Omelie

II  DOMENICA  DI  PASQUA


At 2,42-47; Sal 117; 1 Pt 1, 3-9; Gv 20, 19-31

Domenica  16  Aprile  2023

 

La II Domenica dopo Pasqua è la Domenica della Divina Misericordia. San Giovanni Paolo II, da Papa, volle questa festa spinto dalla testimonianza della santa suora Maria Faustina Kowalska, polacca.

“Desidero che la prima domenica dopo Pasqua sia la Festa della Mia Misericordia! L’Anima che in quel giorno si sarà confessata e comunicata, otterrà piena remissione di colpe e castighi. Desidero che questa festa si celebri solennemente in tutta la Chiesa” (Gesù a Santa Faustina).

Perchè Dio è tanto ricco di misericordia? Quale scopo vuole perseguire? La ragione è una ed una soltanto: l’amore che vuole e desidera fortemente, sempre e comunque, ricostruire la nostra umanità.

Seguiamo, dunque, il percorso d’amore gratuito e pervasivo, umano e divino, delle letture di oggi.

La Prima che viene proclamata in questa Domenica è uno dei grandi sommari del Libro degli Atti degli Apostoli. Nella prima comunità cristiana nascente non si facevano discussioni teoriche o in astratto sul diritto di proprietà privata, né si teorizzava sullo stato sociale e nemmeno l’interesse per i poveri era meramente un obbligo morale. Tra l’altro l’evangelista Luca non vuole presentarci una “mistica della povertà” e nemmeno una dimensione “ascetica” della stessa. Luca afferma che il problema dei poveri a Gerusalemme tra i discepoli di Gesù aveva trovato una soluzione, anche se difficile da vivere sempre e coerentemente, come ci testimonia l’episodio negativo di Anania e Saffira.

La prima lettera di Pietro che ci accompagna in questo tempo pasquale ci spiega in cosa consista la vita cristiana iniziata con il battesimo e come questa si dispieghi nel tempo della prova. La speranza è fortemente sottolineata, poiché la sofferenza di Cristo è stata glorificata. L’Autore invita i cristiani perseguitati a resistere nella fede e a dare ragione della speranza che è in loro.

Il Vangelo di questa II Domenica di Pasqua ci insegna il passaggio tra la fede che sorge da l’aver visto il Signore e la fede che sorge senza aver visto. L’evangelista Giovanni ci racconta che i discepoli erano chiusi in casa per paura. È un momento di grande smarrimento e disorientamento: “L’amico più caro, il maestro che era sempre con loro, con cui avevano condiviso tre anni di vita, quello che camminava davanti, per cui avevano abbandonato tutto, non c’è più. L’uomo che sapeva di cielo, che aveva spalancato per loro orizzonti infiniti, è ora chiuso in un buco nella roccia. Ogni speranza finita, tutto calpestato (M. Marcolini). E in più la paura di essere riconosciuti e di fare la stessa fine del maestro” (Ermes Ronchi).

Il Vangelo ci racconta che Tommaso non era presente quando Gesù si mostra ai discepoli e se ne rammarica. Giustamente, annota la teologa Simona Segoloni Ruta: “non è anche lui uno di quelli che sono stati con lui? Lui può credere vedendolo: perché gli deve essere negato? Infatti Gesù si mostra al suo discepolo otto giorni dopo e Tommaso professa subito e senza toccare (al contrario di quanto aveva detto in un primo momento) la propria fede: mio Signore e mio Dio”.

Gesù, da buon maestro ed educatore, prende lo spunto dall’atteggiamento di Tommaso e insegna che da questo momento in poi, per quelli che verranno, la fede nascerà non dal vedere ma dall’ascolto dell’annuncio. Infatti “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”.

“Il quarto evangelista in quella che è la conclusione del suo Vangelo (prima dell’ultimo capitolo che è di fatto un’appendice) spiega che il libro che stiamo leggendo (e con esso i libri del Nuovo testamento e tutta la predicazione di questi discepoli) è stato scritto perché crediamo e credendo abbiamo la vita nel nome di Gesù. Da questo momento in poi la chiesa ripete le parole di Gesù e su Gesù perché gli esseri umani credano e, riconoscendolo vivo in mezzo a loro e per loro, abbiano la vita” (Simona Segoloni Ruta).

La fede che nasce dall’annuncio porta poi coerentemente a compiere gesti a testimonianza della trasformazione in vita vissuta. Il Risorto, infatti, è presente in ciò che i cristiani vivono e condividono: “parole che parlano di lui, parole rivolte insieme a Dio, pane condiviso nella preghiera e nella vita, perdono dei peccati (gesto menzionato da Gesù che compare in mezzo ai suoi discepoli, tutto preoccupato di annunciare la pace e la riconciliazione: non era tornato per giudicare chi l’aveva abbandonato o tradito o ucciso, ma per dare la vita)” (Simona Segoloni Ruta).

È significativo anche sottolineare che “i discepoli gioirono a vedere il Signore” (versetto 20). Che cosa dunque mette tutti noi in rapporto con Cristo? Il fatto che è risorto. Se non fosse risorto, se non fosse Lui vivo nel Suo vero corpo che gratuitamente si rende presente ai suoi, rendendoli, per Sua grazia, Suo corpo visibile, la nostra fede sarebbe vana, come scrive Paolo (cfr. 1Cor 15, 14.16), e la Chiesa sarebbe un semplice apparato destinato a finire.

Egli opera, così, in noi un cambiamento: i discepoli passano dalla paura e dalla tristezza alla gioia, intensa e profonda. La presenza del Risorto è per se stessa motivo di gioia, ma ancora di più lo è il vedere e riconoscere che colui che i discepoli hanno ora incontrato è lo stesso che hanno visto morire sulla croce, che la promessa si è compiuta.

Papa Francesco opportunamente annota: “Domenica abbiamo celebrato la resurrezione del Maestro, oggi assistiamo alla resurrezione del discepolo”.

Lasciamoci sempre incontrare dal Risorto perché è Lui il fondamento e la ragione del nostro essere cristiani, del nostro essere chiesa in cammino.

Buona Domenica.

  Francesco Savino


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