Firenze – Anniversario della morte di Giorgio La Pira.

Firenze

 

 

Sorelle e fratelli carissimi,

abbiamo ascoltato che «In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù». In questo tempo, invece, sembra alla Chiesa che pochi vengano con lei. Nel tempo in cui Giorgio La Pira abitò questa città, un po’ di più erano quelli che della Chiesa si sentivano parte, ma egli comprese – e suggerisce anche a noi – che il focus resta Gesù. Una folla numerosa, un’intera umanità ne è attratta esplicitamente, o almeno implicitamente, a tal punto che l’intera storia ha Gesù come futuro che viene. Senza questa percezione di un punto focale non perderemmo solo La Pira, ma anche noi stessi. Una Chiesa non estroversa è come sale che ha perso sapore ed è buono solo da essere gettato. «Gli uomini sono in attesa – diceva La Pira –; essi giudicano la verità della religione secondo la fecondità di questa nella vita sociale. Proprio a Firenze, dieci anni fa – era il 10 novembre 2015 – Papa Francesco scosse la Chiesa italiana fin dalle fondamenta. Non crollò tutto quello che sarebbe stato necessario lasciare cadere dell’autoreferenzialità che tanti allontana, ma fu chiaro a tutti che l’edificio del Vaticano II poteva riprendere a essere innalzato. È l’edificio che tante donne e uomini di fede, laici e consacrati, nel Novecento hanno sentito di dovere a un’umanità che cerca quella dimora dalle porte sempre aperte, in cui ogni lacrima è asciugata ed è possibile la riconciliazione.

Leggiamo nell’Esortazione Apostolica Dilexi te, all’inizio del quarto capitolo:

L’accelerazione delle trasformazioni tecnologiche e sociali degli ultimi due secoli, piena di tragiche contraddizioni, non è stata solo subita, ma anche affrontata e pensata dai poveri. I movimenti dei lavoratori, delle donne, dei giovani, così come la lotta contro le discriminazioni razziali hanno comportato una nuova coscienza della dignità di chi è ai margini. Anche il contributo della Dottrina Sociale della Chiesa ha in sé questa radice popolare da non dimenticare: sarebbe inimmaginabile la sua rilettura della Rivelazione cristiana entro le moderne circostanze sociali, lavorative, economiche e culturali senza i laici cristiani alle prese con le sfide del loro tempo. Al loro fianco operarono religiose e religiosi testimoni di una Chiesa in uscita dalle vie già percorse. Il cambiamento d’epoca che stiamo affrontando rende oggi ancora più necessaria la continua interazione tra battezzati e Magistero, tra cittadini ed esperti, tra popolo e istituzioni. In particolare, va nuovamente riconosciuto che la realtà si vede meglio dai margini e che i poveri sono soggetti di una specifica intelligenza, indispensabile alla Chiesa e all’umanità.[1]

Questo orizzonte di contemplazione in azione in cui i battezzati interagiscono fra loro e con tutti i cercatori di verità, di giustizia e di bellezza, è l’orizzonte in cui brilla la testimonianza di Giorgio La Pira. La sinodalità come modo d’essere permanente della Chiesa – e quanta resistenza a entrare in questo paradigma non più imperiale, ma fraterno – è il dono che papa Francesco ci ha lasciato come eredità a sua volta ricevuta e trafficata – come gli evangelici talenti – dai grandi del Novecento.

Sorelle, fratelli, chi ha troppa fretta di chiudere il secolo scorso, di rimuoverlo dalla memoria con le sue tragedie e le sue folgoranti profezie, è pericoloso. I segni dei tempi in cui il Concilio Vaticano II ha invitato ad ascoltare la voce di Dio ci pongono in quest’ora della storia con la gigantesca responsabilità di chi non può dire di non avere visto e di non avere udito. Forse non siamo nani, ma certo possiamo avanzare sulle spalle di giganti e così vedere più lontano, seguire Gesù che ci precede e accogliere il futuro di Dio, in cui nessun povero, nessuno scartato, nessuna vittima della storia, nessun piccolo sarà dimenticato. Scriveva La Pira: «Se è vero, come è vero, che Cristo è risorto; se è vera, come è vera, la Rivelazione; se Pentecoste è vera, ed è vera, allora la storia totale del mondo ha un senso, una direzione e una finalità ben definita». Carissimi, questa speranza oggi ci raduna e ci impegna.

Nel Vangelo, infatti, Gesù si dimostra estremamente realista. Il Regno di Dio non si attende con le mani in tasca, al contrario: la parabola della torre e quella del re che si interroga sulla propria forza militare ci impongono di organizzare la speranza. Ecco la carità politica e, nella Chiesa, l’importanza di tradurre la fede creduta in discernimento corale, pastorale. Per meno di questo è meglio non dirsi cristiani: renderemmo ridicoli noi stessi e il nome di Cristo. Sì, noi rendiamo ridicolo il Vangelo – non vi entriamo e impediamo agli altri di entrare – e rendiamo ridicole le nostre liturgie e istituzioni quando perdiamo di lucidità e di audacia, quando non abbiamo più sogni cui dare corpo, visioni cui volgere energie e risorse. La Pira fu l’energia trasformativa del Vangelo in persona, non come leader solitario, ma come figlio di una Chiesa e fratello di uomini e donne altrettanto disposti allo studio, alla preghiera e al lavoro. Disposti all’attenzione e alla dedizione. La connessione tra queste due dimensioni – attenzione e dedizione – rende fattibile l’impresa di seguire Gesù. La più bella delle imprese. Una chiamata, ci suggeriscono ancora le letture di oggi, che rimane questione d’amore. Ebbene, l’amore organizza, fratelli e sorelle. Non solo i figli delle tenebre sanno stare al mondo. Da loro non dobbiamo imitare la corruzione, ma la scaltrezza. Ci svegli l’amore.

Io non sono un “sindaco”; come non sono stato un “deputato” o un “sottosegretario”: non ho mai voluto essere né sindaco, né deputato, né sottosegretario, né ministro. […] La mia vocazione è una sola, strutturale direi: pur con tutte le deficienze e le indegnità che si vuole, io sono, per la grazia del Signore, un testimone dell’Evangelo… «Mi sarete testimoni» è la mia vocazione. La sola. È tutta qui!

 

Come onoreremo, sorelle e fratelli miei, questa stessa vocazione. Che importa essere vescovo, sindaco, insegnante, avvocato, imprenditore, studente o pensionato, e persino malato o carcerato, senza quel «mi sarete testimoni»? La disperazione ci rende individui presi solo ad arraffare tutto quel che si riesce, uno contro l’altro, senza pensieri, intrattenuti da qualunque idiozia ci distragga coccolandoci, mentre il mondo brucia e l’ingiustizia dilaga. La speranza, invece, ci fa incontrare e appassionare, scioglie come neve al sole quel maledetto senso di impotenza che un’oligarchia sempre meno nascosta, sempre più fiera dei suoi crimini ci infonde per disinnescare il desiderio. Testimoni: la pietra scartata è diventata angolare. Il caso di Gesù non è una medicina che anestetizza, al contrario è il rovesciamento che ci salva, mobilitando il meglio di noi, perché quanto lo Spirito ispira divenga città. Sì, non esistono gioie private: la gioia più intima ci rende di quelli che «Riedificheranno le rovine antiche, ricostruiranno i vecchi ruderi, restaureranno le città desolate, i luoghi devastati dalle generazioni passate» (Is 61,4). Nel secondo dopo guerra qualcuno lo ha fatto, ma ad ogni generazione è rivolta questa vocazione messianica. Ci disse papa Francesco a Firenze:

Significa innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito. Allora tutto sarà possibile con genio e creatività. La Chiesa italiana si lasci portare dal suo soffio potente e per questo, a volte, inquietante. Assuma sempre lo spirito dei suoi grandi esploratori, che sulle navi sono stati appassionati della navigazione in mare aperto e non spaventati dalle frontiere e delle tempeste. Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. Mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. E, incontrando la gente lungo le sue strade, assuma il proposito di san Paolo: «Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).

 

Così sia.

   Francesco Savino

[1] Leone XIV, Esortazione Apostolica Dilexi te, n. 82

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