Omelie

XV DOMENICA DELTEMPO ORDINARIO(anno C)


Dt 30, 10-14; Sal 18; Col 1, 15-20; Lc 10, 25-37

10  Luglio  2022

 

La parabola del Buon Samaritano in questa XV Domenica del Tempo Liturgico Ordinario ci interroga in profondità.

Meditiamo insieme questo brano molto conosciuto, ma che necessita sempre di una attenzione nuova e puntuale come se lo leggessimo per la prima volta.

Avviciniamoci al testo partendo dal nostro presente che vive quasi come normalità una duplice orfanità: “Dio è morto” (F. Nietzsche) e “Gli altri non sono per noi altro che paesaggio” (F. Pessoa).

“La morte del prossimo” (L. Zoja) è un dato di fatto, e con essa l’affievolirsi della prossimità, e l’espandersi di una distanza nell’indifferenza, nel fastidio, nell’inimicizia e nella incapacità di rapporti volto a volto che non siano mediati da strumenti tecnici.

Siamo al cospetto di una realtà che non richiede lamentele, moralismo e rimpianti ma consapevolezza nel discernere custodendo viva la responsabilità.

Stiamo seguendo Gesù nella sua salita a Gerusalemme. Ed ecco un altro incontro: un dottore della legge, un giurista, un esperto della Torah e della sua tradizione in Israele, che vuole mettere alla prova Gesù, verificando la sua conoscenza delle scritture e la sua fedeltà alla tradizione.

“Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?” (Lc 10, 25), come per dire: che cosa devo fare per essere felice? La domanda posta dal dottore della legge, in fondo ammantata in quel “fare” della pregnante logica giudaica, sfonda, comunque, il muro della presunzione di chi pensa che a forza di norme sia possibile trovare risposta al senso della vita. Amare Dio sopra ogni cosa, amare il prossimo come se stessi, questo è il comandamento per ereditare la felicità.

La legge trova la sua sintesi nello svolgimento armonico della vita di ogni uomo che avanza nel presente al ritmo dell’amore, verso l’Amore senza fine. Dio è primo, ma nell’esperienza umana Dio si svela dopo gli uomini, dentro gli uomini. Il bambino, nel suo cammino, prima di fare esperienza di Dio, incontra il volto della madre. Ecco la bellezza dell’intuizione di San Giovanni, l’amato discepolo di Gesù, quando afferma nella sua prima lettera, che non posso amare Dio che non vedo se non amo gli altri che mi stanno accanto (cfr. 4, 20).

Il comandamento narra di un amore possibile, donato all’altro perché originato da un “sé” riconosciuto e riconoscibile: ama l’altro come te stesso, vale a dire che nessuno può donare agli altri quello che non ha. Pertanto amare Dio passa attraverso il “sé”, amare l’altro ugualmente è dono di sé. “E chi è il mio prossimo?”. È l’ulteriore domanda che il dottore della legge pone a Gesù volendo giustificare la sua domanda iniziale.

Gesù non risponde direttamente perché acconsentirebbe ad una definizione del prossimo all’interno della casistica degli scribi e dei farisei, ai quali il dottore della legge appartiene.

Gesù risponde con una parabola, perché il prossimo non può essere rinchiuso in una definizione.

Annota Gennaro Matino commentando questa parabola: “La parabola del Samaritano è la tragedia di un inganno risolto grazie alla gratuità. Il sacerdote e il levita passano oltre colui che è incappato nel dolore, come tanti che parlano di giustizia e di fraternità, ma non la praticano. Un diverso per razza e religione (il Samaritano) si lascia invece provocare dal dolore innocente e riconosce nell’afflitto l’umano che gli appartiene”.

Gesù porta all’estrema conseguenza la sua rivoluzione: “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. Chi è il prossimo? Ovvio, colui che ha bisogno, che è aggredito, lasciato morire da solo; ma la domanda del Maestro sconvolge ancora di più perché pone la questione del chi è il prossimo dell’aggredito. Gesù, in altri termini, capovolge il ruolo dei protagonisti: il mio prossimo non è solo chi riceve perché nel bisogno, ma anche chi dona è prossimo di chi è nel bisogno e gli rende la gioia di servirlo.

La conclusione di Gesù: “Va’ e anche tu fa così”, cioè “Fai misericordia”, significa che non esiste il prossimo ma il prossimo è colui che io decido di rendere vicino.

Convertiamoci e facciamo della “misericordia”, della prossimità, non soltanto un sentimento, una commozione, ma un comportamento globale della nostra vita.

«Sia alla natura che all’intelletto usò misericordia il pio Samaritano che discese in nostro soccorso: fasciò le nostre ferite, le lavò con il vino – e sappiamo quale vino –, prestò le cure alla creatura, la portò nella locanda dandola da ospitare a chi vi abitava. La locanda è la Chiesa; chi vi abita è lo Spirito Santo» (S.Agostino, Discorso 365).

Buona Domenica.

✠   Francesco Savino

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