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Laurea honoris causa a mons. Savino, il testo della lectio magistralis


Si è svolta venerdì 15 febbraio nell’aula magna del policlinico di Bari, la cerimonia per il conferimento della laurea magistrale honoris causa in Medicina e Chirurgia dell’Università “Aldo Moro” al vescovo di Cassano all’Jonio, mons. Francesco Savino. Pubblichiamo il testo della lectio magistralis:

“Medicina, Spiritualità ed umanizzazione delle cure”

“Buonasera! Magnifico Rettore, Autorità accademiche, Illustri professori, sono riconoscente per l’onorificenza che mi viene concessa dalla Vs. Università. Autorità civili e militari, confratelli nel sacerdozio, religiosi e religiose, studentesse e studenti, carissimi parenti, amiche e amici, grazie perché ci siete. Vorrei partire per introdurre questa lectio magistralis, nell’analizzare brevemente la temperie culturale in cui oggi ci troviamo, in cui l’identità e quindi la natura dell’essere umano sono messe in discussione da concezioni antropologiche che si possono raggruppare sinteticamente nell’idea del post-umano. Alla base di tali concezioni c’è il rapporto tra natura e cultura, dove le due vie possibili in cui tale rapporto si può risolvere è o una totale contrapposizione tra natura e cultura o la loro assoluta identificazione o indistinzione: «le concezioni dell’assoluta separazione tra natura e cultura sono tipiche della bioetica e dell’etica della qualità della vita. Se si distingue in modo netto tra vita biologica e vita biografica e si attribuisce a quest’ultima tutto il vero e proprio senso della vita umana, sicché una vita senza qualità non è degna di essere vissuta, allora è chiaro che la dimensione puramente biologica o naturale non ha più un ruolo identificativo, ma è un supporto funzionale agli stati di coscienza. Si sviluppa così una concezione della persona che si va progressivamente affrancando dalla corporeità umana in quanto tale e persino dalla corporeità in generale.

Il supporto naturale verrebbe sostituito dal supporto tecnologico. Alcuni chiamano questa concezione “personismo”. Secondo questa linea di pensiero il post-umano è il superamento del supporto naturale della specie umana. La tecnica prende definitivamente congedo dalla natura. È qui evidente che le teorie della separazione conducono inevitabilmente all’eliminazione della rilevanza della natura, poiché l’individuo ha in ogni caso bisogno di un centro unitario. Unitarie per definizione sono, invece, le teorie dell’assoluta indistinzione tra natura e cultura. Ma l’indistinzione in realtà nasconde la supremazia di uno dei poli sull’altro. Così, all’interno di queste concezioni, possiamo distinguere due orientamenti principali: il pan-tecnologismo e il pan-naturalismo» . Le parole di Franca Viola delineano uno scenario a dir poco preoccupante e ci spingono a ripensare con urgenza l’umano a partire da ciò che gli è proprio, ossia la sua indisponibilità assoluta a qualsiasi sistema di forze esterno o interno che tende di manipolarlo e ad alienarlo. E non si può non considerare l’umanizzazione come uno degli obiettivi fondamentali di qualsiasi sistema sanitario che faccia del diritto alle cure e alla salute una conquista di civiltà. “Per umanizzazione s’intende quel processo in cui si deve porre il malato al centro della cura; questo concetto segna il passaggio da una concezione del malato come mero portatore di una patologia ad una come persona con i suoi sentimenti, le sue conoscenze, le sue credenze rispetto al proprio stato di salute. Si può sottolineare quindi che il processo di umanizzazione consiste sostanzialmente nel ricondurre al centro l’uomo con la sua esperienza di malattia e i suoi vissuti”: così una definizione di umanizzazione in letteratura medica. L’ultima ricerca Agenas sull’umanizzazione delle cure in Italia condotta nel biennio 2017-2018, ha rilevato come con fatica il nostro sistema sanitario nazionale stia perseguendo tale obiettivo pur mantenendo una netta disparità, soprattutto in riferimento all’accesso e all’umanizzazione delle cure, tra nord e sud del Paese. Un’etica della cura che metta al centro il “rapporto umano” tra medico e paziente è inscritta per noi cristiani nella stessa esperienza evangelica; paradigmatiche sono le parole di Gesù, che nel capitolo X del vangelo di Matteo dice sulla missione affidata ai suoi discepoli: E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. (Mt 10,7-8). Focalizziamo la nostra attenzione sul verbo terapèuo che viene tradotto dagli esegeti con il verbo italiano guarire. I significati del verbo terapèuo sono molti di più. Cerchiamo di eplorarne alcuni: nel primo gruppo di significati indica sono servo, venero, corteggio, fo la corte a, blandisco, cerco di cattivare, piaggio; nel secondo gruppo invece, mi occupo di, ho cura, rivolgo i pensieri a, sono intento a, attendo, coltivo; infine troviamo i significati di medico, curo. Il verbo terapèuo, nel testo proposto, più che indicare l’imperativo di guarire si rivolge maggiormente all’imperativo del prendersi cura, del coltivare una relazione, dell’avere un’attenzione per qualcuno o per qualcosa. Cerchiamo brevemente di individuare la differenza tra cura e guarigione.

La cura indica il processo attraverso cui mi faccio carico di una parte della sofferenza dell’altro per alleviarla. La guarigione, è invece il ristabilimento di una situazione di sanità che viene ad essere turbata dalla malattia. Gesù ci chiede primariamente di curare i malati non di guarirli; non sempre infatti la guarigione appare come conseguenza della cura. Ci chiede di farlo con un’attenzione particolare anche alla dimensione spirituale dell’essere umano; tale attenzione porta molte volte a stravolgere la nostra pianificazione del processo di cura, considerando di primaria importanza la relazione spirituale con il paziente e i suoi familiari prima ancora di qualsiasi terapia medica o diagnosi strumentale. Ci deve sempre scuotere in tal senso l’ammonimento che l’apostolo Paolo fa, nella prima Lettera ai Corinti: «non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi». Urge quindi spingere la riflessione antropologica, filosofica e bioetica, da attuare conseguentemente in buone pratiche cliniche, alla ricerca di una epistemologia che consideri la persona, in tutte le fasi della sua esistenza, nel suo essere unità originaria di corpo, anima e Spirito, in relazione con il suo simile e con il Tutto. Tuttavia a tener a freno il nostro ottimismo ci pensa la storia della scienza che attesta come da sempre medicina e spiritualità hanno vissuto un rapporto conflittuale accentuatosi maggiormente con il dualismo cartesiano dove res extensa e res cogitans hanno finito col prendere vie epistemologiche opposte. La medicina ha assunto un carattere “meccanicistico”, in quanto ha ridotto la cura a semplice riparazione di guasti agli “ingranaggi” del corpo inteso come meccanismo regolato da ferree leggi fisiologiche. La spiritualità invece si è pian piano ridotta a psicologismo e sentimentalismo religioso senza alcuna base di tipo scientifico-filosofico. Con l’avvento della scienza-tecnica e la nascita delle scienze biomediche, questo divario è andato accentuandosi sempre di più, a tal punto che si è aperta la strada, nel tentativo di risanarlo, a diversi tipi di riduzionismo: il riduzionismo neuro-scientifico in cui la spiritualità è compresa osservando l’attività neuro-cerebrale dell’individuo attraverso strumenti di imaging, per stabilire i connessi neuronali remoti della preghiera e della meditazione; il riduzionismo fisicalista in cui la medicina è intesa, sia nel suo approccio farmacologico che strumentale, come una scienza esatta alla stregua della matematica e della fisica. Ma tali visioni sia della spiritualità che della medicina sono destinate irreversibilmente ad occupare la scena del dibattito scientifico-culturale oppure è possibile intravedere un terreno in cui tentare di riportare queste due nobili “arti” in un dialogo sempre più profondo? Secondo me è proprio il terreno delle cure palliative e di quel grande processo culturale che va sotto il nome di umanizzazione della morte e del morire, il terreno che bisogna esplorare per tentare la conciliazione tra medicina e spiritualità. Umanizzare la morte ed il morire significa sottrarre questi due aspetti inalienabili della vita umana sia alla barbarie dell’accanimento terapeutico, che ad un volontarismo senza verità che fa assurgere la morte a rimedio contro la sofferenza e il dolore. L’uomo è veramente se stesso, nella misura in cui è posto dinanzi a questi due aspetti della vita, illuminato dalla verità profonda del suo essere; tale verità richiede necessariamente una fondazione assiologico-metafisica e non un soggettivismo relativista in forma di nichilismo giuridico. Nel recente dibattito pubblico circa le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento che ha portato ad approvare la legge 219 da parte del parlamento italiano, le cure palliative sono ritornate un focus di interesse sia della comunità medica che di quella sociale nel suo insieme; anche la comunità ecclesiale si è andata interrogando radicalmente in riferimento alla posizione che sostiene, sia a livello dottrinale che a livello di pratiche cliniche nelle sue istituzioni e nei luoghi di cura di cui l’hospice, che ho avuto l’onore di fondare, ne è un esempio peculiare. Questo ha consentito di riportare l’attenzione degli specialisti del settore e delle istituzioni sanitarie, sul lavoro clinico-scientifico che costantemente gli operatori di cure palliative fanno nei luoghi e nelle situazioni in cui la legge, da mero documento giuridico, diventa esperienza vissuta, incontro di persone all’interno di relazioni che rappresentano la cifra della cura offerta all’umanità ferita dalla malattia. II fine delle cure palliative è quello di delineare un nuovo approccio alla realtà della malattia, che eviti due errori sempre in agguato nell’accompagnamento della persona ammalata nel processo di cura e soprattutto nel fine vita: esaltare la volontà del malato in senso assoluto, sfociando in quel grave fenomeno di nichilismo giuridico che il giurista Natalino Irti ha definito senza mezzi termini “la divisa del diritto moderno”, ed evitare la prepotenza smisurata della Tecnica che vuole invadere il fine vita della persona condizionando la qualità del percorso del morire in nome di una impersonale volontà di guarire o di una sproporzionata volontà di preservare la vita ad ogni costo.

L’auspicio è che si possa in futuro integrare sempre meglio la vita delle persone in una riflessione organica in cui l’approccio alla malattia e al fine vita, sia marcatamente interdisciplinare e soprattutto faccia dell’esperienza del malato e del contesto curativo attorno a lui la sorgente primaria delle domande di senso profonde che devono sempre spingere l’umanità a progredire nel sapere e nelle pratiche di sollievo della sofferenza. Questo approccio deve innanzitutto correggere un pregiudizio culturale che tende ad occultare qualsiasi percorso di riflessione che focalizzi l’attenzione sulla qualità del morire e sulla morte come evento naturale che compie l’esistenza umana. Tutto ciò è possibile attraverso percorsi che possiamo definire di Death Education. In questo ambito l’ hospice “A. Marena” ha rappresentato, a livello nazionale, un avamposto pionieristico di rinnovamento culturale in tal senso, con progetti di Death Education in collaborazione con l’Università di Padova in cui, attraverso un percorso multidisciplinare alle tematiche di fine vita (spirituale, psicologico, medico, etico) che ha coinvolto oltre 500 giovani delle scuole superiori di Bari e Bitonto, ha misurato il beneficio che i ragazzi hanno ricevuto in riferimento alla gestione delle proprie emozioni relative alla morte e al morire, ed ha consentito all’equipe di cure palliative dell’hospice, che ha accolto i ragazzi presso la struttura sanitaria, di preparare il terreno culturale per nuovi percorsi più consapevoli e rispettosi della dignità dei soggetti in gioco. Non è difficile prevedere, che solo nella misura in cui questi percorsi di Death Education saranno presi in considerazione dalle istituzioni educative e da quelle socio-sanitarie che si occupano del fine vita, diventando prassi sociale e sanitaria, così come avviene in Paesi come gli Stati Uniti d’America, potremmo avere una gestione del fine vita di ciascun cittadino, che fermo restando il valore della legge 219, veda come protagonisti consapevoli la persona ammalata, il suo contesto sociale prossimo, e gli operatori socio-sanitari che se ne prendono cura.

A questo punto si pone una domanda ineludibile: è possibile oggi, continuare a considerare medici, infermieri e operatori socio-sanitari in termini funzionalistici, come semplici esecutori di protocolli clinici dimenticando costantemente il loro essere persone in relazione con altre persone tra cui il malato e i suoi familiari? E non ci si renda conto del fatto che essi sono costantemente in contatto durante la gestione clinico-assistenziale del fine vita con il senso della propria morte e del proprio morire facendo aumentare il rischio di burnout o di altre complicazioni del loro equilibrio psico-fisico? Urge quindi, e lo diciamo qui in un’istituzione accademica di centrale importanza per la nostra regione Puglia, aggiornare e completare la formazione dei futuri operatori sanitari sia a livello accademico che a livello di ECM con discipline e percorsi esperienziali afferenti all’area antropologica, filosofica, psicologica e della spiritualità che guidino l’operatore ad un’attenta valutazione dei reali bisogni della persona in questa fase delicata della sua esistenza e ad aumentare le proprie risorse di resilienza esistenziale. Solo così renderemo possibile ciò che ogni medico auspica nell’esercizio della sua professione: il sollievo della sofferenza e l’incremento del benessere psico-fisico sia del malato che di se stesso in quanto persone! Vorrei chiudere questo mio intervento con le parole che Papa Francesco ha dedicato nel Messaggio per la XXVII Giornata mondiale del malato al tema della gratuità e della cultura del dono che dovrebbero animare ogni persona che si prende cura dell’umano: «la gratuità umana è il lievito dell’azione dei volontari che tanta importanza hanno nel settore socio-sanitario e che vivono in modo eloquente la spiritualità del Buon Samaritano. Ringrazio e incoraggio tutte le associazioni di volontariato che si occupano di trasporto e soccorso dei pazienti, quelle che provvedono alle donazioni di sangue, di tessuti e organi.

Uno speciale ambito in cui la vostra presenza esprime l’attenzione della Chiesa è quello della tutela dei diritti dei malati, soprattutto di quanti sono affetti da patologie che richiedono cure speciali, senza dimenticare il campo della sensibilizzazione e della prevenzione. Sono di fondamentale importanza i vostri servizi di volontariato nelle strutture sanitarie e a domicilio, che vanno dall’assistenza sanitaria al sostegno spirituale. Ne beneficiano tante persone malate, sole, anziane, con fragilità psichiche e motorie. Vi esorto a continuare ad essere segno della presenza della Chiesa nel mondo secolarizzato. Il volontario è un amico disinteressato a cui si possono confidare pensieri ed emozioni; attraverso l’ascolto egli crea le condizioni per cui il malato, da passivo oggetto di cure, diventa soggetto attivo e protagonista di un rapporto di reciprocità, capace di recuperare la speranza, meglio disposto ad accettare le terapie. Il volontariato comunica valori, comportamenti e stili di vita che hanno al centro il fermento del donare. È anche così che si realizza l’umanizzazione delle cure. La dimensione della gratuità dovrebbe animare soprattutto le strutture sanitarie cattoliche, perché è la logica evangelica a qualificare il loro operare, sia nelle zone più avanzate che in quelle più disagiate del mondo. Le strutture cattoliche sono chiamate ad esprimere il senso del dono, della gratuità e della solidarietà, in risposta alla logica del profitto ad ogni costo, del dare per ottenere, dello sfruttamento che non guarda alle persone». Vorrei dedicare questo riconoscimento accademico di grande prestigio anche a coloro che gratuitamente, con passione e coraggio quotidianamente e in nome di alti ideali civili e religiosi, hanno costruito insieme a me, un tratto del volto di una medicina più umana, segno di una rivoluzione culturale e spirituale che è iniziata e non potrà più essere fermata! Grazie”.