Dt 30, 10-14; Sal 18; Col 1, 15-20; Lc 10, 25-37

XV Domenica del tempo ordinario anno C

Siamo interrogati, tutti, in questa XV Domenica del Tempo Ordinario, sulla “via” per ereditare la vita eterna.

“Un dottore della legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»”.

È una domanda, al di là delle intenzioni del dottore della legge, di senso, importante per la nostra esistenza: dimenticare la vita eterna per noi credenti significa verosimilmente fallire soprattutto sul perché siamo venuti in questo mondo. Significa perdere il senso e il fine di dove stiamo andando. Il compianto Papa Francesco sosteneva: “Noi oggi abbiamo spesso un po’ paura di parlare della vita eterna. Parliamo delle cose che sono utili per il mondo, mostriamo che il cristianesimo aiuta anche a migliorare il mondo, ma che la sua meta sia la vita eterna e che dalla meta vengano poi i criteri della vita, non osiamo dirlo”.

Gesù rimanda la domanda del dottore della legge  alla scrittura e, con la solita pedagogia, lascia che sia lui stesso a dare la risposta: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”.

Gesù constata la correttezza della risposta ma quest’uomo pone ancora un’altra domanda, a sua giustificazione: “E chi è il mio prossimo?”.

Nell’Antico Testamento erano diffuse molte limitazioni sul prossimo, per esempio i samaritani non erano prossimi, il prossimo era colui che apparteneva al proprio gruppo, alla propria tribù. Gesù risponde a questa domanda con la parabola a noi molto nota del samaritano, una parabola che sconvolge non solo il concetto stesso di prossimo ma anche la modalità verso chi essere prossimo.

“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto”: Quest’uomo a terra è visto da un sacerdote che passa oltre, da un levita che passa oltre, magari non sono persone cattive, ma sono persone così legate alle fredde leggi di non poter toccare un morto di appartenenza diversa, che si rendono incapaci di fare il bene. Le regole hanno un senso ma c’è una regola, la compassione, che mette ordine in tutte le cose. Cosa vuol dire tutto ciò? Che le regole e i pregiudizi non salvano, anzi spesso ci conducono ad omissioni di soccorso, e sta scritto che chi ha la possibilità di fare il bene e non lo fa commette peccato (cfr. Missionari della Via).

Dopo il sacerdote e il levita, sopraggiunge un samaritano, ritenuto un eretico: che cosa farà?

Interessante la riflessione di padre Ermes Ronchi: “Egli non chiede fin dove arrivino i suoi doveri di solidarietà e nemmeno quali siano i meriti necessari per la vita eterna. Accade qualcos’altro: gli si spezza il cuore; il Vangelo usa la parola che in ebraico indicava in origine il grembo materno e la dedizione materna: ne ebbe compassione… Non c’è umanità possibile senza la compassione, il più concreto: prendere su di me il destino dell’altro. Non è spontaneo fermarsi. La compassione non è un istinto, ma una conquista. Come il perdono: non è un sentimento, ma una decisione”.

Ecco la rivoluzione del significato del prossimo, che non è l’altro, sono io; non è colui che sta vicino ma colui che si fa vicino. Il prossimo, allora, è colui che tu puoi diventare!

Il prossimo si diventa solo se si diventa prossimo di qualcuno!

Non possiamo non lasciare che il nostro cuore pensante non sia graffiato da questa rivoluzione che Gesù compie sul prossimo, soprattutto in questa contingenza storica, spesso caratterizzata dall’indifferenza, dalla negazione dell’altro.

Viviamo oggi, quasi come normalità, una duplice orfanità: “Dio è morto” (F. Nietzsche) e “Gli altri non sono per noi altro che paesaggio” (F. Pessoa).

“La morte del prossimo” (L. Zoja”) è un dato di fatto, si constata l’affievolirsi della prossimità, della vicinanza e l’espandersi di una distanza dall’altro che è indifferenza, fastidio, inimicizia, spesso odio.

Urge da parte di tutti, alla luce della parabola del samaritano, una conversione personale e comunitaria, consapevoli che “Amor ergo sum” sono amato dunque sono, “Amo ergo sum”, amo dunque sono, “Amor-Amo ergo vivo”, sono amato-amo dunque vivo.

Questa è la grande verità dell’uomo: solo l’amore ricevuto e donato, non soltanto ci rende gioiosi, ma cambia il mondo, la storia.

Buona Domenica.

 

   Francesco Savino

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