Statua du san Biagio Cassano allo Ionio Omelie

Festa  di  San  Biagio patrono  della  Diocesi


 

Ez 34, 11-16; Sal 23; Ap 2, 8-11; Gv 10, 11-16 

Venerdì  3  Febbraio 2023

 

Celebriamo oggi con rinnovato stupore la Festa del Patrono della nostra Diocesi, San Biagio, Vescovo e Martire.

Dialogando con la Parola di Dio, poc’anzi proclamata e ascoltata, lasciamoci interrogare sia a livello personale che a livello di Chiesa locale.

S’impone alla nostra attenzione l’immagine del Pastore, immagine che attraversa spesso la storia della salvezza e che racconta con suggestione la relazione, la storia tra Dio e il suo popolo.

Nel libro di Ezechiele leggiamo: «Figlio dell’uomo, profetizza contro i pastori d’Israele, profetizza e riferisci ai pastori: Così dice il Signore Dio: Guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge» (Ez 34, 2-3).

Gerusalemme è caduta! Ezechiele, il profeta-sentinella, nella sua terra desolata dell’esilio avvista un gregge disperso per l’incuria dei suoi pastori: «Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate» (Ez. 34, 4-5).

Per dirla con le parole di Gesù ascoltate nel Vangelo, non sono pastori ma mercenari, perché sfruttano le pecore, si servono di loro per affermare sempre e solo se stessi. Al mercenario non interessa la vita delle pecore. Il mestiere del pastore è un’arte complessa, vive nel rapporto di reciprocità con il gregge, un insieme composito e variegato. Accanto alle pecore grasse e sane ci sono anche quelle fragili, deboli, inferme, ferite, disperse e smarrite, e queste sono pecore bisognose di una cura speciale e specifica da parte del pastore. Il buon pastore è colui che ha sviluppato la capacità di custodire l’intero gregge, che ha allargato il suo sguardo includendo tutte, a cominciare dalle ultime. La leadership del pastore è speciale e diversa, se confrontata con quella del generale in battaglia, del capitano della nave, oppure con la leadership d’impresa. L’obiettivo del pastore vero e responsabile non è la massimizzazione dell’interesse individuale, né del profitto economico, la sua mentalità è la cultura del bene comune, cioè il bene di tutti e di ciascuno, del gregge e di ogni pecora. La cura del bene di tutti non può escludere nessuno perché ogni individuo è legato a tutti gli altri, e la perdita di una sola pecora equivale all’insuccesso generale. Il buon pastore accudisce gli anelli deboli del gregge perché sa che da quelli dipendono la qualità e il buon svolgimento di tutto il suo lavoro, compreso il rendimento degli elementi più forti.

La logica che guida la sua azione è quella del bisogno, che indica ordine, priorità e gerarchie d’intervento.

Il pastore bello e buono, di cui parla il Vangelo di Giovanni, che è Gesù, sottolinea e puntualizza il dono della propria vita per le pecore e la conoscenza profonda ed intima tra lui e le pecore.

L’immagine del pastore secondo la visione profetica di Ezechiele e la visione dell’evangelista Giovanni non possono non invitare me per primo e voi, cari fratelli nel presbiterato, e anche tutti coloro che hanno un compito di guida, pensiamo ai genitori, agli insegnanti, agli uomini e alle donne impegnati nelle istituzioni politiche, ad una verifica del nostro modo di pensare e del nostro stile di vita nelle relazioni con le persone affidate alla nostra cura e responsabilità.

È un grande invito al cambiamento radicale di mente, cuore e relazioni. Mai come in questo cambiamento d’epoca, così complesso, dove sono presenti tanti segni di allontanamento dalla chiesa, dove constatiamo un processo continuo di scristianizzazione, possiamo non domandarci se dipendano anche o soprattutto dalla nostra poca credibilità, riconducibile il più delle volte ad una contraddizione spesso paradossale tra ciò che annunciamo e ciò che viviamo.

San Biagio con la sua vita e il suo martirio incarnò l’immagine vera e autentica del pastore. Visse in maniera rigorosa l’ammonimento dell’apostolo Paolo: “Guai a me se non annuncio il Vangelo!”. Non cedette alla proposta di rinnegare Cristo, perché viveva una relazione profonda con Lui. Sentiva di appartenerGli intimamente. Anche nella prova atroce del martirio non si sentì solo, sentiva di essere con Cristo nel dolore e nella morte. Si sentiva profondamente amato nella umiliazione e nella tortura.

Diceva Sant’Agostino: “È la causa, non la morte, che fa il martire”.

“Il vero martire è colui che è diventato lo strumento di Dio, che ha perduto la sua volontà nella volontà di Dio e che non desidera più niente per se stesso, neppure la gloria di essere un martire” (T.S. Eliot).

È veramente significativa la consapevolezza che ci fa acquisire una riflessione sui martiri di Papa Francesco: “Per trovare i martiri non è necessario andare alle catacombe o al Colosseo: i martiri sono vivi adesso, in tanti Paesi. I cristiani sono perseguitati per la fede. In alcuni Paesi non possono portare la croce: sono puniti se lo fanno. Oggi, nel secolo XXI, la nostra Chiesa è una Chiesa dei martiri”.

Chiediamo questa sera come chiesa diocesana, per intercessione di San Biagio, il dono di essere una chiesa credibile di testimoni, una chiesa che non spreca la grande opportunità del Sinodo che, grazie all’ascolto di tutti, nessuno escluso, soprattutto di chi vive fuori o ai margini delle nostre comunità ecclesiali, possa, attraverso un discernimento comunitario, rilanciare con coraggio l’evangelizzazione, riscoprendosi chiesa missionaria.

E pensando ai 22 Comuni che compongono la nostra Diocesi, chiediamo per loro di essere comunità unite e armoniche, dove prevalga il bene comune e non il bene di qualcuno che genera disuguaglianze e ingiustizie.

   Francesco Savino

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