
Non una grande cattedrale, non le navate solenni di una basilica. Questa volta il Giubileo della speranza si è aperto tra mura alte, cancelli e sbarre. Ed è proprio lì, nella Casa circondariale “Rosetta Sica” di Castrovillari, che ha preso forma uno dei momenti più intensi e commoventi di questo Anno Santo che sta volgendo al termine.
A presiederlo è stato S.E. mons. Francesco Savino, vescovo della diocesi di Cassano all’Jonio e vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana, che ha voluto celebrare il Giubileo dei detenuti insieme a chi il carcere lo abita e lo vive ogni giorno. Un gesto carico di significato, che ha trasformato un luogo di pena in uno spazio di ascolto, di preghiera e di umanità condivisa.
Accanto al vescovo erano presenti il direttore dell’istituto, Giuseppe Carrà, il corpo di Polizia penitenziaria, gli assistenti, il personale medico, gli educatori, il referente regionale per la pastorale carceraria don Francesco Faillace, il cappellano padre Franco Granata, i rappresentanti della Caritas diocesana e del progetto “L’appetito vien studiando”, oltre naturalmente ai veri protagonisti della giornata: i detenuti.
Dopo i saluti istituzionali e la preghiera giubilare, la comunità riunita ha vissuto la celebrazione eucaristica, cuore di un incontro che ha saputo andare oltre i ruoli e le divise, toccando le coscienze.
Durante l’omelia, mons. Savino ha parlato con parole dirette e profonde, capaci di rompere il silenzio spesso pesante del carcere. “Voi non siete un problema e non lo sarete mai”, ha detto rivolgendosi ai detenuti. “Siete persone, siete fratelli. Nessuno è solo l’errore che ha commesso”. Parole che hanno trovato spazio negli sguardi e nei volti segnati dall’attesa e dalla fatica.
Il vescovo ha ricordato come la Chiesa creda che il luogo giusto per celebrare un Giubileo sia anche, e forse soprattutto, il carcere. Perché è qui, ha spiegato, che la speranza viene messa alla prova, che la dignità rischia di diventare fragile, che la misericordia deve smettere di essere retorica per farsi carne. “La mia visita qui” ha confidato “è sempre una bella occasione per incontrare volti, ascoltare storie, incrociare sguardi. E per ricordare a me stesso che nessuna vita è scarto”.
Nel suo intervento, mons. Savino ha intrecciato il Vangelo con la Costituzione, richiamando l’articolo che afferma come la pena debba tendere alla rieducazione e non possa mai essere disumana. Ha denunciato con forza le condizioni di sovraffollamento, il disagio psichico, la sofferenza silenziosa che attraversa le carceri italiane, ricordando che quando un istituto diventa invivibile per chi è ristretto, lo diventa anche per chi ci lavora. “La casa comune” ha detto “o si regge insieme o crolla insieme”.
Non sono mancate parole di gratitudine per la Polizia penitenziaria e per tutto il personale, spesso lasciato solo a gestire tensioni e fragilità profonde. A loro il vescovo ha rivolto un ringraziamento sincero, riconoscendo la fatica quotidiana e la responsabilità di custodire non solo l’ordine, ma anche la dignità delle persone.
Alla fine della celebrazione, tra i banchi improvvisati e il silenzio raccolto, è rimasta una sensazione chiara: per qualche ora, dietro quelle sbarre, si è toccata la Grazia di Dio. Non una magia, ma una promessa. Che nessuno sia perduto per sempre. Che nessuna vita sia di serie B. Che anche da un carcere possa ricominciare a reggersi la casa comune.
E forse, in quel luogo segnato dalla privazione della libertà, la speranza ha trovato uno dei suoi spazi più veri.
Caterina La Banca
direttore UCS
