Omelie

IV Domenica del tempo ordinario – anno B


IV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO  (anno B)

Dt 18,15-20; Sal 94; 1 Cor 7,32-35; Mc 1,21-28

 

28  Gennaio  2024

 

L’evangelista Marco, dopo averci raccontato la vocazione dei primi quattro discepoli, puntualizza che Gesù non è più solo. C’è una piccola comunità itinerante alla sequela di questo Rabbì venuto in Galilea dalle rive del Mar Morto in seguito all’arresto del suo maestro e profeta Giovanni Battista.

Marco, nel Vangelo di questa Domenica, ci racconta una giornata tipo vissuta da Gesù e i suoi discepoli: la “giornata di Cafarnao”, una piccola città ubicata a nord del mare di Galilea, centro commerciale, città di passaggio tra la Palestina, il Libano e la Siria, abitata da gente composita, scelta da Gesù come “residenza”, un luogo in cui Gesù e la sua comunità avevano la casa (cfr. Mc 1, 29.35), una dimora dove si fermavano di tanto in tanto, specialmente nelle pause dei loro cammini in Galilea e in Giudea.

Gesù viveva le sue giornate predicando e insegnando, liberando le persone dal male, curandole e pregando. Il Vangelo di oggi ci narra la giornata di sabato di Gesù. Il sabato per gli ebrei è il giorno in cui bisogna vivere il comandamento di santificare il settimo giorno e si va in sinagoga per il culto. Anche Gesù con i suoi si reca alla sinagoga dove, dopo la lettura di un brano della Torah di Mosè e di un testo dei profeti, un uomo adulto poteva prendere la parola e commentare quanto era stato proclamato. Gesù è un laico, non è un sacerdote, è un semplice credente del popolo di Israele ed esercita questo diritto. Gesù prende la parola (Marco non ci dice il contenuto) e tiene la spiegazione. L’evangelista annota che “erano stupiti (colpiti) del suo insegnamento: Egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi”. Gli ascoltatori sono soprattutto colpiti dalla sua “autorevolezza” (exousia), simile a quella di Mosè, che gli viene dall’essere stato profeta da Dio e da Lui inviato. La Parola autorevole di Gesù non è come quella dei professionisti religiosi perché la sua è una parola che “sembra nascere da un silenzio vissuto, una parola detta con convinzione e passione, una parola detta da uno che non solo crede a quello che dice, ma lo vive. È soprattutto la coerenza vissuta da Gesù tra pensare, dire e vivere a conferirgli questa autorevolezza che si impone ed è performativa. Attenzione: Gesù non è uno che seduce con la sua parola elegante, erudita, letterariamente cesellata, ricca di citazioni culturali; non appartiene alla schiera dei predicatori che impressionano soltanto e seducono tutti senza mai convertire nessuno. Egli invece sa penetrare al cuore di ciascuno dei suoi ascoltatori, i quali sono spinti a pensare che il suo è “un insegnamento nuovo”, sapienziale e profetico insieme, una parola che viene da Dio, che scuote, “ferisce”, convince” (Enzo Bianchi).

È chiaro, se siamo onesti con noi stessi e con gli altri, che anche noi desidereremmo avere nelle nostre liturgie un predicatore che ci stupisca per la sua autorevolezza, ma non dimentichiamolo, Gesù è il Figlio di Dio e noi non siamo “Lui”, anche se vogliamo tendere ad essere come Lui.

Basterebbe comunque, nonostante le nostre povertà e la povertà di alcune assemblee liturgiche, avere un cuore aperto e appassionato della Parola di Dio per essere eco credibile della stessa Parola. L’autorevolezza di Gesù si attesta subito, dopo un gesto di liberazione. Nella sinagoga, infatti, “vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!»”.

Significativamente questo spirito impuro parla di sé al plurale, presentandosi come una schiera di forze malefiche, demoniache; come una potenza che, messa alle strette, reagisce urlando con violenza, eppure proclamando una formula cristologica vera: “Tu sei il Santo di Dio” (cfr. Gv 6,68-69). Ciò però è finalizzato a generare scandalo e incredulità, perché questa forza plurale non vuole avere nulla a che fare con Gesù. Egli però intima a quella potenza: “Taci!”, gli impedisce di fare una proclamazione senza adesione, senza sequela; quindi libera l’uomo da quella presenza devastante e mortifera. Il segno della liberazione avvenuta è un grande urlo: “lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui” (cfr. Enzo Bianchi).

È emblematica l’imposizione del silenzio da parte di Gesù!

Infatti il grido dell’indemoniato formalmente è una confessione di fede, ma l’identità di Gesù non può essere proclamata troppo facilmente, come se fosse una formula magica. La confessione di fede deve accompagnarsi alla sequela di Gesù. Lungo tutto il Vangelo di Marco, infatti, c’è sempre questa preoccupazione da parte di Gesù attinente la manifestazione della propria identità. Si potrà confessare responsabilmente la propria fede solo quando, avendo seguito Gesù fino alla fine, lo si vedrà appeso alla croce.

Sarà il centurione, a conclusione del Vangelo, che, vedendo Gesù appeso alla croce, proclamerà: «Davvero quest’uomo era figlio di Dio!» (Mc 15, 39). Straordinario il commento di Guigo I il Certosino, monaco del XII secolo: “Nuda e appesa alla croce dev’essere adorata la verità”.

L’evangelista Marco, se all’inizio del Vangelo di oggi annota che i presenti alla sinagoga erano stupiti dal suo insegnamento ora, invece, puntualizza che “tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!»”.

Il Regno di Dio ormai è presente nel mondo della storia grazie a Gesù. Attraverso di Lui Dio stesso parla e agisce in tutta la Galilea, la terra destinataria della sua predicazione.

Lasciamoci “rovinare” da Cristo! Saremo davvero liberi e salvi.

Buona Domenica.

       ✠   Francesco Savino

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