposta prevede un tempo di primo annuncio (dei genitori da soli o insieme ai figli); un percorso di tre anni di scoperta o riscoperta della fede attraverso tappe, riti, consegne e riconsegne; la celebrazione finale unitaria dei sacramenti della cresima e della prima eucaristia nell’ordine corretto (nel periodo pasquale o nella stessa veglia pasquale per la diocesi di Padova); infine un tempo (un anno o due) di mistagogia. Questo modello opera un coraggioso ripensamento di tutto il processo, intervenendo sulle tradizioni parrocchiali e quindi affrontando cambiamenti e resistenze da parte dei tre soggetti implicati: i parroci, i catechisti, i genitori. È un cambiamento esigente, oneroso dal punto di vista formativo e organizzativo.

 

  1. Il modello dei quattro tempi.

Il secondo modello che ha avuto una certa diffusione in Italia non interviene sull’ordine dei sacramenti, ma elimina il catechismo settimanale proponendo per genitori e ragazzi un cammino articolato da tempi di catechesi ed esperienze di vita comunitaria. Il modello di cui parliamo è quello dei 4 tempi della diocesi di Verona, che prevede ogni mese (da ottobre a maggio) 4 tappe: un incontro di evangelizzazione dei genitori (prima settimana); un tempo nelle case per una catechesi familiare, guidata dai genitori (seconda settimana); l’incontro di un pomeriggio per i ragazzi, guidati da un gruppo di accompagnamento, formato dai catechisti tradizionali e da animatori giovani (terza settimana); una domenica insieme delle famiglie (quarta settimana). L’ordine dei sacramenti rimane quello tradizionale, ma la logica del percorso è centrata sugli adulti e sulla comunità ecclesiale. La proposta è fatta in un clima di libertà, mantenendo dove è possibile il doppio percorso tradizionale e rinnovato.

  1. Il modello consueto con ispirazione catecumenale

Infine, in molte parrocchie italiane è rimasto il modello ordinario di iniziazione cristiana, ma sono in atto iniziative, proposte, piccoli cambiamenti che preparano il terreno per una proposta più missionaria, con il coinvolgimento degli genitori e della comunità. In molte diocesi e parrocchie non ci sono ancora le condizioni per cambiamenti strutturali, ma c’è già la necessità di cominciare a immettere nelle abitudini tradizionali una mentalità nuova. Possiamo dire che queste esperienze non modificano il quadro esterno, ma iniziano a immettere l’“ispirazione catecumenale” .

  • Un testo per avere un’idea dei tentativi in atto.

Quanto è estesa  questa situazione nelle parrocchie italiane? L’ultimo osservatorio è avvenuto nei sedici convegni catechistici regionali del 2012, i quali hanno recensito e analizzato le nuove pratiche di iniziazione cristiana delle proprie regioni. Possiamo dire che la situazione è variegata. La maggioranza delle parrocchie italiane procede con il sistema tradizionale, ma il cambiamento si sta diffondendo a macchia di leopardo. Un esempio ci viene dalla regione Sicilia.

Un testo per avere un’idea dei tentativi in atto.

Per farsi un’idea delle esperienze più significative e delle sussidiazioni rispettive ci si può essere utile un testo di Carmelo Sciuto, direttore UCD di Acireale, dal titolo: Rinnovare l’iniziazione cristiana: possiamo fare così. I criteri del “cambiamento”, EDB, Bologna 2016.

ALLORA, CHE FARE IN DIOCESI ?

Mettiamo in campo, con coraggio e sapienza, una pastorale generativa, espressione di una comunità che genera la fede. E cominciamo col rinnovare l’iniziazione cristiana.

La verifica dei tre modelli sperimentati annota senz’altro delle criticità ma evidenzia una rivitalizzazione delle parrocchie soprattutto dove è in atto il modello a ispirazione catecumenale. Tre le criticità: il rinnovamento stenta a decollare se si resta dentro il vecchio modello catechistico, la debole applicabilità della prospettiva catecumenale nel contesto del vecchio modello e la sostenibilità del cambiamento rispetto alle risorse reali delle parrocchie. Il rinnovamento dell’IC pone sempre il problema della sua sostenibilità pratica. Infatti chiunque si avvia ad un rinnovamento, per quanto teologicamente e pastoralmente pensato, si imbatte presto nel problema delle risorse umane e materiali che una tale impresa richiede. Si pensi, ad esempio, a quanto investimento è necessario fare per la formazione dei catechisti e per la creazione di figure laicali in grado di accompagnare nella fede altri adulti come loro; su questo punto le risorse umani ecclesiali sono quasi a zero e ci si limita a “riciclare” di fatto i catechisti dei bambini. Stesso discorso vale per la formazione pastorale dei parroci, che andrebbe ripensata fino alla formazione iniziale nei seminari. Si  pensi anche ai  problemi logistici di una parrocchia che deve moltiplicare i gruppi dei genitori e che non ha gli ambienti per poterli far incontrare fra di loro. Tra l’altro l’ecosostenibilità del rinnovamento riguarda anche le famiglie: quanto è possibile pesare sui genitori moltiplicando incontri quando la loro vita è sottoposta a ritmi già difficili da gestire? Cosa è bene chiedere a loro e cosa non è saggio chiedere? E quale famiglia abbiamo in mente? E l’adulto dov’è? Come e quando incontrarlo?

Nonostante gli interrogativi, i dubbi e le difficoltà, ritengo che in Diocesi possiamo incominciare ad “osare i primi passi” per un rinnovamento dell’IC, all’interno di un progetto di evangelizzazione che mira ad edificare piccole comunità cristiane generative.

DUNQUE

A) Nelle tre Vicarie i parroci, con i rispettivi consigli pastorali, coordinati dal Vicario foraneo e dal Vicario per la Pastorale, supportati dall’Ufficio Catechistico guidato dal Direttore e dall’Ufficio per la Pastorale della Famiglia con il suo Direttore, si imposti un cammino di iniziazione cristiana ad ispirazione catecumenale (cfr. 1 dei tre modelli in atto), che veda la centralità della famiglia-genitori.

Ricordo che gli elementi che connotano tale ispirazione:

 

  • l’importanza di un cammino globale e integrato, fatto di ascolto della Parola, di riti, di fraternità ecclesiale, di testimonianza di vita e di carità;
  • il rilievo decisivo di ciò che precede e segue il tempo del catecumenato, ossia rispettivamente la prima evangelizzazione e la
  • il discernimento che rispetta e promuove la libera e piena rispondenza del soggetto, i suoi ritmi, i suoi tempi (non automatismi dei sacramenti);
  • la connessione  dei  tre  sacramenti  dell’iniziazione  cristiana,  quale  introduzione nell’unico mistero pasquale di Cristo;
  • un percorso che avviene nella comunità, in relazione alla sua vita ordinaria, in primo luogo l’anno liturgico, come cammino di fede della chiesa e del

Come si può vedere, questi cinque indicatori lasciano spazio a più forme di attuazione e non solo al metodo catecumenale in senso stretto. Si può anche notare che sono indicatori generali, che non entrano nell’ordine stesso dei tre sacramenti e della loro celebrazione unitaria: si parla soltanto della loro connessione.

È questo l’orizzonte catecumenale che ha ispirato “per analogia” il rinnovamento della pratica di iniziazione cristiana per ragazzi già battezzati, situazione tipica delle comunità ecclesiali italiane. L’intenzionalità è dunque quella di iniziare alla fede attraverso i sacramenti, e non più di preparare a ricevere i sacramenti. L’intenzionalità è alta: introdurre in un’esperienza di vita, che richiede il primo o secondo annuncio, un tirocinio triennale, un tempo più o meno lungo di “mistagogia”.

La sfida è passare da un cristianesimo di convenzione ad un cristianesimo di convinzione, precisando che la Chiesa non può “affittare il suo utero generativo”.

B) L’Ufficio Catechistico e l’Ufficio per la Pastorale della Famiglia, con i due Direttori, durante l’anno, organizzeranno momenti di formazione qualificata tenendo presente sia la tappa battesimale che la tappa “confessione-comunione-cresima” (tutta l’IC).

Solo una indicazione circa la “tappa battesimale” che prevede una introduzione e tre tempi.

  • Introduzione: un chiarimento sulle motivazioni.
  • Il tempo     dell’attesa.      Dal    concepimento       alla    domanda      del    sacramento (suscitare/risvegliare la fede).
  • Il tempo della preparazione e della celebrazione. Dal percorso pre-battesimale alla celebrazione del battesimo (suscitare/risvegliare/celebrare la fede).
  • Il tempo del cammino post-battesimale: Zero-Tre anni/Quattro-Sette Dal battesimo al completamento della iniziazione cristiana (crescere nella fede)

(nel terzo tempo si può proporre esplicitamente un progressivo avvicinamento all’Oratorio parrocchiale)

Per meglio apprezzare il valore di questo momento, leggiamo quanto ha scritto la teologa Serena Noceti: “Il post-battesimo è il tempo per la comprensione più profonda del mistero celebrato, non solo colto nell’effetto individuale per il singolo che lo riceve (il bambino) ma vissuto come evento ecclesiale, prima di tutto nella trama relazionale della famiglia. Il fare esperienza di vita cristiana, sulla quale si riflette, e l’acquisire le parole per dire il vissuto di fede, con una forte interazione tra piano celebrativo e vita, che sono le due grandi direttrici della mistagogia, sono i tratti che devono caratterizzare anche la pastorale post-battesimale, nel suo livello di vita familiare e in quello degli incontri parrocchiali. Si coglie così concretamente la natura di iniziazione “mediante i sacramenti” e non “ai sacramenti”. La pastorale battesimale può diventare, nell’ambito della svolta dell’iniziazione cristiana a ispirazione catecumenale, chiave di volta e punto di forza per un rinnovamento vero e bello.

Non voglio assolutamente che ci si lasci prendere dall’ansia o dalla fretta di voler subito vedere le cose chiare e precise dal punto di vista organizzativo. L’importante è cominciare, partire, con l’entusiasmo e la fantasia di chi sa che lo Spirito e la sua grazia agiscono soprattutto nella misura in cui noi ci lasciamo fare e coinvolgere.

Sono convinto che, se in ogni Vicaria il cammino di iniziazione cristiana ad ispirazione catecumenale sarà SINODALE e accompagnato contemporaneamente e contestualmente da una formazione, i tre soggetti coinvolti nell’itinerario stesso, la famiglia-genitori, i ragazzi e la comunità-parrocchia, sperimenteranno un cristianesimo desiderabile dove Cristo, centro di tutto, sarà il grande “seduttore”.

 

CONCLUSIONE: IL DOMANI AVRA’ I NOSTRI OCCHI

E’ tempo di osare, senza paura.

O decidiamo di convertire la pastorale o la storia dei prossimi anni ci costringerà necessariamente ad una pastorale in conversione. Senza cedere alla tentazione dei luoghi comuni, ritengo che, in un cambiamento d’epoca, il tempo si è fatto breve per dare inizio al rinnovamento.

“Fuggire ogni pericolo significa fuggire ogni responsabilità: significa rifiutare ogni vocazione. E tutti i pericoli del mondo non devono dispensarci da un’ azione divenuta necessaria” (Henry De Lubach).

Se non osiamo essere comunità generative, se non osiamo una pastorale generativa e una iniziazione cristiana a ispirazione catecumenale perché siamo prigionieri dell’adagio “si è fatto sempre così” o perché vogliamo evitare ogni pericolo e quindi fuggire da ogni responsabilità, rischiamo di non obbedire a ciò che lo Spirito oggi chiede alla nostra chiesa locale.

Con le parole del poeta indiano Tagore,  così  preghiamo: “O Signore, viviamo un tempo difficile, le tenebre nascondono la luce. Ma quando giunge il tempo da te fissato l’impossibile sboccia, il sempre atteso si fa possibile”.

Chiediamo a Gesù, il Risorto, per intercessione di Maria, madre della Chiesa, il dono della mendicanza perseverante, sapendo che “il protagonista della storia è il mendicante”.

Buon anno pastorale.
  Francesco Savino

Cassano all’Jonio, 15 Settembre 2017

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