Omelie

XXXIII Domenica del Tempo ordinario anno A


Pr 31,10-13.19-20.30-31; Sal 127; 1 Ts 5,1-6; Mt 25,14-30

19  Novembre  2023

 

Domenica scorsa la parabola delle cinque vergini sagge e delle cinque vergini stolte si concludeva con il monito di Gesù: “Vegliate, perché non sapete né il giorno né l’ora in cui il Figlio dell’Uomo verrà nella gloria” (cfr. Mt 25, 31)”.

Le domande che si impongono sono due: Come vegliare? Come tradurre in uno stile di vita concreto il desiderio dell’incontro definitivo con il Signore?

Gesù ce lo dice mediante la parabola di oggi, un racconto che non va assolutamente interpretato come una lezione sull’uso del denaro o un elogio dell’abilità nel trarre profitti.

Entriamo in dialogo con la parabola!

Un uomo, partendo per un viaggio, consegna i suoi beni ad alcuni servi affinchè durante la sua assenza lo custodiscano e lo facciano fruttare: “A uno diede cinque talenti, a un altro due,  a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì”.

Quest’uomo è figura di Dio il quale, attraverso suo figlio Gesù Cristo, pone fiducia nell’uomo, trova gioia nell’offrire gratuitamente a ciascuno di noi i suoi doni (cfr. Mt 10, 8) e fa questo in modo personalizzato, tenendo conto di ciò che noi siamo in grado di accogliere.

Il punto consiste proprio nel riconoscere e nell’accogliere con gratitudine i doni personali ricevuti da Dio senza fare paragoni o confronti con quelli degli altri, ma impegnandosi a rispondere ai doni ricevuti con tutta la propria vita, consapevoli che nessuno potrà farlo al posto nostro.

I primi due servi impiegano i talenti ricevuti e ne guadagnano altrettanti senza che viene detto come. Il terzo servo “invece, che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone”. 

“Dopo non molto tempo”, ancora una allusione al ritardo della parusia (cfr. Mt 24, 48; 25, 5), il padrone ritorna e chiama separatamente i servi per chiedere loro conto dell’uso dei talenti. Il padrone loda i primi due servi avendo constatato il frutto ottenuto: “Bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. 

“Parole brevi ma estremamente significative, soprattutto alla luce della ricompensa promessa: entrare nella gioia del Signore significa infatti prendere parte alla festa escatologica, al banchetto del Regno (cfr. Mt 8,11). A confronto di questa pienezza di comunione ogni nostra azione si riduce a poca cosa; eppure senza questo «poco» non potremmo conoscere il «molto» a cui Dio ci chiama…” (Enzo Bianchi).

L’evangelista  Matteo si concentra però soprattutto sul dialogo che intercorre tra il padrone e il terzo servo, che comincia con il giustificarsi: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. 

Ma perché duro? Se mai egli è abile, efficace nel lavoro. Il problema è che questo servo si è costruito un’immagine perversa del suo signore, come anche noi facciamo spesso con Dio. E sono le sue stesse parole a giudicarlo (cfr. Lc 19,22), a rivelare ciò che abita il suo cuore (cfr. Mt 12,34): «Per paura andai a sotterrare il tuo talento; ecco, hai il tuo». Paura di Dio – una storia che incomincia con Adamo (cfr. Gen 3,10)! –; paura di esporsi al rischio di mettere a frutto ciò che si è ricevuto; paura di accogliere il dono come tale, come qualcosa che abbatte la logica del mio/tuo: tutto questo, non la durezza del padrone, ha paralizzato il servo, lo ha reso «cattivo e pigro». Vengono in mente le domande del padrone descritto in un’altra parabola, il quale ribatte a un servo che lo contesta: «Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?» (Mt 20,15) (cfr. Enzo Bianchi).

Il padrone riprende le parole usate dal servo nei suoi confronti e gli manifesta qual era il suo vero desiderio, cioè che si desse da fare, che impiegasse fattivamente il talento ricevuto e, così facendo, guadagnasse e salvasse la sua vita.

Succede sempre così, che quando qualcuno non impiega i propri doni finisce inevitabilmente per perderli e per sprecare la vita e, proprio su questa modalità, il commento di Gesù è molto chiaro e puntuale: “Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.

Il racconto di Matteo fa capire a noi oggi, lettori e ascoltatori di questa parabola, che il comportamento del terzo servo è riconducibile ad una idea sbagliata del “Padrone”. Definisce il Padrone uomo duro, che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso! Ed è proprio qui l’errore e il tranello! 

“Dinanzi ad una simile concezione di Dio non c’è spazio se non per due atteggiamenti: la paura ed il legalismo. Sono i due sentimenti che hanno guidato il servo a sotterrare il talento: ha avuto un talento ed un solo talento ha restituito, osservando una banale legge di onestà e di prudenza. Ha avuto paura di trattare con quel padrone “duro”, non ha voluto discussioni con Lui sul suo comportamento circa il traffico di quel talento; e per paura, ha creduto di risolvere il tutto in modo legalistico!” (padre Fabrizio Cristarella Orestano).

Torniamo alla domanda iniziale: che significa vigilare? (in greco gregoréo).

Nella parabola delle dieci vergini, vigilare significa essere equipaggiati per un tempo lungo. Qui, invece, c’è una risposta ulteriore: vigilare significa assumersi responsabilmente il quotidiano; e “responsabilmente” vuol dire “rischiando”! La parabola, allora, ci dice che il problema risiede tutto nel nostro rapporto con il Signore. Il rapporto del terzo servo con il Signore è di paura: è un servo molto diverso da quello delineato nella parabola del servo spietato (cfr. Mt 24, 42-51), il quale in fondo non prende sul serio la possibilità di un ritorno del padrone…

Interessante e significativa è la conclusione a cui perviene padre Fabrizio Cristarella Orestano nella interpretazione della parabola: “Si vigila, allora, solo se si è operosi; e non operosi nell’usare i “propri talenti”, le proprie bravure ed attitudini, ma operosi nel “trafficare” l’Evangelo, prendendolo concretamente sul serio, senza fughe né paure, ma rischiando e pagando di persona”. 

Ricordiamoci che in questa Domenica, come “Chiesa in cammino”, celebriamo la VIIa Giornata Mondiale dei Poveri.

Papa Francesco ci consegna un messaggio dal titolo: “Non distogliere lo sguardo dal povero” (Tb 4, 7).

Il Santo Padre ci invita a leggere il Libro di Tobia cogliendo l’essenza della sua testimonianza.

Testimoniare è la credibilità del nostro essere cristiani in questo momento storico, complesso e complicato, ma dalle grandi opportunità e provocazioni per la nostra fedeltà al cielo e alla terra, a Dio e agli uomini.

Nel messaggio, tra l’altro, leggiamo: “Viviamo un momento storico che non favorisce l’attenzione verso i più poveri. Il volume del richiamo al benessere si alza sempre di più, mentre si mette il silenziatore alle voci di chi vive nella povertà. Si tende a trascurare tutto ciò che non rientra nei modelli di vita destinati soprattutto alle generazioni più giovani, che sono le più fragili davanti al cambiamento culturale in corso. Si mette tra parentesi ciò che è spiacevole e provoca sofferenza, mentre si esaltano le qualità fisiche come se fossero la meta principale da raggiungere. La realtà virtuale prende il sopravvento sulla vita reale e avviene sempre più facilmente che si confondano i due mondi. I poveri diventano immagini che possono commuovere per qualche istante, ma quando si incontrano in carne e ossa per la strada allora subentrano il fastidio e l’emarginazione. La fretta, quotidiana compagna di vita, impedisce di fermarsi, di soccorrere e prendersi cura dell’altro. La parabola del buon samaritano (cfr. Lc 10,25-37) non è un racconto del passato, interpella il presente di ognuno di noi. Delegare ad altri è facile; offrire del denaro perché altri facciano la carità è un gesto generoso; coinvolgersi in prima persona è la vocazione di ogni cristiano”. 

Ringraziando il Signore per tutte quelle persone che ogni giorno si fanno prossimo agli scartati e agli esclusi, condividendo la loro vita, chiediamo all’unico Signore della storia la grazia di lasciarci convertire dalle persone più impoverite e fragili.

Buona Domenica.

 

   Francesco Savino