Lettera di Mons. Franceso Savino ai Catechisti e agli operatori pastorali della Diocesi

20-10-2024

veglia missionaria

 

 

Care sorelle e cari fratelli che nella Chiesa di Dio che è in Cassano all’Jonio vivete la corresponsabilità dell’evangelizzazione, il Signore vi dia Pace!

 

  1. Introduzione

 

Mi piace iniziare questa mia lettera con le parole del Santo Patrono d’Italia, Francesco d’Assisi, di cui si celebra l’VIII centenario del dono dei segni della Passione – le stigmate – poiché esprimono l’anelito profondo del cuore di ogni donna e di ogni uomo, quello della Pace, anelito che emerge ancora più forte in un tempo segnato da terribili conflitti e da ombre belligeranti. Con questa consapevolezza, torno a ripetere: il Signore vi dia Pace!

Le ombre di guerra e di morte, che offuscano il nostro presente, alimentano nel nostro cuore pensante la consapevolezza del Dono che abbiamo ricevuto attraverso il sacramento del Battesimo, ricevendo la Luce di Cristo. Siamo continuamente chiamati ad alimentare in noi tale Dono, vivendo sempre come figli della Luce, perseverando nella fede e andando incontro al Signore. Contemporaneamente, pellegrinando in tale Speranza, abbiamo la corresponsabilità di offrire agli altri la Luce che abbiamo accolto e di alimentarla in quanti, liberamente, rispondono alla nostra stessa chiamata e decidono di camminare alla sequela di Cristo, vera Luce del mondo.

Il rito post-battesimale appena evocato, che esplicita, insieme con gli altri riti, il senso profondo del sacramento del Battesimo, mi offre la possibilità di soffermarmi su alcune dimensioni particolarmente importanti e di presentarle alla vostra attenzione, così come ho fatto anche nel corso dell’ultima Assemblea diocesana, alla luce di due momenti significativi che, come Chiesa, stiamo vivendo il cammino sinodale e l’imminente Giubileo del 2025.

 

  1. La grazia dell’essere e di scoprirsi sempre nuovamente discepoli e pellegrini

 

Se c’è un “virus” che come singoli battezzati e come comunità cristiane – parrocchie, gruppi, associazioni, movimenti – possiamo contrarre, un “virus” letale poiché produce la morte dell’autentica esperienza di fede, tale “virus” si chiama “autoreferenzialità”!

L’opportunità del cammino sinodale e il tema individuato da Papa Francesco per il Giubileo del 2025 sono un po’ come il farmaco o, meglio ancora, il “vaccino” per sconfiggere l’attuale “pandemia” che affigge anche le comunità cristiane e produce la morte esistenziale di tanti battezzati.

Consegnando alla Chiesa il documento programmatico per il suo pontificato, ispirato al magistero del grande Papa bresciano – san Paolo VI – papa Francesco stigmatizzava scrivendo: «Come figli di questa epoca, tutti siamo in qualche modo sotto l’influsso della cultura attuale globalizzata, che, pur presentandoci valori e nuove possibilità, può anche limitarci, condizionarci e persino farci ammalare. Riconosco che abbiamo bisogno di creare spazi adatti a motivare e risanare gli operatori pastorali, “luoghi in cui rigenerare la propria fede in Gesù crocifisso e risorto, in cui condividere le proprie domande più profonde e le preoccupazioni del quotidiano, in cui discernere in profondità con criteri evangelici sulla propria esistenza ed esperienza, al fine di orientare al bene e al bello le proprie scelte individuali e sociali”» (EG, 77).

Più avanti, nella stessa Esortazione Apostolica, il Papa ricordava: «Il problema (…) sono le attività vissute male, senza le motivazioni adeguate, senza una spiritualità che permei l’azione e la renda desiderabile. Da qui deriva che i doveri stanchino più di quanto sia ragionevole, e a volte facciano ammalare. Non si tratta di una fatica serena, ma tesa, pesante, insoddisfatta e, in definitiva, non accettata. Questa accidia pastorale può avere diverse origini. Alcuni vi cadono perché portano avanti progetti irrealizzabili e non vivono volentieri quello che con tranquillità potrebbero fare. Altri, perché non accettano la difficile evoluzione dei processi e vogliono che tutto cada dal cielo. Altri, perché si attaccano ad alcuni progetti o a sogni di successo coltivati dalla loro vanità. Altri, per aver perso il contatto reale con la gente, in una spersonalizzazione della pastorale che porta a prestare maggiore attenzione all’organizzazione che alle persone, così che li entusiasma più la “tabella di marcia” che la marcia stessa. Altri cadono nell’accidia perché non sanno aspettare, vogliono dominare il ritmo della vita. L’ansia odierna di arrivare a risultati immediati fa sì che gli operatori pastorali non tollerino facilmente il senso di qualche contraddizione, un apparente fallimento, una critica, una croce» (EG, 82).

Proprio per questo, sono fermamente convinto che l’esperienza del “cammino” e del “pellegrinaggio” costituiscono un vaccino validissimo contro l’autoreferenzialità – figlia della nostra cultura – che viene alimentata quando le attività pastorali sono vissute male, ovvero sono carenti di un’adeguata spiritualità.

Riscoprirsi sempre in “cammino” significa non sentirsi mai arrivati e, soprattutto, rinnovare la consapevolezza di essere sempre alla “sequela” di Gesù!

Forse questa può sembrare una questione scontata, ma non lo è affatto! Anzi, proprio perché la si può dare per scontata, questa questione risulta davvero urgente!

Mentre scrivo queste riflessioni, mi tornano alla mente alcuni episodi evangelici che la liturgia ci ha consegnato nelle domeniche dell’anno liturgico B attraverso la narrazione del Vangelo secondo Marco: quante volte i primi discepoli hanno corso il rischio di dare per scontato e di conseguenza di fraintendere il Signore Gesù? Basti pensare al brano con il quale culmina la prima sezione della narrazione marciana: dopo la bella professione di fede, Pietro cade proprio nella tentazione di dare per scontato il messianismo di Gesù che aveva appena riconosciuto appellandolo quale Cristo, ma subito dopo Gesù stesso dice che Pietro è un “satana” poiché non pensa secondo Dio ma secondo gli uomini e lo invita a mettersi nuovamente alla sequela, a camminare dietro a Lui!

Care sorelle e cari fratelli che generosamente offrite il vostro contributo nel servizio fondamentale ed esaltante dell’evangelizzazione: mettiamoci sempre in discussione, non sentiamoci mai arrivati, rinnoviamo in ogni istante la nostra adesione a Cristo e impegniamoci a seguirlo, a camminare dietro di Lui! È camminando che si apre cammino!

Ma questo cammino, questo pellegrinaggio verso Cristo, nostra Speranza, è possibile solo “insieme”!

Anche qui, permettetemi di ricordare due “tentazioni” nel faticoso cammino dei primi discepoli, consegnate sempre dall’evangelista Marco: quella di primeggiare e quella del chiacchiericcio.

Le richiamo, riportando semplicemente la narrazione evangelica, che affido alla riflessione di ciascuna e di ciascuno:

  1. «Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo per la strada?”. Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”. E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato”» (Mc 9, 33-37).
  2. «Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: “Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo”. Egli disse loro: “Che cosa volete che io faccia per voi?”. Gli risposero: “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. Gesù disse loro: “Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?”. Gli risposero: “Lo possiamo”. E Gesù disse loro: “Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato”. Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”» (Mc 10, 35-45).

Alla luce di questi due episodi, mi piace riconsegnarvi le seguenti parole di Papa Francesco: «Chiediamo al Signore che ci faccia comprendere la legge dell’amore. Che buona cosa è avere questa legge! Quanto ci fa bene amarci gli uni gli altri al di là di tutto! Sì, al di là di tutto! A ciascuno di noi è diretta l’esortazione paolina: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene” (Rm 12,21). E ancora: “Non stanchiamoci di fare il bene” (Gal 6,9). Tutti abbiamo simpatie ed antipatie, e forse proprio in questo momento siamo arrabbiati con qualcuno. Diciamo almeno al Signore: “Signore, sono arrabbiato con questo, con quella. Ti prego per lui e per lei”. Pregare per la persona con cui siamo irritati è un bel passo verso l’amore, ed è un atto di evangelizzazione. Facciamolo oggi! Non lasciamoci rubare l’ideale dell’amore fraterno!» (EG, 101).

È seguendo Gesù, lasciandosi stringere sempre più strettamente a Lui, immergendosi sempre più profondamente nel Suo Amore, che si cresce seriamente anche nella fraternità, superando tutte quelle dinamiche extra e intra ecclesiali che minano la nostra identità profonda di battezzati!

Permettetemi di richiamare ancora il magistero di Papa Francesco, che si colloca proprio in questa direzione: «Questa è un’esperienza bella, e un po’ paradossale. Perché? Perché chi mette al centro della propria vita Cristo, si decentra! Più ti unisci a Gesù e Lui diventa il centro della tua vita, più Lui ti fa uscire da te stesso, ti decentra e ti apre agli altri. Questo è il vero dinamismo dell’amore, questo è il movimento di Dio stesso! Dio è il centro, ma è sempre dono di sé, relazione, vita che si comunica… Così diventiamo anche noi se rimaniamo uniti a Cristo, Lui ci fa entrare in questo dinamismo dell’amore. Dove c’è vera vita in Cristo, c’è apertura all’altro, c’è uscita da sé per andare incontro all’altro nel nome di Cristo. E questo è il lavoro del catechista: uscire continuamente da sé per amore, per testimoniare Gesù e parlare di Gesù, predicare Gesù. Questo è importante perché lo fa il Signore: è proprio il Signore che ci spinge a uscire» (Discorso ai partecipanti al Congresso internazionale sulla catechesi, 27 settembre 2013).

 

 

 

 

 

 

  1. Lo “stile” è la prima forma di annuncio

 

All’inizio della mia lettera ho richiamato il “saluto/augurio” del Santo Patrono d’Italia. Avviandomi verso la conclusione, vorrei richiamare ora un’espressione di san Francesco d’Assisi, che mi è particolarmente cara: «Predicate sempre il Vangelo, e se fosse necessario anche con le parole».

Il riferimento è alla Regola non bollata (1221), precisamente al capitolo XVI (FF, 43), dove si indica uno stile di missione caratterizzato insieme da grande mitezza e forza straordinaria. «I frati poi che vanno tra gli infedeli possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti né dispute, ma siano soggetti a ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che piace a Dio, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, creatore di tutte le cose, e nel Figlio redentore e salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani».

Ecco un programma di annuncio del Vangelo attuale agli inizi del Duecento e attualissimo ai giorni nostri: prima la testimonianza, la forma di vita del Vangelo condivisa con i fratelli nella gioia (questo sta a significare senza liti o dispute); restando sottomessi a ogni creatura, come invita a fare la prima lettera di Pietro (cfr. 2, 13), nella condizione di chi si mette all’ultimo posto per riconoscere a tutti dignità senza confronti o sottrazioni. «I due “modi” – ci avvisa una nota a piè di pagina delle Fonti Francescane – sono evangelicamente, storicamente e teologicamente commisurati al mondo dei credenti musulmani: di contro alla sperimentata, inutile violenza delle crociate, ecco lo stile della mitezza e della testimonianza cristiana; a completamento del comune monoteismo derivato dalla fede abramitica, ecco l’annuncio del mistero trinitario e della redenzione nel Verbo incarnato per mezzo dei sacramenti affidati alla Chiesa».

Quanto bisogno abbiamo di recuperare questo “stile” che è davvero “sostanza”, poiché è esattamente lo stile di Gesù, alla cui sequela dobbiamo procedere per poterlo efficacemente annunciare e testimoniare quale Luce vera del mondo e quale Pace piena e definitiva!

È questa la missione della Chiesa in questo nostro tempo! Ce lo ricordava già san Giovanni XXIII nel suo discorso per l’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II: « Dopo quasi venti secoli, le situazioni e i problemi gravissimi che l’umanità deve affrontare non mutano; infatti Cristo occupa sempre il posto centrale della storia e della vita: gli uomini o aderiscono a lui e alla sua Chiesa, e godono così della luce, della bontà, del giusto ordine e del bene della pace; oppure vivono senza di lui o combattono contro di lui e restano deliberatamente fuori della Chiesa, e per questo tra loro c’è confusione, le mutue relazioni diventano difficili, incombe il pericolo di guerre sanguinose. (…). Così stando le cose, la Chiesa Cattolica, mentre con questo Concilio Ecumenico innalza la fiaccola della verità cattolica, vuole mostrarsi madre amorevolissima di tutti, benigna, paziente, mossa da misericordia e da bontà verso i figli da lei separati. All’umanità travagliata da tante difficoltà essa dice, come già Pietro a quel povero che gli aveva chiesto l’elemosina: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!” (At 3,6). In altri termini, la Chiesa offre agli uomini dei nostri tempi non ricchezze caduche, né promette una felicità soltanto terrena; ma dispensa i beni della grazia soprannaturale, i quali, elevando gli uomini alla dignità di figli di Dio, sono di così valida difesa ed aiuto a rendere più umana la loro vita; apre le sorgenti della sua fecondissima dottrina, con la quale gli uomini, illuminati dalla luce di Cristo, riescono a comprendere a fondo che cosa essi realmente sono, di quale dignità sono insigniti, a quale meta devono tendere; infine, per mezzo dei suoi figli manifesta ovunque la grandezza della carità cristiana, di cui null’altro è più valido per estirpare i semi delle discordie, nulla più efficace per favorire la concordia, la giusta pace e l’unione fraterna di tutti» (Solenne apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962: AAS 54 [1962], 786-787. 792-793).

 

 

  1. Conclusione

 

Alla luce di quanto vi ho condiviso finora, mi piace concludere questa lettera che vi ho indirizzata e che è sgorgata dalle viscere più profonde del mio cuore, colmo di gratitudine per il vostro servizio ecclesiale, con queste parole di Papa Francesco: «La prima motivazione per evangelizzare è l’amore di Gesù che abbiamo ricevuto, l’esperienza di essere salvati da Lui che ci spinge ad amarlo sempre di più. Però, che amore è quello che non sente la necessità di parlare della persona amata, di presentarla, di farla conoscere? Se non proviamo l’intenso desiderio di comunicarlo, abbiamo bisogno di soffermarci in preghiera per chiedere a Lui che torni ad affascinarci. Abbiamo bisogno d’implorare ogni giorno, di chiedere la sua grazia perché apra il nostro cuore freddo e scuota la nostra vita tiepida e superficiale. Posti dinanzi a Lui con il cuore aperto, lasciando che Lui ci contempli, riconosciamo questo sguardo d’amore che scoprì Natanaele il giorno in cui Gesù si fece presente e gli disse: “Io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi” (Gv 1,48). Che dolce è stare davanti a un crocifisso, o in ginocchio davanti al Santissimo, e semplicemente essere davanti ai suoi occhi! Quanto bene ci fa lasciare che Egli torni a toccare la nostra esistenza e ci lanci a comunicare la sua nuova vita! Dunque, ciò che succede è che, in definitiva, “quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo” (1 Gv 1,3). La migliore motivazione per decidersi a comunicare il Vangelo è contemplarlo con amore, è sostare sulle sue pagine e leggerlo con il cuore. Se lo accostiamo in questo modo, la sua bellezza ci stupisce, torna ogni volta ad affascinarci. Perciò è urgente ricuperare uno spirito contemplativo, che ci permetta di riscoprire ogni giorno che siamo depositari di un bene che umanizza, che aiuta a condurre una vita nuova. Non c’è niente di meglio da trasmettere agli altri» (EG, 264).

 

Care sorelle e cari fratelli, grazie di cuore per il vostro servizio!

Camminiamo insieme alla sequela di Cristo, amandoLo e amandoci, e irradieremo la Sua Luce e la Bellezza attraente del Suo Volto!

Buon anno pastorale e che il Signore vi dia Pace!

 

 

                                    Vostro

                     + don Francesco, Vescovo

 

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