anziani Omelie

VI Domenica del tempo Ordinario anno B


 

Lv 13,1-2.45-46; Sal 31; 1 Cor 10,31-11,1; Mc 1,40-45

 

11  Febbraio  2024

 

In questa VI Domenica del Tempo Ordinario ci lasciamo interrogare dall’incontro tra Gesù e un uomo affetto da lebbra, raccontatoci dall’evangelista Marco.

Il lebbroso è da sempre un malato ripugnante a tal punto che, soprattutto a quel tempo, lo si considerava come un uomo morto. Per un giudeo la lebbra era anche segno di un castigo di Dio: per i loro peccati erano stati colpiti da tale malattia la sorella di Mosè, Miriam, il servo del profeta Eliseo e anche altri peccatori. L’orrore di questa malattia è grande, devasta tutto il corpo. L’impuro viveva separato da tutti perché la lebbra era contagiosa e quando l’ammalato sentiva avvicinarsi qualcuno doveva gridare: “Sono impuro! Sono impuro!” (cfr. Lv 13, 45-46). Il lebbroso non aveva possibilità di vivere alcuna relazione né con Dio né con gli uomini. Era un “impuro” per definizione, come un cadavere. Chi toccava un lebbroso si autoescludeva da ogni culto. Per essere riammesso doveva sottoporsi alla “purificazione” che veniva riconosciuta con un atto religioso da un sacerdote.

“Ed ecco l’incontro tra Gesù e un lebbroso che viene a lui, gli si inginocchia davanti e lo supplica: “Se vuoi, tu puoi purificarmi!”. Di quest’uomo non sappiamo nulla, né possiamo valutare la sua vita e la sua fede. Certamente ha fiducia in Gesù, che gli pare affidabile; da Gesù è attratto come da un uomo che può fare qualcosa per lui. Con audacia, più che con fede, si avvicina dunque a quell’uomo che merita ascolto, fiducia, forse anche adesione. E Gesù davanti a costui ha una reazione: proprio perché lo guarda e sa cosa significa questa malattia, proprio perché sente il fetore delle sue piaghe e vede il suo viso stravolto, il suo corpo devastato, “va in collera” (orghistheís), adirato per l’intollerabilità del male e del destino che pesa su quest’uomo. Sì, Marco ci narra un Gesù collerico, che, proprio perché è capace di passione, ha una reazione di collera; ci descrive quanto Gesù senta intollerabile una tale situazione per un uomo che è suo fratello, uomo come lui, uguale a lui nella dignità di persona umana” (cfr. Enzo Bianchi).

È importante sottolineare le parole che Gesù rivolge al lebbroso quando lo supplica: non dice “Io lo voglio e ti purifico!”, ma “Io lo voglio, sii purificato!”, ci troviamo, cioè, ad un passivo divino, che sta a significare che Gesù lascia il posto a Colui che purifica, Dio. Gesù proclama il suo desiderio e la sua volontà che il lebbroso, il separato per definizione, venga guarito, ma chi guarisce è Dio, il Padre.

L’evangelista Marco sottolinea in maniera chiara e comprensibile i comportamenti di Gesù: Gesù va in collera, perché prova ribellione contro il male, la malattia, che aveva reso schiava la vita di quest’uomo; questo sentimento di Gesù, però, genera incomprensione da parte di qualcuno, soprattutto da parte di qualche scriba, a tal punto che l’espressione “andò in collera” diviene in qualche manoscritto “fu preso da compassione”. Gesù è un uomo passionale, “carnale”, e in quel moto di ira Gesù tende la mano verso il lebbroso, lo tocca, entrando così in relazione con lui ed esprime tutta la sua volontà di guarirlo, di purificarlo.

L’evangelista Marco annota: “E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato”. Il lebbroso non è più uno scomunicato, entra in piena comunione con Gesù, che ha eliminato quel male così devastante ed escludente.

“Questo dovrebbe essere l’atteggiamento del cristiano verso i malati e verso i peccatori, quando la cura e la misericordia diventano mano nella mano, occhio contro occhio, volto contro volto, un bacio come quello che Francesco d’Assisi seppe dare al lebbroso quale segno dell’inizio di un’altra visione e dunque di un’altra vita” (cfr. Enzo Bianchi).

Gesù aggiunge al lebbroso guarito: “Va’ a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto come testimonianza per loro”. Gesù ricorda le prescrizioni della Legge e si preoccupa anche che sia data testimonianza ai sacerdoti e agli addetti del tempio.

Gesù insiste su questo, anche se non era necessario, perché si comprenda anche nel tempio la novità che ormai c’è grazie alla Sua predicazione e alla Sua azione.

Gesù, ancora una volta con un gesto forte, “lo cacciò” dicendogli di non raccontare a nessuno l’accaduto. Egli non chiede gratificazioni, non è un narcisista! Non vuol essere riconosciuto come uno che compie i miracoli, ma il suo desiderio più profondo è quello di essere riconosciuto nella sua identità di Messia quando sarà appeso alla Croce. In quell’“ora” Gesù vuole essere compreso. Il suo invito al lebbroso guarito di non parlare non viene rispettato tanto è vero che, saputo l’accaduto, vengono da tutte le città, dai luoghi più impensati, a cercarlo e ad incontrarlo.

Che felice coincidenza tra il Vangelo di questa Domenica e la XXXIIª Giornata Mondiale del Malato, per la quale il Papa ancora una volta ci ha consegnato un messaggio molto bello dal titolo: «Non è bene che l’uomo sia solo». Curare il malato curando le relazioni”.

Tra l’altro il Papa sostiene: “… La prima cura di cui abbiamo bisogno nella malattia è la vicinanza piena di compassione e di tenerezza. Per questo, prendersi cura del malato significa anzitutto prendersi cura delle sue relazioni, di tutte le sue relazioni: con Dio, con gli altri – familiari, amici, operatori sanitari –, col creato, con sé stesso. È possibile? Si, è possibile e noi tutti siamo chiamati a impegnarci perché ciò accada. Guardiamo all’icona del Buon Samaritano (cfr. Lc 10,25-37), alla sua capacità di rallentare il passo e di farsi prossimo, alla tenerezza con cui lenisce le ferite del fratello che soffre. Ricordiamo questa verità centrale della nostra vita: siamo venuti al mondo perché qualcuno ci ha accolti, siamo fatti per l’amore, siamo chiamati alla comunione e alla fraternità. Questa dimensione del nostro essere ci sostiene soprattutto nel tempo della malattia e della fragilità, ed è la prima terapia che tutti insieme dobbiamo adottare per guarire le malattie della società in cui viviamo”.

Impariamo ad incontrare Gesù nella nostra vita perché l’incontro con la sua persona ci guarisce, ci cura e scioglie ogni nodo della nostra esistenza e impariamo al tempo stesso a vivere le nostre relazioni con gli altri, che sono una vera e propria terapia, una cura bellissima.

“Man mano che maturiamo, siamo a noi stessi spettacolo e, Dio lo voglia, anche agli altri. Spettacolo, cioè, di limite e di tradimento, e perciò di umiliazione, e nello stesso tempo di sicurezza inesauribile nella Grazia che ci viene Donata e rinnovata ogni mattino. Da qui viene quella baldanza ingenua che ci caratterizza, per la quale ogni giorno della nostra vita è concepito come un’offerta a Dio, perché la Chiesa esista dentro i nostri corpi e le nostre anime, attraverso la materialità della nostra esistenza” (Don Giussani).

Impariamo a pregare.

Buona Domenica.

   Francesco Savino

formato pdf