La Speranza: Ars resurgendi
Assisi, Cittadella Laudato Sì
24 Agosto 2024
- Premessa
Facendo riferimento ai titoli di alcuni interventi che hanno preceduto il mio, potrei iniziare con un’affermazione di sintesi che suonerebbe più o meno così:
“sperare sotto questo unico tetto (intervento del prof. Autiero), tra l’ordine e il disordine dell’umanità e del mondo (intervento dei prof. Natoli e Guenzi) … è una gran bella sfida”. E questa sfida per essere affrontata richiede due punti fermi.
- Innanzitutto, occorre adottare un punto di vista osservazionale realista che implacabilmente ci inchioda alla verità di quanto stiamo vivendo. E senza mezzi termini, in base agli eventi che stiamo registrando, possiamo dire che l’umanità si trova a vivere un tornante critico della storia che sembra corrispondere a una sorta di blackout della speranza.
- Tuttavia, nonostante i rischi a cui l’umanità è più o meno consapevolmente sottoposta, non deve esserci spazio per la rassegnazione. Continuare a ricercare spazi di speranza, nel tentativo di estenderli sempre di più, perciò, è il primo e fondamentale impegno che ogni persona umana deve assumersi, sia a livello personale che comunitario. D’altra parte, bisogna riconoscere che è dilagante lo sconforto personale e che, di conseguenza, va curato. Nel corso della storia umana, infatti, questo sentimento di sconforto personale si è dimostrato essere l’anticamera della disperazione generale e totale. Soprattutto ai cristiani, perciò, è richiesto il dovere di sostituire il “principio disperazione” con il “principio speranza”. È un dovere di natura “ontologica”, innestato nell’essere umano dalla grazia battesimale che si sprigiona dal Risorto, come ricorda l’antica Sequenza pasquale: Surrexit Christus spes mea: precedet vos … Meglio ancora: quello di sperare, prima ancora di essere un dovere, è un nostro diritto che poi si fa compito che non possiamo disattendere. In contesti sociali come quelli odierni, segnati dalle incertezze e dalle frammentazioni, la speranza diventa una urgenza rinnovata qualcosa che non deve rimanere un auspicio, un buon sentimento da sfoderare per rabbonire le masse, ma che deve avere l’ambizione di essere una vera e propria pratica e stile di vita che orienti non solo il cammino o i cammini pastorali ma le intere comunità umane. Bisogna ricercare la dimensione escatologica della speranza, quella per cui il teologo tedesco Karl Rahner ha tracciato il contorno dello sperare come quello di una forza che ci consente di accettare la nostra finitudine, di guardare oltre il presente e di affidarci completamente alla misericordia divina.[1] Che meraviglia questa idea di una speranza intimamente connessa alla condizione umana, alla natura creaturale dell’uomo, che è consapevole della propria finitezza ed è naturalmente incline al senso di precarietà. In questa giostra del finito, la speranza non rappresenta un’aspettativa su un futuro migliore ma una forza interiore che permette di accettare il presente con coraggio, radicandosi nella fede e nella fiducia. La speranza non è, dunque, un desiderio di futuro remoto ma una eradicazione della fiducia. Non a caso, lo stesso Rahner distingue due tipologie di speranza: quella quotidiana e quella ultima; la prima parziale e temporanea e, oserei dire, dai connotati umani troppo umani, è legata ai desideri ed alle aspettative che abbiamo per la nostra vita: la salute, il benessere, la ricchezza, la felicità. E poi, la speranza ultima, radicata nel Regno del Padre e nel Segno del Padre. Questa Speranza orienta le speranze e ci da’ una lezione importante: il nostro destino finale è la comunione con Dio. E’ così che Speranza e Fiducia diventano due risposte alla grazia del Padre, che è amore e misericordia ma anche rivelazione e attesa che si compia la promessa che Dio ha reso come trama di salvezza.[2] Per questo motivo la speranza è “quella cosa piumata”, come leggono gli innamorati nelle parole di Emily Dickinson, quella cosa, indefinita, fragile ma persistente, che sostiene l’anima anche nelle tempeste della vita, che canta melodie in silenzio, quasi a descriverne la sua natura resiliente, il suo cibarsi del nonostante tutto. Ecco perché, a noi cristiani, viene chiesto il “magis”, il di più che incoraggi tutti gli uomini e tutte le donne del mondo ad affrontare con coraggio le sfide del nostro tempo e a lavorare alacremente alla costituzione di un mondo che sia a misura di bambino. Ecco cosa può essere la speranza, la lente di un bambino che osserva, gioisce, condivide, piange pure, ma lo fa con innocenza. Proprio in questi termini (“diritto a sperare”) si espresse Papa Francesco nell’omelia della veglia pasquale nella notte santa, l’11 aprile del 2020:
Stanotte conquistiamo un diritto fondamentale, che non ci sarà tolto: il diritto alla speranza. È una speranza nuova, viva, che viene da Dio. Non è mero ottimismo, non è una pacca sulle spalle o un incoraggiamento di circostanza, con un sorriso di passaggio. No. È un dono del Cielo, che non potevamo procurarci da soli. Tutto andrà bene, diciamo con tenacia in queste settimane, aggrappandoci alla bellezza della nostra umanità e facendo salire dal cuore parole di incoraggiamento. Ma, con l’andare dei giorni e il crescere dei timori, anche la speranza più audace può evaporare. La speranza di Gesù è diversa. Immette nel cuore la certezza che Dio sa volgere tutto al bene, perché persino dalla tomba fa uscire la vita.
- Un’istantanea del tempo presente: il lockdown della speranza
Fatta questa premessa, per analizzare il tempo presente, potremmo partire dall’analizzare i titoli dei libri che sono stati recentemente pubblicati e che, in qualche modo, rappresentano lo specchio del tempo che ci troviamo ad abitare.
In effetti, sono numerosi i saggi che cercano di spiegare i motivi per cui oggi, in una situazione globale così compromessa, è così difficile sperare. Alla base c’è una oggettiva complessa situazione che ha condotto gli analisti a implementare sempre più, anche in Italia, il neologismo di permacrisi, termine in uso in Inghilterra già dagli anni ’70, ma che con lo scoppio della pandemia, con l’invasione russa in Ucraina, con il rischio della guerra nucleare e con la devastazione ambientale, è diventato sempre più una parola di uso comune, tanto che il dizionario Collins l’ha definita la parola dell’anno per il 2022!
Tuttavia, non mancano altri testi che, adottando un approccio più costruttivo, tentano di indicare alcune bussole utili a uscire dal vortice di questa crisi permanente all’interno del quale l’umanità si è infilata e ingabbiata… portandosi insieme anche la devastante crisi ambientale che è sempre conseguenza di quell’approccio antropologico dispotico e deviato, che Papa Francesco ha ben descritto nell’enciclica Laudato si’.
In “Teologia della speranza” Jurgen Moltmann, uno dei più influenti teologi protestanti del XX secolo, ha elaborato una concezione di speranza che ha segnato profondamente non solo la teologia contemporanea ma in generale la nostra percezione della stessa. Una teologia che fa della speranza una genesi di responsabilità, che include quella di prendersi cura del mondo e del mondo naturale, in modo inclusivo e globale.[3] Moltmann ha la grande intuizione di slegare la speranza dall’ essere una virtù privata o individuale per conferirle un aspetto politico. Non dunque un pass per l’aldilà ma una sedia per l’al di qua, una forza attiva che agisce nel mondo. Per questo la speranza è rivoluzionaria perché, essendo un fatto sociale, ci spinge ad avere uno sguardo con-diviso, a non accettare le ingiustizie e ad attuare un impegno che si traduca in cambiamento delle strutture sociali, economiche, ambientali e politiche. Ecco perché non dobbiamo cadere nell’errore di pensare alla speranza come ad un semplice conforto dell’anima, una mera spiritualizzazione, perché essa è strettamente connessa alla realtà storica, profondamente radicata in quel presente che strizza l’occhio ad un futuro di redenzione e liberazione. In questo senso, se mi chiedeste allora una definizione di speranza direi che la Croce è la Speranza; due facce della stessa medaglia perché la prima è luogo teologico, il punto di confine in cui Dio, sacrificando suo Figlio, si è identificato con le vittime della storia, con i sofferenti e gli oppressi; la seconda sorge da questa identificazione che è capace di trasformare e trasfigurare il mondo. E’ la Risurrezione di Cristo, che segue la croce, la garanzia che la speranza di noi cristiani non è vana, che il male non ha l’ultima parola sulla vita.
A questo proposito, è interessante menzionare un testo del Prof. Raffaele Simone, edito lo scorso anno con Solferino, dal titolo Divertimento con rovine. La nostra vita tra guerra e pandemia, che evidenzia il senso della realtà attuale: in così pochi anni si sono concentrati alcuni “eventi fatali” che hanno terremotato le fondamenta di una civiltà che sembrava avere gli anticorpi giusti per ogni evenienza e che invece si è trovata profondamente insidiata in tutte quelle certezze, salde solo in apparenza. Parafrasando una espressione molto cara a G. Marcel e in qualche modo riutilizzata da Papa Francesco, potremmo dire che mai come oggi stiamo assistendo ad un mondo in frantumi, ad una guerra a pezzi, che ogni giorno di più, sta vedendo unire questi pezzi per diventare totale, dove totale non ha solo una accezione spaziale-geografica (che riguarda tutto il mondo), ma soprattutto un’accezione epistemologica, volta quindi a indicare la trasversalità e la capillarità del fenomeno critico che coinvolge ogni livello della vita umana.
- Virtus resurgendi: superare l’atteggiamento apofatico per guardare oltre
Dinanzi al male del/nel mondo, spesso si resta muti. Il male intorpidisce e spesso inchioda al silenzio sia chi vi assiste, sia chi lo subisce. In tal senso, risulta opportuna la citazione di una frase lapidaria e terribile attribuita ad Adorno che, seppur appartenente a un’altra fase storica, descrive comunque bene ogni situazione di prostrazione sociale, politica, morale e spirituale:
«Dopo Auschwitz, scrivere poesie è un gesto di barbarie».
Ovviamente, Adorno si riferiva al fatto che la brutalità della Shoa, ha ucciso la poesia, l’ha resa in-scrivibile, il-leggibile, impraticabile. Lo sterminio, a suo avviso, ha messo fine all’arte come bellezza, alla poesia, alla musica. Il male dello sterminio ha messo una pietra tombale su ogni forma di bellezza.
Per quanto rispettabile, questa visione apofatica sul dolore e sul male chiede di essere corretta con un approccio più incisivo e coraggioso. Perché al male occorre dare un nome, occorre definirlo per poterlo successivamente combattere: è questa la visione offerta anche da Papa Francesco nella recente Lettera sul ruolo della letteratura nella formazione. Al n. 43 scrive, infatti, che “la potenza spirituale della letteratura richiama, da ultimo, il compito primario affidato da Dio all’uomo: il compito di nominare gli esseri e le cose [n.d.r. e anche il male]. Mentre al n. 42 precisa che
la letteratura aiuta il lettore ad infrangere gli idoli dei linguaggi autoreferenziali, falsamente autosufficienti, staticamente convenzionali, che a volte rischiano di inquinare anche il nostro discorso ecclesiale, imprigionando la libertà della Parola. Quella letteraria invece è una parola che mette in moto il linguaggio, lo libera, lo purifica: lo apre, infine, alle proprie ulteriori possibilità espressive ed esplorative, lo rende ospitale per la Parola che prende casa nella parola umana, non quando essa si auto-comprende come sapere già pieno, definitivo e compiuto, ma quando essa si fa vigilia di ascolto e attesa di Colui che viene per fare nuove tutte le cose.
Riprendendo il contesto a cui faceva riferimento Adorno, occorre fare menzione di una sorprendente scoperta avvenuta qualche anno fa nell’armadio di un’ex prigioniera di Auschwitz: fu rinvenuto un quaderno di poesie, scritte nel campo di sterminio dalle detenute che lo nascondevano e se lo passavano per leggerlo in segreto. La data di scrittura è il 1943 e la prigioniera che l’ha trattenuto con sé si chiama Bozena Janina Zdunek, una polacca combattente nella resistenza clandestina e come tale catturata dalla Gestapo e inviata ad Auschwitz. Da qui nel ’44 passò a Ravensbrück, dove nel ’45 fu salvata dalla Croce Rossa svedese e portata in Svezia. In Svezia è morta nel 2015. Si potrebbe anche far riferimento alla musica nei campi di sterminio cfr. ad esempio Francesco Lotoro, Antologia musicale concentrazionaria – opere musicali scritte in cattività civile e militare durante la Seconda guerra mondiale, Barletta, Rotas editrice, 2015, ried. 2022.
È utile ricordare ciò perché quello di scrivere, al netto di quanto affermato da Adorno, è un atto di esistenza, di resistenza e di resilienza. È un atto attraverso il quale chi subisce il male non resta in silenzio, ma cerca sentieri di speranza nonostante tutto.
Perciò, anche oggi è possibile continuare a “scrivere poesie”, che fuori di metafora, significa che anche oggi è possibile continuare a seminare germogli di speranza nelle macerie della di-sperazione.
La disperazione è una malattia mortale dell’anima[4] perché ci impedisce di dare una direzione alla nostra vita, un peccato contro il mondo, contro gli altri e contro Dio. La disperazione condanna la vita, fa vivere la morte senza concedere la morte, un “puro sentimento della possibilità” che ci impedisce di scegliere la via della poesia.
L’azione di resilienza di queste detenute, ci racconta che la “poesia” e tutte le altre forme di resistenza al male, sono insopprimibili e irrinunciabili: non soltanto “dopo” Auschwitz (dopo il male), ma anche “dentro” Auschwitz (dentro il male). Non soltanto “successivamente” ad Auschwitz, ma anche “contemporaneamente”.
La lucidità di queste donne sta nell’aver cercato di deconfinare, con la loro creatività, quella speranza posta in quarantena. E anche oggi occorrono gesti, azioni, parole che aiutino a deconfinare la speranza, come ricordava Papa Francesco nella già menzionata omelia del 2020:
L’annuncio di speranza non va confinato nei nostri recinti sacri, ma va portato a tutti. Perché tutti hanno bisogno di essere rincuorati e, se non lo facciamo noi, che abbiamo toccato con mano «il Verbo della vita» (1 Gv 1,1), chi lo farà? Che bello essere cristiani che consolano, che portano i pesi degli altri, che incoraggiano: annunciatori di vita in tempo di morte! In ogni Galilea, in ogni regione di quell’umanità a cui apparteniamo e che ci appartiene, perché tutti siamo fratelli e sorelle, portiamo il canto della vita! Mettiamo a tacere le grida di morte.
Allora occorrono sempre atteggiamenti virtuosi anche in tempi bui; occorrono sempre annunci di vita anche in tempi di guerra e di nichilismo, e questo serve per una compiuta umanizzazione e/o ri-umanizzazione della nostra convivenza, senza cedere a disfattismi e rassegnazioni.
Ma quali caratteristiche deve avere la speranza per innervare il corpo sociale e così muoversi in maniera articolata nella direzione del bene comune? Quali caratteristiche deve avere la speranza per irrorare sangue ossigenato, liberato dalle scorie di scarto dell’anidride carbonica, per far funzionare bene l’organismo del corpo sociale?
Alcune di queste caratteristiche potremmo attingerle da un capolavoro della toreutica gotica realizzata da Andrea Pisano nella prima metà del XIV secolo, ovvero tra le altre cose, la rappresentazione della speranza su una formella della Porta Sud del Battistero di San Giovanni Battista a Firenze. Per fare ciò, ricorse all’immagine di una donna alata con le braccia protese verso l’alto. Non nell’atto già di volare, ma in quello di spiccare il volo.
Assumere questo punto di vista sulla speranza, significa attribuire a questa virtù almeno due caratteristiche insopprimibili quali la a. generatività/fecondità e b. l’anelito/desiderio/l’oltre che la rendono virtus resurgendi.
Quando queste due caratteristiche ineriscono la speranza, allora questa virtù diventa ciò che ontologicamente è, ovvero: capacità di vedere ciò che ancora non c’è, a partire da ciò che c’è.
Mentre “la capacità di vedere ciò che ancora non c’è” conferisce alla speranza un dato prospettico, una tensione verso l’oltre in cui dirigersi sempre, il “partire da ciò che c’è”, conferisce a questa virtù quel sano realismo che la differenzia nettamente dall’utopia, offrendo invece una visione operativamente creativa. È a questo tipo di speranza che dobbiamo fare affidamento perché questa deve indicarci il “cosa” e il “come”, con un esercizio intelligente e creativo della realtà da esplorare sempre più approfonditamente senza sconti e semplicismi, senza polarizzazioni e ideologismi.
Il rilievo monumentale appena citato, non a caso stupì tanto anche E. Bloch che poi sulla speranza scrisse uno dei testi più conosciuti e più importanti per lo studio filosofico, dal titolo appunto Il principio speranza in cui l’Autore ci àncora ad una descrizione obiettiva del presente, ma ci “obbliga” a cogliere “l’eternità nell’istante”.
Andare, quindi, “oltre” la difficoltà e l’oscurità dell’attimo che si vive; e questo “oltre” si inserisce e trova compimento nella visione escatologica dell’agire del cristiano che continuamente, nella realtà in cui è immerso, si mette alla prova costruendo sempre, già ora, la vita che verrà.
A tal proposito, lo stesso prof. Natoli ha più volte ricordato come giustamente “la speranza è legata alla vita che vuole sé stessa, proiettandosi oltre sé stessa, oltrepassando il momento presente”. Pertanto, per comprendere appieno il significato della speranza, vale la pena ricorrere alla parola greca usata per esprimerla: elpís. E in questa parola ci si imbatte nel gruppo “elp” che ritroviamo anche nel latino voluptas, voluttà, piacere, desiderio. Per questo possiamo dire che la speranza ha a che fare con la proiezione del desiderio e dunque con l’apertura al futuro della spinta vitale che così non si chiude su se stessa.
La speranza, allora, dovrebbe essere la materia prima con cui poter e dover costruire/edificare i fatti, motivo per cui la speranza è una vera e propria virtù politica che non ci lascia imprigionare e rassegnare al diktat del presente, o meglio alla dittatura del presentismo, al ripiegamento sul dato presente, come ha spiegato bene François Hartog nel suo libro del 2022 dal significativo titolo Chronos. L’Occidente alle prese con il tempo (Einaudi), dove l’Autore si sofferma parecchio sul presente indeducibile, sull’incertezza del futuro ma anche sulle strategie da mettere in campo per superare la dimensione evanescente e costrittiva del presentismo, così da affrontare a viso aperto quello che ad oggi appare essere l’incommensurabile e minaccioso futuro.
- Ashrè-Asher: farsi spazio attivando processi comunitari di speranza
Dobbiamo accettare la sfida di cui parlavamo all’inizio, pur consapevoli che occorre “danzare anche nella pioggia nonostante gli ostacoli che si frappongono alla fioritura di un mondo figlio della speranza”.
L’immagine del danzare, attribuita a Gibran, è semplice e delicata ma non banale perché rimanda ad un modo gentile di farsi spazio, di creare spazi, senza sgomitare, con incipiente perseveranza perché per coltivare la speranza occorre perseverare nel fare il bene, con audacia e tenacia anche nei luoghi più deserti. Solo così la speranza non si riduce a mera utopia ma anzi diventa un topos, un luogo teologico in cui cercare i segni di Dio, nell’impegno concreto di bonificare e allontanare ogni forma di dinamica negativa e distruttiva. Così la speranza diventa opzione fondamentale concreta e ineludibile, perché si radica nella vita stessa da orientare verso il bene comune e salvarla dalla disperazione.
Per diventare edificatori di fatti di speranza, occorre superare le continue sirene dell’emergenza a cui siamo costantemente richiamati, per impegnarci a favore delle reali urgenze che dobbiamo custodire e che in qualche modo Papa Francesco ha elencato nella Bolla di indizione del Giubileo Ordinario del 2025, Spes non confundit, nella parte dedicata ai “segni di speranza” (nn.7-15).
Si è portatori di speranza, se si è in cammino. Anzi, si è portatori di speranza se anche tra le macerie della di-sperazione, anziché restare muti o inermi, con razionalità creativa, sappiamo aprire il cammino e andare avanti. È così che si è beati.
Non a caso il termine biblico ebraico che in italiano viene reso con l’immagine della beatitudine (‘ashre ha-‘ysh: felicità dell’uomo), ha la stessa radice del verbo “camminare” (‘ashar), per cui beato è colui che è in cammino, che non si arresta di fronte alle difficoltà, perché è questa, e solo questa, la via maestra per una vita colma di significato.
Ovviamente tutte le piccole o grandi speranze chiedono di essere fissate nella “grande speranza”, nella colonna portante del vivere. È questa che dà significato alle speranze quotidiane che, seppur importanti, non di rado si dissolvono, a volte ci tradiscono, ma comunque restano parziali e insoddisfacenti per colmare il desiderio di infinito che abita l’essere umano.
In questi termini ne ha parlato Benedetto XVI in Spe salvi, documento pontificio di grandissimo spessore teologico e filosofico, imbastito sul valore che ha “la grande speranza, perché è l’unica capace di resistere ai naufragi delle piccole speranze”. È l’unica che dà segno e significato alle altre speranze, è l’unica che resta in piedi come germoglio isolato anche nelle macerie del male, pronta a ricrescere.
La nostra speranza è Cristo – come esordisce l’enciclica – che è venuto a rivelarci che la nostra vita non finisce nel vuoto, ma l’uomo è destinato all’incontro con Dio, è stato creato «per essere riempito da Lui» (n. 33). In Cristo siamo stati redenti e salvati: è questa certezza, che nasce dalla fede nella Parola di Dio, a generare nel cuore del credente una «grande speranza», capace di dare senso a tutta la sua vita e di sostenerla anche nei momenti più difficili e faticosi.
Infatti, è molto diverso vivere e agire con la consapevolezza che l’uomo e la sua operosità non sono destinati a finire nel nulla, ma a rimanere per sempre in un mondo redento e trasfigurato. Per questo l’annuncio cristiano della salvezza non è solo una «buona notizia», una «informazione»; ma porta con sé una vera trasformazione, cambia la vita degli uomini e il cammino della storia. Perché la radicale speranza cristiana è performante e ci dà qualcosa già adesso nel senso che ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una “prova” delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente, il futuro così che quest’ultimo non è più un mero “non-ancora”. La certezza che questo futuro esiste, cambia anche il presente! Il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future (cfr. Spe Salvi n.7).
Le speranze umane e la speranza cristiana, mondo moderno e cristianesimo, non sono alternativi, ma sono destinati a integrarsi e l’incontro è possibile perché anche la speranza cristiana è una speranza umana, sebbene essa si distingua dalle altre perché non si fonda su una filosofia o su una ideologia, né sulle sole forze dell’uomo, ma poggia su Dio e sulla sua Parola; nasce cioè dalla fede nella rivelazione e nella promessa della salvezza, che si realizza storicamente in «Cristo nostra speranza» (1 Timoteo 1,1). Pertanto, credere nella speranza cristiana non impedisce, anzi postula il confrontarsi con tutte le speranze umane.
Il punto fermo, da cui prendere le mosse per una speranza che non delude, è sempre e inevitabilmente la risurrezione di Gesù e i racconti pasquali che ne sono la testimonianza. È l’evento pasquale, infatti, a conferire pieno significato e ad attribuire il giusto valore alla vita, alla passione e alla morte di Cristo. Per Moltmann è la resurrezione di Cristo dai morti a rendere eterni la sua vita e il suo messaggio. Ed è proprio alla luce della risurrezione del Signore che il teologo tedesco interpreta quella dell’uomo, e in tale interpretazione si concretizzano la consolazione e la speranza per l’intera umanità (Moltmann, Risorto nella vita eterna. Morte e risveglio di un’anima vivente, Queriniana 2022).
✠ Francesco Savino
Vescovo di Cassano all’Jonio
Vicepresidente Conferenza Episcopale Italiana
[1] Karl Rahner, Fondamenti di fede cristiana
[2] Herbert Votgimler, Karl Ragner: Introduzione alla sua teologia (Queriniana, 1987)
[3] Jurgen Moltmann, Teologia della Speranza, Queriniana, 1970
[4] Soren Kierkegaard, La malattia mortale (Queriniana, 1996)