Omelie

Omelia Giovedì Santo 2019 Messa in Coena Domini


Giovedì Santo 2019 [SCARICA]

Messa in Coena Domini

Es 12, 1-8. 11-14; Sal 115; 1Cor 11, 23-26; Gv 13, 1-15

18  Aprile  2019

Con rinnovato stupore vorrei esprimere anche quest’anno il desiderio di fare Pasqua con voi, “popolo mio”, affidato alla mia responsabilità, per compiere con Cristo “questo passaggio”, per andare oltre. Per oltrepassare!

C’è tanta seduzione nel Giovedì Santo, spesso inspiegabile e inenarrabile. In me c’è voglia di intimità, di confidenza con Gesù e tra di noi. Non sono facili i tempi che viviamo, anzi, mi sembrano complicati e complessi. Spesso si vive tra spaesamento e bisogno urgente di sapienza. Viviamo il tempo del paradosso! Mi sento “abbracciato”, come Vescovo, dai tanti bisogni della gente. Tante le fragilità, dalla mancanza di lavoro alle relazioni conflittuali, dai pregiudizi ai facili giudizi, dalle parole bugiarde alle chiacchiere di ogni genere. 

La necessità che diventa sempre più urgente in me è “conformarmi a Cristo” e testimoniarlo con la vita dovunque mi trovo. Con questi sentimenti e desideri rileggo ad alta voce il racconto della lavanda dei piedi, come se fosse la prima volta, col desiderio di elaborare una specie di vocabolario, che ci faccia da guida ogni giorno.

Un vocabolario che sintetizzi le parole forti della nostra spiritualità.

Sono quattro le parole che vi consegno.

La prima parola è “ora”. Nella vita di Gesù c’è un’ora, drammatica ma significativa per la sua e la nostra vita: l’ora della passione e della morte, l’ora “di passare da questo mondo al Padre”. È l’ora della salvezza! Tutta la vita terrena di Gesù è orientata verso quest’ora. Poco prima della passione, in un momento di angoscia, Gesù dice: “Ora l’anima mia è turbata, e che devo dire? Padre salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora”. È l’ora del compimento della sua missione, del dono eccedente ed estremo del suo amore, che vuole andare oltre ogni limite. Senza misura. Paradosso della vita di Gesù quest’ora decisiva e al tempo stesso ora della passione e ora della glorificazione.

È l’ora della sua consegna totale! La sua rinuncia ad ogni forma di autodifesa o di potere del suo “io”. Gesù è consapevole di questa sua ora. È pronto, non si tira indietro, e la vive come conseguenza delle sue scelte e come obbedienza radicale alla volontà del Padre, di cui si è fatto “cibo”. Confrontiamoci con questa ora che, quando accade anche nella nostra vita, sperimentiamo, nella verità crocifissa, una libertà incondizionata pur nella solitudine profonda.

La seconda parola è “agape”, amore.

“Li amò sino alla fine”.

Ha amato i suoi sino alla morte, perché non si può andare più in là. La morte è l’ultima testimonianza del suo amore. Li ha amati responsabilmente e compiutamente. Questo amore estremo Gesù lo vive proprio nella notte in cui veniva tradito. 

Al tradimento che è la negazione assoluta dell’amore, che è la prostituzione dell’anima, risponde con l’amore. Lui è l’amore fatto carne, storia. Gesù ama, in quel cenacolo, Giuda, nostro fratello Giuda, che lo ha tradito per il denaro. Quante volte si ripete nell’“oggi” della nostra storia questo tradimento: per l’idolatria del denaro, spesso siamo disposti a vendere tutto, corpo, anima, coscienza, dignità. Gesù ama Pietro, a cui aveva dato la responsabilità della comunità itinerante, che lo rinnega addirittura dichiarando di non conoscerlo. Ama i “figli del tuono”, Giacomo e Giovanni, con le loro ambizioni di potere. Ama la tenerezza di Giovanni, il discepolo amato. Ama Filippo, il discepolo della trasparenza. Ama Tommaso, il discepolo del dubbio e dell’inquietudine.

In quel cenacolo ama persone concrete e dietro quelle persone ci siamo anche noi, con le nostre biografie, i nostri vissuti, i nostri limiti e le nostre oscurità, le nostre contraddizioni e le nostre infedeltà. Alla luce di questo amore paradossale interroghiamoci su come noi amiamo gli altri. Se li amiamo nella verità e nella giustizia oppure se sporchiamo il nostro amore con i nostri tradimenti, con le nostre convenienze e ambiguità. È sull’amore autentico e vero che ci giochiamo la bellezza della vita. C’è una malattia che spesso limita il nostro amore: l’egoite. È un segno che contraddistingue la cultura di “questi giorni”, la cultura dell’indifferenza che nega l’alterità, che genera una vera e propria emergenza di umanità. Chi vive prigioniero del suo “io” pretende molto dagli altri e si spende poco per donarsi; non si apre alla verità ma interpreta la realtà secondo criteri faziosi di giudizio; ritiene di avere sempre ragione e non riconosce gli sbagli che fa, anzi, li giustifica retoricamente con delle motivazioni; non chiede scusa né sa perdonare; non si rende conto del male che fa a chi gli vive accanto e delle sofferenze che procura. Chi fa del proprio “io” la misura della sua vita, per quanto cerchi di rendere appagante la sua esistenza, vive in una cronica scontentezza.

La terza parola è “depose le vesti” e prese un asciugatoio. 

È il gesto di colui che ama senza riserve! È il potere dei segni. È un gesto che sconvolge perché rivoluzionario: Dio serve! Il servizio è divino, non il potere. Con questo gesto Gesù, il Figlio di Dio, genera una nuova antropologia: l’uomo si realizza nel servizio, che diventa la vera identità di ogni persona. Di fronte al gesto da schiavo di Gesù, è tutto umano il rifiuto di Pietro: “Signore, tu lavi i piedi a me?”. In Pietro ci siamo tutti noi che non vogliamo lasciarci amare in questo modo sconvolgente perché riteniamo di dover qualcosa a qualcuno. Noi, come Pietro, facciamo fatica ad uscire dall’autosufficienza perché non vogliamo renderci conto che è il Signore che salva la vita, non noi.

La quarta parola è “esempio”.

Gesù dice, a conclusione della lavanda dei piedi: “Vi ho dato l’esempio. Perché come ho fatto io, facciate anche voi”. Questa è stata la scelta di tutta la vita di Gesù. La lavanda dei piedi diventa così la nostra identità cristiana, personale e comunitaria. Nasce una idea e una prassi di Chiesa, di comunità, di parrocchia. Quante volte Papa Francesco ci ripete: “La Chiesa è chiamata ad uscire da se stessa. Andiamo e portiamo Cristo laddove c’è peccato e c’è dolore, dove c’è indifferenza a Dio. In ogni «periferia del nostro mondo», anche quella del pensiero, e in quelli in cui tutte le miserie regnano”.

Le parrocchie, ve lo chiedo con tutte le energie che mi abitano, non siano chiuse. La lavanda dei piedi sia la cifra di ogni parrocchia.

Questa sera laverò i piedi a dodici confratelli nel sacerdozio di età diverse, consapevole che la fraternità presbiterale rende credibile e autorevole ogni nostro annuncio.

Vi consegno una pagina bellissima di don Primo Mazzolari tratta dal libro Dietro la croce e il segno dei chiodi. 

Un lontano mi scrive parole, che, se non mi sorprendono, mi fanno soffrire: “Non parteciperò al rito del giovedì santo. La lavanda mi ha sempre inchiodato. Forse passa per quest’impressione incancellabile il filo che mi tiene ancora avvinto, in un certo senso, alla chiesa. Ma se ci tornassi con l’animo che mi hanno fatto gli avvenimenti all’insaputa di me stesso, mi verrebbe la tentazione di gridare contro di voi, che pur mostrate di capire tante cose. “Capite voi quello che fate?” Forse non l’avete mai capito: certo, adesso, non lo capite più. Quell’azione è un capovolgimento della vita e voi ne fate un rito”…. “Amico lontano e caro, non ti dico: “Torna anche quest’anno al rito del Mandato”. Appunto perché hai l’impressione che nelle nostre chiese ciò che tu giustamente chiami il capovolgimento stia per divenire una “forma rituale”, io ti scongiuro di non fermarti quest’anno sulla soglia della tua chiesa, spettatore indeciso e indisposto. Portati avanti, fino alla tavola eucaristica per “levarti” subito dopo la comunione, non come un commensale qualunque, ma come un servo dell’Amore che deve cambiare il mondo. I capovolgimenti non si attendono, si fanno”.

La lavanda dei piedi, che nel IV Vangelo prende il posto del racconto dell’istituzione eucaristica presente nei sinottici, non solo non si riduca a mero ritualismo ma generi in noi un vero capovolgimento della vita.

   Francesco Savino