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Omelia 2 febbraio – Presentazione del Signore


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Carissimi fratelli e sorelle nel Signore,

di gran cuore ho accolto l’invito di  celebrare questa Eucaristia, nella vostra comunità parrocchiale dedicata alla Presentazione del Signore. Saluto il vostro Parroco Don Pietro e lo ringrazio per la sua premura pastorale; insieme a lui saluto l’intera comunità parrocchiale che oggi celebra la sua festa patronale. La mia visita vuole essere un incoraggiamento per continuare ad operare con entusiasmo e dedizione al fine di crescere e maturare insieme nella fede di Gesù Cristo.

Prima della riforma liturgica del 1960 che ha ridato alla festa odierna il nome originario di ‘Presentazione del Signore’, questo giorno era denominato festa della ‘Purificazione di Maria’, a memoria di un evento riportato nel capitolo 2 del Vangelo di Luca, dove si racconta che  Maria Giuseppe e il piccolo Gesù si presentano riservatamente negli vasti spazi del tempio, tra un viavai di gente affaccendata, che prega ad alta voce ed offre sacrifici,  per adempiere alla prescrizione della Legge mosaica. Recare un’offerta  al tempio per riscattare il primogenito, compiere  un rito per rammentare che la vita appartiene a Dio e a Lui ne va riconosciuto il dono.

Con la celebrazione liturgica odierna si chiude il ciclo natalizio e si inizia il percorso verso la Pasqua con la profezia di Simeone. Sono passati quaranta giorni dal Natale e tra qualche giorno col mercoledì delle ceneri inaugureremo il percorso quaresimale.

Abbiamo ascoltato un passo della lettera agli Ebrei che è esplicativo della festa odierna: ci aiuta a cogliere che il Figlio di Dio, solidale con l’umanità, non disdegna di condividere la precarietà dell’umano fino alla morte allo scopo di compiere una liberazione radicale, sconfiggendo in maniera definitiva l’antico nemico, il diavolo, il quale proprio nella morte ha il suo punto di forza su ogni creatura (Eb 2, 14-15).

Con la processione dei ceri all’inizio della celebrazione abbiamo richiamato il maestoso ingresso, cantato nel Salmo responsoriale, di Colui che è “il re della gloria”, “il Signore potente in battaglia” (Sal 23,7.8).

Al centro della liturgia della Parola è stato proclamato l’incontro tra Gesù Bambino e l’anziano Simeone. Per questa ragione, nel mondo greco la festa odierna si chiama  hypapanti = incontro. In tale incontro di un bambino con un anziano, la Chiesa vede abbozzato l’incontro tra il mondo pagano che va svanendo e il nuovo che inizia sotto la signoria di Cristo, tra il tempo dell’Antica Alleanza che sta per finire e il tempo nuovo della Chiesa dei popoli.

Tanti sono i protagonisti del Vangelo: Giuseppe e Maria; Simeone, anziano giudizioso e credente che confida nelle promesse e si abbandona alla guida dello Spirito; Anna, anche lei anziana d’età, che serve Dio con digiuni e preghiere. Tutti hanno intuito chi è quel Bambino che viene presentato al Tempio. Nel prenderlo tra le braccia, il vecchio Simeone sente che la sua vita ha raggiunto la pienezza del compimento e, nel pronunciare il suo nunc dimittis, si dice pronto a varcare la soglia del mistero. Poi c’è Gesù che viene offerto al Padre e, come ogni primogenito, consacrato al Signore. Un’antica antifona liturgica della festa della Presentazione al tempio canta: “Il vecchio portava il Bambino, ma il Bambino dirigeva l’anziano”. Nell’affidare il suo Figlio e suo Dio alle braccia del vegliardo, Maria esprime il suo desiderio di darlo alla vita, al popolo, alla storia benedetta dal Signore.

L’intimo rapporto di Gesù col Padre, così riconosciuto nel tempio, induce a pensare come sia già prefigurata in un certo senso l’offerta che Cristo farà di Sé sulla Croce.

Con Cristo, oggi, tutti noi siamo chiamati ad entrare nel tempio della vita vera. Sussiste, infatti, un’ inspiegabile ma reale solidarietà fra Cristo e ciascuno di noi. A causa di essa, ogni atto compiuto da Cristo è compiuto anche da noi e per noi, dal momento che il Capo non può mai essere separato dalle sue membra.  La presenza divina si trasferisce nella comunità cristiana, i cui singoli membri sono tempio di Jahvèh: «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?» (1Cor 3,16).

La solidarietà fra Gesù offerto al tempio e ciascuno di noi ha la sua radice profonda nella partecipazione sua e nostra alla stessa natura umana debole, esposta al dolore a alla morte: “egli infatti non si prende cura degli angeli, ma della stirpe di Abramo si prende cura”. E, come insegnano i Padri della Chiesa, “Con l’incarnazione, il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo” (Gaudium et spes 22,2).

Alla maniera del vecchio Simeone, anche noi siamo chiamati a farci instancabili contemplatori del volto di Cristo.

Ma che significa contemplare?

Non si tratta solo di concentrare il nostro sguardo sia pure estasiato verso il fascino irresistibile di Cristo, ma di lasciarsi trascinare dalla forza interiore dell’amore, più precisamente dal soffio potente dello Spirito Santo, verso una comunione personale sempre più profonda con il Signore Gesù.

Significa lasciarsi contagiare! Questo contagio – se avviene realmente – ci abilita a identificare il volto di Cristo che oggi si nasconde in chi è ‘affamato, assetato, straniero, nudo, malato, carcerato’ e la via per incontrarlo è la misericordia che si esprime in gesti concreti di amore. Chi li compie, anche se non conosce Cristo, adempie al suo comandamento ed è accolto tra i benedetti dal Padre. Non si parla qui necessariamente di cristiani espliciti, poiché potrebbe trattarsi di “cristiani anonimi” (Karl Rahner) o di “cripto-cristiani” (Ortensio da Spinetoli).

Altro fondamentale aspetto della contemplazione è la sua connessione inscindibile con la missione. A riguardo San Giovanni Paolo II, scriveva “chi ha incontrato veramente Cristo, non può tenerselo per sé, deve annunciarlo” (NMI 40). Se fermiamo lo sguardo sul volto di Cristo Gesù, ne veniamo rischiarati: “Guardate a lui e sarete raggianti” (Salmo 34, 6). Così, a nostra volta, possiamo irradiare questa luce sugli altri. In un certo senso li contagiamo, li sollecitiamo a desiderare anch’essi di vedere il Signore.  Troviamo qui una chiave interpretativa della bellezza e dell’urgenza della missione affidataci: contemplare noi per primi, con una vera passione d’amore, il volto di Cristo perché anche gli altri lo possano contemplare attraverso la testimonianza della nostra vita.

L’immagine di Maria, che ammiriamo mentre offre Gesù nel tempio, simboleggia l’esperienza della Madre ai piedi della croce, anticipandone anche la chiave di lettura. Sul Calvario. Infatti, si adempie l’oblazione del Figlio e, unita ad essa, quella della Madre. Una stessa spada trafigge entrambi, la Madre e il Figlio (cfr Lc 2,35). Lo stesso dolore. Lo stesso amore. Ed è sul calvario che la Mater Jesu diviene Mater Ecclesiae. Il suo itinerario di fede e di consacrazione rappresenta l’archetipo per ogni battezzato. Lo è, in modo singolare, per quanti abbracciano la vita consacrata. Oggi la Chiesa celebra il Giubileo della vita consacrata, che noi, qui a Cassano, abbiamo anticipato Domenica scorsa.

Lodiamo e ringraziamo il Signore per il dono della nostra vita a Cristo e alla sua Chiesa. In noi consacrati, infatti, si esprime in modo eminente il vincolo di Cristo – un vincolo nuziale – con la sua Chiesa e l’appartenenza indivisa ed integra della Chiesa a Cristo. I consacrati  ogni giorno  ricordano che solo Cristo è la luce vera, che solo nel nell’andare incontro a Cristo l’uomo trova la luce e la salvezza.

Quanto è consolante sapere che Maria ci è accanto, come Madre e Maestra, nel nostro itinerario di consacrazione! Oltre che sul piano semplicemente affettivo, lo è più profondamente su quello dell’efficacia soprannaturale, attestata dalle Scritture, dalla Tradizione e dalla testimonianza dei Santi.

O Maria, ti rendiamo grazie per la tua sollecitudine nell’accompagnarci nel cammino della vita, e ti invochiamo: presentaci oggi ancora una volta a Dio, nostro esclusivo bene, perché la nostra vita possa farsi sacrificio vivente a lui gradito.

†  Francesco Savino