XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (anno B)
Ger 31,7-9; Sal 125; Eb 5,1-6; Mc 10,46-52
Ministero di Lettorato e Accolitato di Simone Capraro
Ministero di Lettorato di Vincenzo Cannizzaro e Francesco Pio Pisilli
Candidato all’Ordine Sacro di Sumit Pashant Bara
27 Ottobre 2024
Il brano del Vangelo di questa Domenica occupa un posto chiave nel Vangelo di Marco, Vangelo narrativo, geografico e simbolico.
Viene raccontato l’ultimo miracolo operato da Gesù alla soglia del suo ingresso in Gerusalemme (Mc 11, 1), a voler dire che il suo prima e il suo dopo vanno letti come accadimento di illuminazione.
Vedere, infatti, significa capire, acconsentire a un messaggio, aderire a una persona, credere.
Seguiamo il testo entrando in dialogo, un dialogo che sia per noi, cristiani di oggi, generativo di una fede responsabile.
Siamo a Gerico, la porta della Giudea a oriente. Non solo i discepoli ma molti altri seguono Gesù. Un uomo marginale, sta sul ciglio della strada, totalmente dipendente: è un mendicante cieco, “prigioniero” della sua situazione, è un prostrato, un seduto, comunque un uomo. Ha un nome, Bartimeo, figlio di Timeo, che ha un grande desiderio, guarire, ed ha un orecchio molto sensibile a fiutare chi passa per la sua strada.
Udito che Gesù sta per passare, inizia a gridare: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me”.
“In questo grido vi è una grande spontaneità, vi è la sua fede giudaica nel Messia veniente, vi è l’attesa di una guarigione, della salvezza, vi è la forza di gridare e di farsi sentire, nella personale convinzione che quel rabbi può fare qualcosa per lui, dunque è un maestro capace di cura e di amore verso chi incontra. Bartimeo ripete con altre parole quanto aveva affermato Pietro: “Tu sei il Cristo” (Mc 8,29). In quel caso però Pietro era stato immediatamente rimproverato da Gesù per la sua incapacità di comprendere la sua vera messianicità (cfr. Mc 8,30-34). Il figlio di Timeo sta invece di fronte al figlio di David, animato dalla fiducia che il Messia avrebbe aperto gli occhi ai ciechi, compiendo anche in questo le sante Scritture (cfr. Is 35,5; 42,7)” (Enzo Bianchi).
Tra Gesù e chi lo cerca, allora come adesso, c’è sempre qualcuno che vuole ostacolare l’incontro: “Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!»”.
Gesù si ferma e lo manda a chiamare. “Chiamarono il cieco dicendogli: «Coraggio! Alzati, ti chiama». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù”.
Il cieco è un povero che non ha nulla, se non il mantello, segno della sua identità di escluso, unica sua proprietà.
Al contrario dell’uomo ricco che non aveva saputo liberarsi della zavorra dei suoi beni, e dunque se ne era andato triste (cfr. Mc 10,21-22), Bartimeo si spoglia di ogni pur minima sicurezza, del suo passato, della sua stessa vita, e balzando in piedi si mette in movimento a tentoni e viene da Gesù. Grande è l’ardire di quest’uomo che nasce dalla sua libertà: nella sua nuda povertà e nella sua cecità sta di fronte a Gesù, attendendo tutto da lui… Il Maestro non presume il bisogno di chi lo ha invocato, non si rivolge a lui in modo meccanico e anonimo, ma proprio per conoscere dalle sue parole il bisogno che lo abita gli domanda: “Che cosa vuoi che io faccia per te?”. E Bartimeo risponde, con un tono di confidenza umile e audace: “Rabbunì, mio maestro, che io veda di nuovo!”. La preghiera è desiderio espresso davanti a Gesù, e Bartimeo desidera vedere, ben oltre la semplice visione con gli occhi: vuole vedere anche con il cuore, vuole vedere nella fede, vuole essere nella luce e non nella tenebra…
Gesù è sempre attento ad ogni persona che incontra, empaticamente, e quindi si rivolge al cieco con una parola straordinaria: “Va’, la tua fede ti ha salvato”, parole che Egli ha ripetuto spesso a chi gli chiedeva salvezza. È bello ed è significativo sottolineare la parola «Va’» che Gesù rivolge al cieco, una parola che, senza chiedergli nulla, lo invita a mettersi in cammino. Gesù è libero in ogni sua relazione e, con fiducia, dà libertà alle persone che incontrandolo sperimentano guarigione e salvezza.
La guarigione di Bartimeo non è soltanto fisica ma è evento di salvezza: “E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada”.
Annota significativamente Enzo Bianchi: “Questo episodio è molto di più di un semplice racconto di miracolo, come il lettore di Marco può ormai capire. Gesù sta per entrare nella città santa per la sua passione e morte, ma i suoi Dodici discepoli lungo tutto quel cammino sono rimasti ciechi. Ascoltavano le sue parole ma non capivano, mostrando di essere ben lontani dal vedere gli eventi come li vedeva Gesù: prima Pietro (cfr. Mc 8,32), poi tutti e Dodici (cfr. Mc 9,34), infine Giacomo e Giovanni (cfr. Mc 10,35-37) sono sembrati ciechi di fronte a ogni rivelazione fatta loro da Gesù. Ma ora ogni lettore può identificarsi con questo cieco di Gerico; deve solo prendere coscienza della propria cecità, gridare al Signore: “Abbi pietà di me!” e avere fede che egli può strapparlo dalla tenebra e fargli vedere ciò che i suoi occhi non riescono a vedere. Sì, in quel mettersi in cammino dietro a Gesù, Bartimeo è per noi più esemplare dei Dodici. Dunque? Ognuno di noi si metta davanti al Signore Gesù e, guardando a lui con fede e attesa, si scoprirà non vedente. Abbia allora la forza e il coraggio di gridargli solo: “Signore, abbi pietà di me”, “Kýrie eleison”, questa invocazione brevissima eppure così completa rivolta a lui, con piena fiducia che egli può salvarci”.
“La fede …consiste nella semplicità di un riconoscimento per essere stati calamitati, presi, come fu per Bartimeo: ‘Che io veda’, che io sia preso. ‘E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada’ (Mc 10,51-52). La sequela non è un nostro sforzo. La sequela è perché non vogliamo perderci quello che abbiamo visto” (Julian Carròn).
È sempre illuminante la Parola di Dio, carissimi seminaristi Simone, Vincenzo, Francesco Pio e Sumit, che oggi vivete una tappa importante nel vostro cammino di discernimento verso il presbiterato.
Tu Sumit questa sera vieni ammesso all’Ordine Sacro. È il primo “Eccomi” che pronunci non solo nel tuo cuore, ma di fronte alla comunità, alla Chiesa diocesana: in questo “Eccomi” c’è tutta la tua libertà. Che cosa quest’ultima dice a tutti noi? Che accetti la chiamata del Signore e ti consegni con fiducia alla Chiesa che è madre e maestra, chiamata a discernere la tua vocazione e ad offrirti un cammino responsabile di formazione nella comunità del Seminario e nella tua esperienza di servizio nella parrocchia dove sei mandato. Io, tuo Vescovo, e tutta la Chiesa locale, siamo con te, ti siamo grati per la tua testimonianza di disponibilità alla volontà del Signore e della tua docilità alla Chiesa tutta. Ti assicuriamo la nostra vicinanza e la nostra costante preghiera, non solo stasera, ma per tutto il cammino che continuerai a vivere nei prossimi anni. Caro Sumit non smettere mai di cercare Cristo!
A voi Simone, Vincenzo e Francesco Pio, questa sera viene conferito il Ministero del Lettorato. Siete chiamati ad essere custodi e ministri responsabili del seme della Parola. L’immagine del seme, riferita alla Parola di Dio, suggerisce l’idea di una rigenerazione e di una rinascita.
Infatti Pietro nella sua Prima Lettera così scrive: “Rigenerati non da un seme corruttibile ma immortale, cioè dalla Parola di Dio viva ed eterna” (1Pt 1, 23). È chiaro che occorre essere docili alla Parola di Dio perchè possa fruttificare, e per essere docili è necessario dissodare il “terreno” per renderlo capace di portare molto frutto. San Giovanni Crisostomo, commentando il Vangelo di San Matteo, così diceva: “La qualità del terreno è il principio della differenza. Non è né il coltivatore né la semente, bensì la terra in cui è accolta. Conseguentemente, la responsabile è la nostra volontà, non la nostra natura (…)”. Bisogna anzitutto ascoltare con attenzione la parola e custodirla fedelmente nella memoria. Quindi occorre allenarsi con coraggio per metterla in pratica. La parola sia lampada per i vostri passi e luce sul vostro cammino (cfr. Sal 119,105). Come suggerisce sant’Agostino, fate in modo che essa diventi lo specchio della vostra anima: «Ti sia come specchio la sacra Scrittura. Questo specchio ha un riflesso non menzognero, un riflesso che non adula, che non ha preferenze per alcuno. Se sei bello, lì ti vedrai bello; se sei brutto, lì ti vedrai brutto. Quando però sei brutto e prendi lo specchio e lì ti riscontri essere brutto, non incolpare lo specchio. Torna in te: lo specchio non ti inganna; non essere tu a ingannare te stesso. Giùdicati, rattrìstati della tua bruttezza, di modo che, lasciando lo specchio e allontanandoti rattristato, perché sei brutto, una volta corretto puoi ritornare bello”.
Caro Simone, ricevendo questa sera anche il Ministero dell’Accolitato, ti disponi a metterti a servizio dell’altare del Signore. Ti viene affidato il compito di aiutare i presbiteri e i diaconi nello svolgimento delle loro funzioni, e come ministro straordinario potrai distribuire l’Eucarestia.
Vieni chiamato ad essere promotore della vita liturgica della comunità!
Questo ministero mette in risalto l’intimo legame che esiste fra la Liturgia e la Carità. Il tuo servizio di carità, offerto ai fratelli durante la celebrazione eucaristica, deve estendersi e diventare sollecitudine verso i lontani, gli assenti, i malati, coloro che sono nella difficoltà o nel bisogno. Dovrai suscitare e curare nella parrocchia e nei gruppi caritativi le molteplici forme di condivisione, di solidarietà, di promozione umana per rispondere alle numerose e svariate attese che si manifestano nei contesti dell’emarginazione, della povertà, della terza età, della malattia.
Ricordati ciò che sant’Agostino esortava: “«Se non vuoi interrompere la preghiera, non cessare mai di desiderare. Il tuo desiderio continuo sarà la tua continua voce. […] Tacerai se cesserai di amare. […] Il gelo della carità è il silenzio del cuore; l’ardore della carità è il grido del cuore. Se sempre permane la carità, tu sempre gridi; se sempre gridi, sempre desideri […]. Se dentro al cuore c’è il desiderio, c’è anche il gemito; non sempre giunge alle orecchie degli uomini, ma mai resta lontano dalle orecchie di Dio».
Caro Simone, ho imparato a conoscerti in profondità e so quanto questa sera ti mancano la tua cara mamma e la tua cara sorella, che malattie, ad oggi inguaribili, ti hanno portato via. Conosco anche la tua fede nel Signore Risorto che senz’altro ti fa sperimentare la loro presenza in un modo alto e altro.
Cari seminaristi, vi vogliamo bene, siete l’“adesso” di Dio e sono profondamente convinto che grandi cose il Signore compirà in voi e attraverso di voi.
Gli auguri più belli.
✠ Francesco Savino