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Ordinazione presbiterale di Rocco Lategano


(Cassano – Basilica Cattedrale, 23 Dicembre 2014)

Ml 3,1-4.23-24; Lc 1,57-66

Il Vangelo ci ha portato nella casa di Zaccaria: una casa nella quale il Signore si era reso presente in maniera chiara con la nascita di un bambino; dopo che quella stessa casa era stata segnata dall’attesa e forse anche dalla delusione per un figlio che non arrivava.

Ora però è il momento della festa; una festa alla quale partecipano «vicini e parenti»; presenze belle ma che rischiano di creare qualche ostacolo al piano del Signore; presenze belle e festose ma che fanno fatica a sintonizzarsi in pieno con il piano del Signore.

A Elisabetta che, illuminata dal Signore, riconosce che quel figlio è un segno chiaro del favore del Signore e che, per questo, vuole che si chiami Giovanni, i vicini e i parenti obiettano… ma «non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». Un’obiezione che vuole portare Elisabetta e Zaccaria a trattare quell’evento come un evento qualsiasi senza riconoscere in esso la presenza decisiva del Signore. É il tentativo di ridurre quell’evento e quella nascita straordinaria a uno dei tanti momenti appartenenti alla tradizione.

Ho voluto riportarvi nella casa di Zaccaria; ho voluto fermare la mia attenzione sul clima che, in quella casa, si respirava perché anche a noi può capitare di fare festa, di essere in tanti, di essere emozionati per quello che stiamo vivendo, ma col rischio di appiattire tutto sull’ovvietà; col rischio di non capire cosa il Signore sta per fare in questa nostra Assemblea; con il rischio di non sintonizzarci pienamente col piano del Signore.

«Giovanni è il suo nome». Lo ha detto Elisabetta con chiarezza e lo ha confermato Zaccaria, uscendo da un lungo tempo di silenzio e scrivendolo prima su una tavoletta perché a nessuno sfuggisse.

Ma perché questo imporsi di Elisabetta e di Zaccaria, andando contro la tradizione ed ignorando quello che dicevano «vicini e parenti»?

Quel nome – Giovanni – in ebraico significa «Dio è favorevole». E per gli ebrei il nome dice la storia e il progetto di vita di un uomo. Elisabetta e Zaccaria, insistendo perché il loro figlio si chiamasse Giovanni volevano affermare con decisione quale missione avrebbe caratterizzato la vita del figlio. Egli non è nato per riempire il vuoto di una casa o per saziare la fame di affetto di due anziani coniugi. Giovanni è nato per annunziare con la sua vita e per testimoniare che «Dio è favorevole».

Questo è il suo compito; come questo è il compito di ogni battezzato. Ma questo è soprattutto il compito del Sacerdote: messaggero di un «Dio favorevole».

«Favorevole – come ebbe ad affermare Giovanni Paolo II – all’uomo: vuole la sua vita, la sua salvezza. Dio è favorevole al suo popolo: ne vuole fare una benedizione per tutte le nazioni della terra. Dio è favorevole all’umanità: ne guida il cammino verso la terra dove regnano pace e giustizia».

Imponendo le mani sul tuo capo, Rocco carissimo, e invocando lo Spirito di Dio su di te – come è stato fatto per me e su di me 42 anni fa e com’è stato su tutti noi Sacerdoti – una sola cosa domando al Signore: che dalle tue parole e dai tuoi gesti si possa sempre percepire che sei – o almeno cerchi di essere – un uomo che ha messo la sua vita nelle mani del Signore per dire ai fratelli, senza mai risparmiarsi, che «Dio è favorevole»; per dire ai fratelli che la tua presenza non è una verga che colpisce ma una mano che accarezza e che accompagna; per far percepire con chiarezza ai fratelli, che la tua parola non puzza di arroganza e che, quando predichi, quello che dici non è frutto solo di risentimento nei confronti della vita.

Una sola raccomandazione, che faccio prima a me e che spero possa servire anche ad altri confratelli: attento perché, mentre tu farai la fatica di annunziare un Dio favorevole, ci saranno sempre, come nella casa di Zaccaria, coloro che verranno richiamarti all’ordine, al loro ordine, dicendoti: «Non c’è nessuno nella tua parentela che si chiami Giovanni». Dicendoti cioè che certi tentativi di rinnovare anche la nostra pastorale e la stessa nostra vita di presbiteri sono inutili, tanto … si è fatto sempre così! Attento perché c’è sempre qualcuno, anche tra i confratelli, che vorrà gettare acque sul fuoco del tuo entusiasmo; l’acqua morta dell’appiattimento, l’acqua inquinata del pressappochismo, l’acqua avvelenata del disimpegno, l’acqua puzzolente della maldicenza nei confronti di tutti e di tutto.
Qualora dovessi incontrare gente così, Rocco, non ti far scrupolo di girare alla larga e di rifugiarti nel cuore di Cristo, nelle braccia di Maria, nello sguardo bello e pulito della tanta gente che attraversa le nostre strade, anche se spesso non entra in Chiesa.

Con lo stile deciso e delicato che ci sta trasmettendo Papa Francesco bisogna resistere a tutto ciò che vuole fare della Chiesa, e del clero in particolare, una combriccola di gente che, tradendo Cristo ed il Vangelo, sostituisce l’uno e l’altro con le proprie fisime, ammantandole di sacralità falsa.

E falsa sacralità sono tante volte i nostri gesti non accompagnati da impegno concreto; falsa sacralità sono le nostre parole appena biascicate ma che non trasmettono entusiasmo; falsa sacralità sono le parole dette semmai con gli occhi rivolti al cielo ma prive di vita vera; falsa sacralità sono cerimonie fatte solo per solleticare la curiosità morbosa e l’emotività poco equilibrata di qualcuno senza che da esse vengano fuori gesti carichi di impegno; falsa sacralità sono i nostri vestiti, portati talvolta con tanto sussiego ma di fatto utili solo a coprire grandi miserie.

Proprio perché consapevoli che alla festa della nostra vita, come nella casa di Zaccaria, possono esserci e ci sono persone pronte a dirci «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami Giovanni», chiedo con forza e con insistenza a tutti di pregare per la Chiesa, per il Santo Padre, per noi Sacerdoti, per Rocco e tanto anche per me, perché il Signore scuota prima di tutto me.

✠ don Nunzio