Omelie

XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (anno C)


Sir 35, 15-17.20-22 Sal 33; 2 Tm 4,6-8.16-18; Lc 18, 9-14

23  Ottobre  2022

Domenica scorsa Gesù nel Vangelo ci ha invitato a pregare sempre e senza stancarsi, oggi, in questa Domenica, il Vangelo ci aiuta a comprendere come pregare, come il pubblicano e non come il fariseo.

Scriveva Isacco il Siro: “Quando tu desideri conoscere la tua misura, quale tu sei, se la tua anima è sulla strada o ne è fuori, (o desideri conoscere) la tua bellezza o la tua pochezza, metti alla prova la tua anima nella preghiera. Questa è infatti lo specchio dell’anima e il saggiatore delle sue macchie e della sua bellezza. Lì si rivelano la falsità e le bellezze del pensiero … nel tempo della preghiera si vede, in modo luminoso, da cosa è mosso o in quali moti si affatica il pensiero”.

La preghiera, dunque, è luogo di verità, specchio della propria vita, con le sue contraddizioni e i suoi scarti, con la sua autenticità o la sua falsità.

La Parola di Dio odierna ci pone di fronte proprio a questo indissolubile legame tra la preghiera e la vita.

Entriamo in dialogo con la parabola dell’evangelista Luca, del fariseo e del pubblicano, che ci descrive due stili di preghiera a partire dalla vita stessa dei due uomini. La parabola è rivolta soprattutto a quelli che confidano in se stessi perché si ritengono giusti (cfr. Lc 18, 9).

Ecco la narrazione della parabola: “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano”.

“Il tempio è il luogo in cui si adora il Dio vivente, il luogo dell’incontro con lui, attraverso il culto stabilito dalla Torah. Entrambi sono nello spazio riservato ai figli di Israele, davanti al Santo, riservato ai sacerdoti. Entrambi invocano il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio rivelatosi come Signore a Mosè, il Dio che ha fissato la sua dimora nel tempio di Gerusalemme. Ma le somiglianze finiscono qui. Uno dei due è un militante del movimento dei farisei, l’altro un esattore delle tasse, uno che esercita un mestiere disprezzato, appartenente a una categoria di corrotti. Di più, l’esattore è detto “pubblicano” in quanto “pubblicamente peccatore”, “corrotto manifesto”, perciò maledetto da Dio e dagli uomini” (Enzo Bianchi).

Il fariseo, che si ritiene conforme alle attese di Dio, sta nella posizione consueta dell’ebreo orante, in piedi, e nel suo cuore fa una preghiera che vorrebbe essere un ringraziamento a Dio, ma di fatto è tutto concentrato su di sè, vanta i suoi meriti, si autocompiace, e fa il paragone tra sè e gli altri, giudicandoli. Il suo monologo di preghiera di fatto esprime la lontananza dagli altri uomini e da Dio. Sant’Agostino annota: “Era salito per pregare ma non volle pregare Dio, bensì lodare se stesso”. La preghiera del fariseo denota la perversione del rapporto con Dio: “la chiamata alla fede è un privilegio, l’osservanza della Legge una garanzia, l’essere in una condizione morale retta un pretesto per sentirsi superiore agli altri” (Enzo Bianchi). È evidente che Gesù non rimprovera al fariseo il fatto che compia opere buone ma che egli, nella sua fiducia in sè, non attenda alcunché da Dio. Si sente sano e giusto e non ha bisogno della santità di Dio. Egli nella sua preghiera si autocompiace e disprezza gli altri, declinando i peccati altrui dai quali si sente esente.

Di natura contraria la preghiera del pubblicano, peccatore pubblico, un uomo i cui peccati lo rendono oggetto di disprezzo da parte di tutti. Egli va al tempio consapevole di essere un mendicante del perdono di Dio.

L’evangelista Luca descrive in maniera precisa il suo comportamento opposto a quello del fariseo: “… fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore»”.

Il pubblicano si presenta dinanzi a Dio senza finzione, senza maschera, e riconosce la sua condizione di peccatore e prova lo stesso sentimento di Pietro, perdonato più volte da Gesù. Il pubblicano non ha alcunché da pretendere, non è ripiegato sul suo “io” ma conta sul “tu” di Dio.

S’impone alla nostra coscienza l’umiltà di quest’uomo peccatore.

Terminata la parabola, il giudizio di Gesù è chiaro: “Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”.

Echeggiano le parole del Magnificat: “Il Signore innalza gli umili” (Lc 1, 52). Il messaggio è chiaro: Dio innalza chi riconosce il proprio peccato! Gesù ci esorta, attraverso la figura del pubblicano, a umiliarci nel senso di lasciarci accogliere e perdonare da Dio, riconoscendo la nostra condizione di peccatori, senza proiettare sugli altri le cause di ciò che siamo.

“La parola conclusiva di Gesù, solennemente e autorevolmente introdotta da “Io vi dico”, fa di un giusto un peccatore e di un peccatore un giusto. Il giudizio di Dio, narrato da Gesù, sovverte i giudizi umani: chi si credeva lontano e perduto è accolto e salvato, mentre chi si credeva approvato, accanto a Dio, è umiliato e risulta lontano. Questo può apparire scandaloso, può apparire un inciampo nella vita di fede per gli uomini religiosi, ma è buona notizia, è Vangelo per chi si riconosce peccatore e bisognoso della misericordia di Dio come dell’aria che respira” (Enzo Bianchi).

 Buona Domenica.

   Francesco Savino

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