L’arte del prendersi cura, lezione del buon Samaritano

di Mons. Francesco Savino

26-11-2024

«La “Cura”, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa abbia fatto, interviene Giove. La “Cura” lo prega di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri. Ma quando la “Cura” pretese imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle fosse imposto il proprio. Mentre la “Cura” e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione: “Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che esso vive lo possieda la “Cura”. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (Terra)»

  1. Heidegger, Essere e Tempo

 La parabola del Buon Samaritano, con la sua limpida semplicità, cela un abisso di profondità spirituale e morale, raccontando una delle immagini più potenti dell’amore concreto, di un amore che non si limita e non si ancora solo ai sentimenti o alle parole ma si manifesta attraverso l’arte di prendersi cura. Un qualcosa di così potente che risuona oltre i secoli ed i confini. Non narra semplicemente un racconto o un evento ma interroga il cuore dell’uomo e lo costringe a misurarsi con quel meraviglioso mistero che è l’altro e con il dovere di prendersene cura. Una parabola che mi piace definire dell’onda, perché proprio come un sasso lanciato nel mare, genera onde che toccano l’esistenza e si spinge fino agli abissi della nostra anima, sfidando convenzioni e  pregiudizi.

Per questo motivo, con il mio intervento, non intendo fornire risposte già confezionate ma pormi e porvi domande che gettino luce sul senso del prendersi cura in una dimensione esistenziale ed umana, che forse stiamo accantonando.

Prendersi cura dell’altro è molto più che un atto di gentilezza: è la chiamata di Cristo, il suo muovere le corde della nostra anima e della nostra fede, una sorta di dinamismo esistenziale che superare le logiche dell’uno, le logiche del calcolo e si affida, si apre, alla gratuità, all’amore, alla compassione.

Il Vangelo di Luca, con questa parabola, ci fornisce il paradigma per eccellenza di questo atteggiamento e ci insegna che la cura non solo è un dovere ma una dimensione del nostro essere umani. In buona sostanza, non si tratta di una risposta emotiva ma di una serie di azioni concrete che ci mettono in azione. A partire dalle domande, quindi, cercherò di approfondire il significato del prendersi cura anche alla luce delle implicazioni pratiche che il Vangelo ci offre in spunti e che, don Tonino Bello, alla cui scuola mi sono formato, ha tradotto in undici verbi.

 

Il mio altro: un enigma da svelare?

La domanda “Chi è il mio prossimo?”, dalla quale si sviluppa la parabola del Buon Samaritano, racchiude ed esprime uno dei nodi fondamentali delle relazioni umane. Il dottore della legge, rivolgendo questo quesito a Gesù, cede all’equivoco di delimitare l’amore entro confini precisi. Luca ci svela il suo intento, egli infatti si rivolge in quel modo a Gesù: “Per metterlo alla prova”. E proprio questa domanda porta con sé una tensione che ci accomuna come esseri umani: il bisogno di trovare una soluzione, di definire un confine, un limite entro cui ogni cosa, perfino l’amore, possa essere circoscritta.

Quante volte anche noi, nei rapporti con l’altro e con l’altra, ci ritroviamo a chiedere: “Ma tu mi ami davvero? E quanto mi ami?”. In quel davvero e in quel quanto l’amore viene imprigionato, costretto in una gabbia fatta di condizioni e aspettative, nutrito a forza attraverso le sbarre di una razionalità che non gli appartiene. Tutto, anche ciò che è per sua natura infinito, come l’amore, viene così ridotto alla misura, reso gestibile, contenuto entro limiti definiti.

Ma l’amore autentico, come ci insegna la parabola, non conosce confini, non si lascia ingabbiare. Si espande, si dona, si apre all’altro senza chiedere nulla in cambio, perché è nella gratuità che rivela la sua vera natura.

Ecco allora che Gesù, interpellato dal dottore della legge, non offre una definizione teorica, ma mette in atto una pedagogia che, ancora oggi, insegna e illumina, lasciando volutamente aperti gli interrogativi. Non si sofferma a definire chi sia il prossimo, ma rivela cosa significhi essere prossimo, e lo fa utilizzando un’azione concreta di cura.

Il prossimo non è dunque una categoria chiusa, un soggetto in gabbia, un’identità da riconoscere per poi agire, ma una relazione viva, una chiamata a lasciarsi coinvolgere nell’esistenza dell’altro. Gesù ci insegna che il prossimo non è qualcosa da definire, ma qualcuno da incontrare, attraverso gesti che trasformano.

Cosa fa allora Gesù? Narra una parabola che diventa essa stessa la risposta, una strada aperta da percorrere.

Gesù, innanzitutto, decentra la domanda e pone al centro l’azione. Là dove il dottore della legge tentava di delimitare il campo delle sue responsabilità, Gesù allarga l’orizzonte, introducendo una narrazione che apre alla storia e definisce una prospettiva. Per dirla con le parole di Papa Francesco, Gesù non offre una risposta statica, ma crea un processo, un percorso dinamico di comprensione e trasformazione.

E forse fa anche qualcosa di più: sceglie come protagonista e testimone dell’essere prossimo, un Samaritano, figura inaspettata, e lo propone come esempio di amore e compassione, sovvertendo così le attese del suo interlocutore. I Samaritani, disprezzati dai Giudei come eretici, diventano nella parabola il modello di chi riconosce il bisogno di un uomo ferito e agisce per rispondere con cura.

In questo gesto, Gesù realizza due grandi operazioni: scardina il pregiudizio culturale e religioso – una piaga già diffusissima al suo tempo – e dimostra che l’altro non può essere definito sulla base di appartenenze etniche, sociali o religiose. L’altro diventa tale quando si è disposti a prendersene cura, quando ci si lascia toccare dalla sua vulnerabilità.

Questo ribaltamento pone interrogativi profondi, che continuano a interpellarci: chi sono i Samaritani del nostro tempo? Chi sono coloro che, pur esclusi e disprezzati, ci mostrano cosa significhi davvero prendersi cura? E ancora, quanto siamo pronti ad accogliere e riconoscere che bontà, amore e compassione possono manifestarsi proprio in chi sta ai margini, in chi è diverso da noi, in chi, troppo spesso, giudichiamo senza conoscere?

Un profeta della carità del nostro tempo, Don Tonino Bello, la cui testimonianza ha profondamente plasmato la mia formazione, ha saputo interpretare in modo straordinario il messaggio di Gesù contenuto nella parabola del Buon Samaritano. Partendo dalle indicazioni evangeliche, ha distillato l’essenza di questo racconto in una serie di verbi che, come pietre miliari, delineano un itinerario di autentica cura e solidarietà.

Questi verbi rappresentano azioni concrete, dinamiche di amore che si incarnano nella quotidianità. Ognuno di essi è un invito a superare la teoria e a immergersi nella realtà, nella carne viva, a vivere una carità che non rimane confinata nelle parole, ma che si manifesta nelle scelte, nell’impegno per l’altro. Sono lampade che rischiarano le tenebre del nostro individualismo e del nostro timore di coinvolgerci, mostrando come la cura sia una vocazione universale che tocca tutti gli aspetti dell’esistenza.

Il Samaritano, nella sua azione, non è solo un soccorritore occasionale, ma un testimone di una carità totale, capace di farsi carico della fragilità altrui. Questi verbi non si limitano a descrivere ciò che egli fa, ma indicano una strada da percorrere per chiunque voglia essere “prossimo”. Ognuno di essi illumina un aspetto dell’agire, richiamandoci alla concretezza della cura: un amore che vede, che si commuove, che agisce, che si compromette fino in fondo, senza calcoli, senza riserve.

Nel tracciare questo percorso, Don Tonino Bello ci offre una guida pratica e spirituale per incarnare il messaggio evangelico, per rendere visibile un amore che si fa prossimo non solo nei gesti straordinari, ma anche e soprattutto nella fedeltà al quotidiano. Essere Samaritani, infatti, non significa solo rispondere a un’emergenza, ma farsi carico delle ferite dell’umanità, accompagnare, sostenere, credere nella possibilità di una guarigione, anche quando sembra lontana.

Questo cammino, scandito dai verbi della carità, non è altro che il riflesso della logica del Vangelo: una logica che invita a uscire da sé stessi per accogliere l’altro, a riconoscere nell’umanità ferita il volto di Cristo, a trasformare ogni incontro in un’opportunità di amore autentico e gratuito.

Questi verbi sono:

  • Vedere: Il primo passo verso la compassione, così come ci insegna la parabola del Buon Samaritano, è racchiuso in un atto che sembra semplice ma che in realtà è profondamente rivoluzionario: vedere. Vi è un uomo ferito sul ciglio della strada e due figure, un sacerdote e un levita, che gli passano accanto. Lo vedono, certo, ma lo vedono davvero? Si può dire che i loro occhi abbiano davvero colto ciò che si trovava davanti a loro? Credo di no. Essi osservano senza vedere, attraversano la scena ma ne rimangono estranei.

Al contrario, è il Samaritano che vede davvero. Il suo sguardo non si limita alla superficie, non si ferma al dato biologico o fisico del vedere: esso si apre a una profondità che trascende il senso puramente sensoriale. Il Samaritano possiede uno sguardo che coglieaccoglie e raccoglie la sofferenza dell’altro. Non si tratta di uno sguardo distratto o neutro, ma di uno sguardo che si lascia colpire, che permette alla vulnerabilità dell’altro di toccare il proprio cuore. È uno sguardo che è già una prima forma di compassione.

E qui sta il punto: noi, figli del nostro tempo, siamo dominati dalla distrazione. Viviamo in una società che ci bombarda di stimoli, ma che raramente ci invita a fermarci davvero, a vedere oltre l’apparenza. Siamo spesso spettatori passivi di ingiustizie, povertà e solitudine, senza lasciare che queste realtà penetrino il nostro sguardo. Vedere, invece, è un atto intenzionale, un posare gli occhi non solo sul mondo, ma nelle sue ferite, nelle sue ombre, nelle sue profondità.

Il Samaritano vede, e questo vedere non è un gesto neutrale: esso genera un movimento interiore, un cambiamento che lo porta ad agire. È uno sguardo che diventa già una risposta, un’apertura verso l’altro, un primo passo verso la cura.

Ma cosa accade subito dopo? Il Samaritano vede e si… ferma. Qui inizia il movimento dell’amore che si concretizza. Fermarsi significa accettare di rompere il ritmo del proprio cammino, di uscire dalla propria agenda, dai propri progetti, per far spazio all’urgenza dell’altro. Fermarsi è il secondo passo, quello che trasforma la compassione in vicinanza.

Ed è proprio in questo fermarsi che Don Tonino Bello individua un secondo verbo. Ma prima di arrivarci, domandiamoci: siamo capaci di vedere davvero? Siamo disposti a lasciarci toccare da ciò che vediamo? E soprattutto, quando vediamo, siamo pronti a fermarci?

  • Fermarsi: Il Samaritano, dopo aver visto, compie un gesto che cambia radicalmente il corso della storia: si ferma. Non prosegue il suo cammino, non si lascia sopraffare dalla smania di andare avanti, dalla fretta di fare o dall’ansia di rispettare i propri impegni. Egli accetta di interrompere il proprio viaggio per dedicarsi a chi, sul ciglio della strada, giace abbandonato. Questo gesto, apparentemente semplice, è in realtà un atto straordinario di superamento dell’indifferenza, un’affermazione silenziosa ma potente di ciò che conta davvero.

Fermarsi è una scelta, spesso controcorrente, in un mondo che idolatra la produttività e la frenesia, una società in cui il valore della persona è troppo spesso misurato in base a ciò che produce o a quanto velocemente lo fa. Fermarsi, invece, è un atto di ribellione contro questa logica, la rivoluzione del tempo donato: significa dichiarare che l’altro, nella sua fragilità e nel suo dolore, ha valore in sé, a prescindere da ciò che dà o restituisce. Fermarsi è un atto di riconoscimento dell’umanità altrui, un gesto che afferma la dignità intrinseca di ogni vita.

Fermarsi, però, non è solo un gesto esteriore: è un movimento del cuore. Nel fermarsi, il Samaritano accetta di donare ciò che è più prezioso per ciascuno di noi: il proprio tempo. Donare tempo è più che offrire un aiuto materiale, perché implica mettere l’altro al centro, lasciare che la sua sofferenza e il suo bisogno interrompano la nostra routine, i nostri piani, le nostre urgenze. È un segno di una carità che non si accontenta di essere funzionale, ma si fa presenza, vicinanza, ascolto.

In quel fermarsi, il Samaritano compie anche un altro passo: si lascia coinvolgere. Non osserva l’altro come un problema da risolvere o un ostacolo sul suo cammino, ma si riconosce nell’altro. La sofferenza del ferito diventa anche la sua sofferenza, e in questo riconoscimento avviene qualcosa di straordinario: il Samaritano riscopre la propria umanità. Come ci ricorda Emmanuel Lévinas, “Il volto dell’altro è un appello che mi chiama alla responsabilità, che mi rende pienamente umano.”

Fermarsi significa quindi aprirsi alla vulnerabilità altrui e, allo stesso tempo, alla propria. È riconoscere che il dolore dell’altro non è qualcosa da ignorare o delegare, ma un frammento di un’umanità condivisa che ci interpella e ci trasforma.

Ci chiediamo allora: siamo capaci di fermarci davvero? Siamo disposti a lasciare che le urgenze altrui interrompano le nostre? Riusciamo a riconoscere, nel volto di chi soffre, una chiamata a uscire da noi stessi, a vivere una carità che non è solo dono, ma condivisione?

Fermarsi è il preludio di ogni vera azione d’amore, il momento in cui smettiamo di camminare per ascoltare, per accogliere, per amare. Il Samaritano si ferma e si sente coinvolto, si riconosce nell’altro che è ciò che accade quando riusciamo a…

  • Provare compassione: Provare compassione è il fulcro di questa parabola, il punto in cui il messaggio di Gesù si svela nella sua profondità. Il termine, che deriva dal latino cum-patior– soffrire con – non si limita a descrivere un’emozione superficiale come la pietà o la commiserazione, ma invita a un coinvolgimento totale, a un’adesione intima e concreta al dolore dell’altro. La compassione non osserva il dolore da lontano: lo attraversa, lo abita, si lascia ferire dalla sofferenza altrui fino a farla propria.

Questa dinamica non separa, ma unisce: la compassione crea un legame che spezza la solitudine del dolore. Come ci ha ricordato Lévinas, è il volto dell’altro, fragile e disarmato, che ci interpella. Quel volto non è un oggetto di osservazione, ma una chiamata alla responsabilità, un invito a uscire da noi stessi per rispondere con amore. Il volto dell’altro esprime una nudità che non possiamo ignorare, e proprio in questa vulnerabilità si radica la possibilità di una relazione autentica.

La compassione, dunque, non è solo un moto interiore, ma un atto etico primordiale. Non è un optional, ma un vincolo che lega la nostra libertà alla sofferenza altrui. Quando proviamo compassione, non siamo più spettatori distaccati, ma soggetti chiamati all’azione. Provare compassione implica una trasformazione profonda: ci porta a spostarci dal nostro centro verso l’altro, a stargli vicino, a vivere accanto a lui nel suo dolore.

In questo senso, la compassione è un movimento che rompe ogni barriera. Non si limita a sentire, ma agisce, risponde, si china sull’altro. È il passaggio dalla percezione alla relazione, dalla distanza alla vicinanza. È il momento in cui smette di essere una parola per diventare un gesto, un incontro, un dono.

Ecco allora la domanda che ci interpella: siamo capaci di provare compassione? Siamo pronti a lasciarci toccare dal dolore dell’altro al punto da trasformarlo in responsabilità, in vicinanza, in azione?

Questo è il cuore della compassione: non un sentimento passeggero, ma una scelta radicale che cambia il nostro sguardo sul mondo e il nostro modo di stare accanto a chi soffre. È qui che si innesta il terzo verbo, un gesto che porta la compassione dal cuore alle mani, dalla tensione interiore all’azione concreta.

  • Avvicinarsi: Cosa fa il Samaritano? Dopo aver visto, essersi fermato e lasciato muovere dalla compassione, egli compie un gesto fondamentale: si avvicina. Sceglie di accorciare le distanze, di entrare nel raggio d’azione della sofferenza. Questo movimento è più che fisico: è una decisione che infrange pregiudizi e abbatte ogni muro culturale e sociale. Avvicinarsi richiede coraggio, perché implica una vicinanza che espone, che mette in gioco, che rischia di coinvolgere fino in fondo.

Avvicinarsi è, infatti, un atto che supera ogni paura di contaminazione, ogni timore di esporsi troppo. Significa uscire dalla nostra zona di sicurezza – quella che spesso chiamiamo comfort zone, ma che non di rado è solo una maschera del nostro egocentrismo – per entrare in uno spazio di vulnerabilità condivisa. Il Samaritano, avvicinandosi, accetta il rischio: il rischio di sporcarsi le mani, di essere toccato dalla sofferenza, di lasciarsi ferire dall’umanità ferita che ha davanti.

Questo gesto è una scelta di prossimità che diventa  vero incontro. Avvicinarsi significa riconoscere che la dignità e il valore non risiedono nelle etichette o nelle appartenenze, ma nella comunione che si crea quando ci si fa vicini, quando si accetta di condividere lo spazio e il tempo con chi è fragile. È un gesto che richiede di piegarsi, non per sottomettersi, ma per guardare negli occhi, per essere presenti con autenticità.

Nel gesto del Samaritano, troviamo un insegnamento universale: non possiamo limitarci a compatire a distanza, a preservare un margine di sicurezza tra noi e la sofferenza. Solo nella prossimità si può costruire un’autentica relazione, solo avvicinandosi si può iniziare a curare, a sanare, a ricomporre ciò che è infranto.

Una volta trovata questa vicinanza, il Samaritano non è solo presente: egli si piega, tocca con mano la realtà ferita e inizia a prendersi cura, trasformando la compassione in azione concreta. Ed è qui che si innesta il passo successivo: il gesto che cambia, che guarisce, che restituisce dignità e speranza. Una volta trovata la giusta vicinanza il Samaritano si piega ed inizia a…

  • Fasciare: è uno dei gesti più profondi e ricchi di significato della parabola. È un’azione che richiama non solo il desiderio di lenire il dolore, ma anche la volontà di ricomporre ciò che è stato spezzato. Nelle fasce del Samaritano, possiamo quasi intravedere un’aura di santità: quelle bende, forse improvvisate con ciò che aveva a disposizione, diventano strumenti di guarigione e simboli di una misericordia che si fa tangibile.

Papa Francesco, in una delle sue immagini più potenti, ci ha ricordato che siamo chiamati, come Chiesa,  ad essere un “ospedale da campo”, pronti a fasciare le ferite dell’umanità con il balsamo della misericordia. Non è solo un fatto medico o pratico: è un linguaggio che parla di vicinanza, di empatia, di volontà di restituire dignità a una vita ferita. C’è in questo gesto un intento duplice: fermare il sangue, alleviare il dolore immediato, ma anche dare un segnale di speranza, di attenzione, di amore per chi giace spezzato lungo il cammino.

Questo gesto, però, non è privo di fatica. Fasciare significa scendere nel dolore, accettare di condividere una vulnerabilità. Richiede la capacità di affrontare ciò che è rotto, di non fuggire davanti alla fragilità. Le ferite che vengono fasciate, infatti, non spariscono immediatamente: rimangono, ma iniziano un processo di guarigione. E in questo risiede il messaggio più profondo: fasciare non elimina la sofferenza, ma la trasforma, le dona un percorso verso la redenzione e la rinascita.

Fasciare, dunque, è un atto d’amore che accoglie senza condizioni, che non nega il dolore, ma lo abbraccia, lo condivide, lo sostiene. È una scelta che non si limita al rimedio immediato, ma che partecipa alla ricostruzione di una vita. Un gesto che comunica: attraverso esso, il Samaritano si fa prossimo, si rende presente davanti alla sofferenza. È un modo di dire senza parole: “Non sei solo. La tua ferita non mi spaventa. Sono qui per aiutarti a guarire.” In questo risuona la chiamata cristiana a essere strumenti di guarigione, a non temere la vulnerabilità, a scegliere l’amore come via per ricomporre ciò che il mondo ha spezzato.

E allora, ci si chiede: siamo disposti a fasciare le ferite che incontriamo? Siamo capaci di scendere nel dolore altrui senza paura, offrendo la nostra presenza e la nostra cura, pur sapendo che non possiamo eliminare ogni sofferenza, ma possiamo contribuire a trasformarla? Fasciare è un invito a vivere l’amore come servizio, come dono che non cancella, ma trasforma.

  • Versare Olio e vino: Dopo aver fasciato l’uomo ferito, il Samaritano compie una azione di straordinaria profondità: versa sulle ferite olio e vino. Un gesto pratico e simbolico, radicato nell’antichità, in cui questi due elementi erano utilizzati anche per scopi terapeutici. L’olio lenisce, ammorbidisce i tessuti, calma il dolore; il vino, invece, con la sua natura disinfettante, purifica e protegge. Tuttavia, il significato non si esaurisce nella sua utilità immediata: il Samaritano non si limita a offrire una cura materiale, ma trasforma questi elementi in un segno di dono, in una cura che unisce spirito e materia, compassione e guarigione.

L’olio e il vino assumono qui una valenza che trascende il gesto: diventano un richiamo potente alla dimensione sacramentale. L’olio richiama l’unzione, simbolo di consacrazione e guarigione spirituale, un segno della presenza di Dio che lenisce non solo il corpo, ma anche l’anima. Il vino, invece, ci riporta alle parole di Gesù nell’ultima cena: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti” (Matteo 26,28). Diventa simbolo del sacrificio e dell’abbondanza, della vita donata perché altri possano trovare speranza e salvezza.

Nel versare olio e vino, il Samaritano richiama queste due dimensioni, intrecciando il tangibile con l’intangibile, l’azione concreta con il significato profondo.

Che senso ha per noi, oggi, offrire l’olio e il vino? In un tempo in cui spesso la cura viene delegata, industrializzata, resa anonima, offrire olio e vino significa dare non solo ciò che è utile, ma ciò che è nostro, ciò che contiene il valore della dedizione e dell’intenzione. È un gesto che supera la materialità e diventa linguaggio, una comunicazione che dice: “Il tuo dolore mi riguarda, la tua guarigione è la mia missione.”

La cura è autentica quando non si limita al necessario, ma si fa abbondante, generosa, persino sacra. È lì che il nostro olio e il nostro vino diventano segni visibili di un amore che guarisce, che riconcilia, che restituisce vita a chi pensava di averla persa per sempre. Questo significa che ogni gesto di cura, per quanto possa sembrare una perdita, è in realtà una fonte di abbondanza. L’amore che si dona non si esaurisce, ma si moltiplica, creando legami, restituendo dignità, alimentando speranza.

E noi, in che modo viviamo la nostra vita perché sia un’offerta di olio e vino? Quali sono i nostri gesti che, pur nella loro semplicità, si caricano di un significato che va oltre la materia? Riusciamo a essere strumenti di guarigione, a portare abbondanza là dove ci sono ferite, a condividere il nostro tempo, le nostre risorse, il nostro amore, perché chi è spezzato possa ritrovare gioia e forza?

  • Caricare: tra i gesti del Samaritano, uno dei più intensi e significativi è quello di caricare l’uomo ferito sul proprio giumento. Non si limita a soccorrerlo nell’immediatezza del momento, ma compie un atto di piena assunzione di responsabilità: solleva l’uomo dalla polvere della strada, lo sostiene e si fa carico della sua vulnerabilità, conducendolo verso un luogo sicuro. Caricare significa accettare di portare, e spesso di sopportare, il peso della sofferenza altrui, accompagnandola con pazienza e dedizione. Questo gesto riflette perfettamente l’esempio di Cristo, che “si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori” (Isaia 53,4). In ogni ferita che il Samaritano solleva, possiamo intravedere l’ombra della croce, il peso che Cristo stesso ha scelto di portare per ciascuno di noi. Farsi carico è una Chiamata alla Pietas. Nel caricare il ferito, il Samaritano incarna la pietas, quell’amore compassionevole che non abbandona chi è debole, ma lo solleva, lo accompagna, lo protegge. Come ci ricorda Dietrich Bonhoeffer, “La responsabilità non è una scelta, ma una chiamata che sorge dall’incontro con l’altro.”Caricare il ferito non è solo un gesto di bontà: è un atto di fraternità, un impegno a non lasciarlo solo, a non lasciarlo indietro. È una scelta di amore che abbraccia la fragilità senza riserve.

Caricare significa anche accompagnare: non lasciare che il ferito affronti il cammino da solo, ma essere al suo fianco fino a quando sarà al sicuro. Questo gesto ci interpella profondamente: siamo disposti a farci carico delle sofferenze che incontriamo? Siamo pronti a trasformare il nostro amore in un atto di responsabilità verso i più fragili?

Mi viene dunque da chiedermi, e da chiedervi: in che modo il mio amore, il mio impegno, la mia cura si traducono in un sostegno concreto per chi è più debole? Siamo capaci di farci carico non solo delle urgenze, ma anche della lunga strada che la fragilità spesso comporta?

Come possiamo trasformare le nostre relazioni in atti di responsabile fraternità, in gesti che alleggeriscono il peso altrui senza sottrarlo alla dignità di chi lo porta?

Il gesto del Samaritano ci insegna che l’amore non si limita a compatire, ma si piega, si carica, si fa presenza concreta e duratura. È un invito a vivere le nostre relazioni come spazi di cura reciproca, dove la responsabilità per l’altro non è vista come un peso, ma come un privilegio, un’opportunità di amare come Cristo ci ha amati.

Come ci ricorda Simone Weil, “Amare significa accettare di essere responsabili dell’altro, di portarlo come parte della propria vita.” In questo senso, caricare non è solo un gesto verso chi soffre: è una trasformazione del nostro modo di vivere, un modo di rendere ogni relazione un luogo di speranza, di sostegno, di riscatto.

Che il gesto del Samaritano ci ispiri a farci carico gli uni degli altri, a essere, nel nostro piccolo, strumenti di guarigione, forza e consolazione per chiunque incroci il nostro cammino.

  • Portare: Dopo essersi caricato della responsabilità dell’uomo ferito, il Samaritano compie un ulteriore passo: lo porta con sé, conducendolo verso un luogo sicuro, una locanda. Il gesto di portare non si riduce al semplice trasferire qualcuno da un punto all’altro; è il segno di un accompagnamento che incarna la volontà di camminare insieme, di essere presenza costante lungo il percorso della guarigione.

Portare significa accettare di diventare compagni di viaggio, condividendo il cammino con chi non può ancora procedere da solo. È una scelta che richiede pazienza, perché il compagno di viaggio non impone il proprio ritmo, ma si adatta al passo dell’altro, rispettandone i tempi e sostenendolo fino a che non ritrova la forza per camminare autonomamente.

Questo atto richiama un legame profondo, quello del cum-panis, del condividere non solo il cammino, ma anche ciò che si ha e ciò che si è. Nel portare il ferito, il Samaritano lo accoglie come compagno, creando una relazione basata sulla fiducia e sulla fedeltà. Questa fedeltà non è dettata dalla necessità, ma da una scelta libera, un atto d’amore che riflette il desiderio di restituire all’altro la possibilità di andare avanti.

Nel gesto del Samaritano possiamo intravedere l’ombra di Cristo, il compagno di viaggio per eccellenza. Gesù non ci abbandona nei momenti di difficoltà, ma cammina accanto a noi, come fece con i discepoli di Emmaus. Egli non forza il passo, non giudica la lentezza o la fatica, ma si adatta, ascolta, guida. È presente, sempre.

Quante volte, nella nostra vita frenetica, siamo davvero disposti a rallentare per accompagnare chi è in difficoltà? Il portare implica rinunciare al nostro ritmo, alle nostre mete immediate, per essere al fianco di chi ha bisogno di sostegno. Non è una scelta facile, ma è una scelta necessaria se vogliamo costruire relazioni autentiche e vivere una fraternità concreta.

Essere compagni di viaggio significa accettare di condividere non solo i tratti più semplici del cammino, ma anche quelli più ardui e faticosi. Richiede di guardare oltre i nostri obiettivi personali per accogliere l’altro come una parte di noi, come un segno di comunione e di responsabilità reciproca. Chiediamoci allora: siamo capaci di adattare il nostro passo a quello di chi è rimasto indietro?

Riusciamo a vivere le nostre relazioni come compagni di viaggio, pronti a sostenere, rispettare e incoraggiare chi cammina accanto a noi?

  • Prendersi cura: Nel gesto del prendersi cura si concentra il nucleo dell’amore cristiano e il senso profondo della parabola del Buon Samaritano. Prendersi cura significa entrare pienamente nella vita dell’altro, abbracciarne la totalità, riconoscendo l’altro non come un oggetto da soccorrere, ma come un “me fuori di me“, un altro sé che ci interpella e ci trasforma.

Questo salto, dal gesto al coinvolgimento, dalla necessità alla relazione, richiama alla mente la riflessione filosofica di Martin Heidegger, che nel suo capolavoro Essere e Tempo colloca la cura (Sorge) al centro dell’esistenza umana. Heidegger ci insegna che la cura non è un’aggiunta all’essere umano, ma il fondamento stesso della sua esistenza. È la struttura ontologica fondamentale che rende possibile il nostro essere-nel-mondo, il nostro relazionarci a noi stessi, agli altri e alle cose.

Heidegger richiama la favola di Igino per esprimere questa verità: “Cura teneat, quamdiu vixerit” – la cura possieda l’uomo finché vive. La cura, dunque, è una condizione primordiale, ciò che ci costituisce come esseri relazionali. È il nostro humus, il terreno su cui si fondano il nostro volere, il nostro desiderare, il nostro pensare. È ciò che ci rende aperti al mondo e agli altri, permettendo quell’intreccio esistenziale che Heidegger chiama Mitsein (con-esserci), ovvero la nostra apertura originaria all’altro e all’esistenza.

Prendersi cura, dunque, non è un atto neutrale, ma un movimento che può oscillare tra la liberazione e il controllo. È qui che risiede il rischio e la sfida: evitare che la cura si trasformi in una forma di possesso, in cui l’altro diventa un mezzo per affermare il proprio ego o la propria superiorità. La vera cura non domina, non soffoca, non annulla l’altro nella sua libertà. Al contrario, essa si fa garante della sua dignità e del suo diritto a essere sé stesso.

Come ci ricorda Dietrich Bonhoeffer, “L’amore per l’altro non è mai un atto di sopraffazione, ma sempre un atto di rispetto. È il dare spazio affinché l’altro possa essere.” Questo rispetto è ciò che distingue la cura autentica dalla manipolazione o dal controllo. La cura autentica è un atto di fede nell’altro, un credere nella sua capacità di crescere, di risollevarsi, di camminare con le proprie gambe.

Anche la cura, quindi, non è mai priva di ambiguità. Come possiamo evitare che il nostro prendersi cura diventi una forma di controllo o di possesso? Come possiamo sostenere senza sopraffare, accompagnare senza sostituirci, amare senza imprigionare?

Nella prospettiva cristiana, prendersi cura non è un’opzione, ma una vocazione. È un riflesso dell’amore di Dio che non si impone, ma si dona, lasciando liberi. Gesù stesso, il perfetto Samaritano, si è fatto carico delle nostre debolezze senza mai annullare la nostra libertà. La sua cura non è mai stata controllo, ma offerta, invito, accompagnamento. Questa è la cura autentica: un rispetto profondo per l’unicità dell’altro, una volontà di camminare accanto senza dirigere, di sostenere senza soffocare. E allora poniamoci queste domande: come possiamo trasformare la nostra cura in uno spazio di libertà, anziché di controllo?

In che modo possiamo vivere il prendersi cura come una relazione autentica, capace di rispettare l’altro nella sua integrità?

  • Pagare: Nella parabola, il gesto del Samaritano che lascia due denari per le cure del ferito non è solo un atto di carità, ma un segno di responsabilità che si proietta nel futuro. È come se dicesse: “Mi sono preso cura di te fino a ora e mi assicuro che starai bene anche dopo“. Questo gesto non è riducibile al valore dei denari offerti; è invece un’espressione profonda di amore gratuito, un amore che anticipa il bisogno, che si preoccupa di ciò che verrà, senza aspettarsi nulla in cambio. Il Samaritano non calcola, non si chiede se verrà ripagato o se i suoi sforzi saranno riconosciuti: si espone totalmente, lasciando che il proprio dono sia un legame con il futuro dell’uomo ferito. Nel contesto cristiano, il gesto del pagare acquista una valenza sacramentale, richiamando il significato del dono definitivo che Cristo ha fatto per l’umanità. Karl Rahner ci ricorda che il sacrificio di Cristo, il suo “pagamento” ultimo, è l’atto che libera dal peccato e che si rinnova continuamente nell’Eucaristia. Allo stesso modo, il Samaritano si fa garante di un futuro per l’uomo che ha soccorso, non solo attraverso un gesto materiale ma con una responsabilità che lo lega alla vita altrui. Pagare, in questa prospettiva, diventa un simbolo di amore che va oltre la contingenza del momento e si fa garanzia, fedeltà, preoccupazione per ciò che accadrà dopo. E noi, siamo pronti a fare altrettanto? Siamo disposti a pagare, non solo con beni materiali, ma con il nostro tempo, le nostre energie, la nostra attenzione, per il bene di chi ci sta accanto? Siamo in grado di offrire senza fare calcoli, senza chiedere garanzie o aspettarci riconoscimenti, trasformando ogni nostro gesto in un dono che costruisce futuro?
  • Promettere di tornare: Eccoci giunti all’apice della dedizione del Samaritano: la promessa di un ritorno. Questa è una dichiarazione di fedeltà e un segno di speranza. Promettere di tornare significa rifiutare ogni forma di indifferenza, decidere di radicare la carità nel tempo, assumendosi la responsabilità di accompagnare l’altro oltre l’emergenza. È un atto che non si esaurisce nel presente, ma che costruisce una continuità tra passato, presente e futuro. La promessa è il volto profondo di una relazione duratura, è il dire “io ci sarò” anche quando non è richiesto, anche quando potrebbe sembrare superfluo. In questo gesto si riflette il cuore del messaggio cristiano: Dio non abbandona, rimane fedele anche quando l’uomo si smarrisce, anche quando sembra non meritare la Sua presenza. La promessa del Samaritano è un’eco di questo amore divino, un amore che non si limita a rispondere all’urgenza, ma che si prolunga nel tempo, rimanendo saldo e resistente, capace di insistere anche quando tutto sembra compiuto. Promettere di tornare è un atto che proietta nel futuro un impegno che nasce dalla compassione e dalla responsabilità. Questo gesto, così carico di significato, ci interroga profondamente: siamo capaci di mantenere fede agli impegni che prendiamo? Riusciamo a incarnare una carità che non si consuma nell’istante, ma che si prolunga, che resiste al tempo e ai sacrifici che richiede? Siamo pronti a vivere la promessa non come un peso, ma come una testimonianza di amore autentico, un segno che parla di fedeltà e speranza per chi ci è stato affidato?

 

A lezione con il Samaritano, ci scopriamo trasformati, perché questa parabola è molto più di un racconto: è una guida straordinaria per comprendere e vivere l’arte del prendersi cura. Il Samaritano si impone come una figura rivoluzionaria, di un’attualità disarmante, in un mondo sempre più segnato dall’indifferenza, dalle disuguaglianze e dalla solitudine. In un contesto dove l’egoismo spesso prevale e la velocità del vivere sembra lasciare indietro chi è più fragile, il Samaritano ci invita a ribaltare prospettive e priorità, facendoci riscoprire la bellezza e l’urgenza della cura.

Prendersi cura, nel senso profondo che ci insegna il Samaritano, significa prima di tutto ascoltare: dare spazio alla voce e al dolore dell’altro, senza sovrastarlo con le nostre soluzioni o con la fretta di agire. È un ascolto che accoglie, che lascia che l’altro si esprima nella sua vulnerabilità, perché ogni fragilità porta con sé una storia e un bisogno di essere riconosciuta. Accogliere diventa allora il passo successivo, un’accoglienza che non si limita alla presenza fisica, ma che abbraccia la persona nella sua interezza, anche contro i modelli di una cultura che esalta la forza, la prontezza e l’autonomia. La cura, invece, ci insegna che è proprio nella vulnerabilità che si trova il vero luogo dell’incontro, quello in cui si creano legami profondi e autentici.

Prendersi cura significa anche costruire prossimità. La cura rompe i muri, abbatte le barriere, supera le divisioni, creando comunità solidali dove le differenze diventano ricchezze e non ostacoli. La prossimità non è mai astratta: è un ponte che collega le vite, che trasforma gli individui in compagni di viaggio, che restituisce dignità a chi è stato lasciato ai margini.

Infine, prendersi cura vuol dire sostenere con la concretezza dell’impegno: per i poveri, gli emarginati, gli ammalati, e tutti coloro che vivono la fragilità come condizione quotidiana. È una chiamata ad agire, a non voltarsi dall’altra parte, a farsi carico di quelle vite che sembrano dimenticate, portando speranza dove sembra esserci solo desolazione. Il Samaritano ci invita a vivere una cura che non si esaurisce nell’emozione di un momento, ma che si radica in scelte di solidarietà, di prossimità e di amore fattivo, lasciando che il nostro vivere diventi un segno visibile di speranza per il mondo.

Ecco a cosa siamo chiamati, ecco qual è la nostra autentica vocazione: le nostre comunità devono diventare quella locanda in cui i feriti, nel corpo e nello spirito, trovano ristoro e accoglienza. Non si tratta di offrire una semplice assistenza, né di un “fare” per gli altri che rimane circoscritto a un atto di volontariato occasionale. Si tratta di incarnare l’integralità della cura, una cura che abbraccia l’interezza dell’altro e che diventa uno stile di vita, un segno visibile della carità cristiana. Come uomini, prima ancora che come cristiani, siamo chiamati a chinarci sul prossimo, a prendere su di noi le sue ferite, ad assumere come nostre le sue sofferenze. La cura diventa così non solo un gesto, ma una presenza, un cammino verso la pienezza umana e divina. Compatire non è sufficiente: occorre agire, trasformare la compassione in movimento, la vicinanza in concretezza, l’amore in responsabilità.

E allora, chi è il mio prossimo? Il prossimo è un’epifania, non qualcuno da classificare o definire, ma qualcuno da riconoscere. È una rottura del nostro ordine prestabilito, un’irruzione che ci espone, che ci chiama a metterci in gioco. Il prossimo non è un oggetto, ma un volto, una presenza che ci responsabilizza, che ci obbliga a rivedere le nostre priorità e le nostre sicurezze. È un mistero che riflette la trasparenza di Dio, un luogo in cui sperimentiamo la trascendenza, la carezza di Gesù che si manifesta attraverso la fragilità dell’altro.

Il prossimo è un orizzonte aperto, una realtà che non può essere racchiusa in schemi o categorie predefinite. È la ferita che ci interpella, che ci ricorda le nostre stesse fragilità. Quando accogliamo e ascoltiamo la sofferenza dell’altro, scopriamo che essa non è mai soltanto “sua”, ma diventa una ferita condivisa, un riflesso della nostra condizione umana. Il prossimo è la radicalizzazione dell’alterità, il punto in cui la relazione di cura si fa autentica, in cui l’amore supera ogni barriera e diventa trasfigurazione della nostra stessa esistenza.

Essere locanda per il prossimo significa allora essere testimoni di una cura che non si limita al rimedio, ma che si fa dono, che accoglie, accompagna, guarisce, e restituisce dignità. È lì che il cristianesimo trova la sua vocazione più vera: nel trasformare ogni incontro con il prossimo in una rivelazione, un’occasione per rendere visibile il volto di Dio nella storia.

 

Carissimi fratelli e sorelle,

come già detto in apertura, vorrei lasciarvi non delle risposte preconfezionate ma una riflessione aperta, degli interrogativi che spero possano continuare a risuonare nei vostri cuori. Non ho inteso infatti, ripercorrendo i gesti del Samaritano, offrirvi soluzioni o risposte esaustive perché la cura, nella sua accezione più profonda, non si risolve con una analisi ma si vive come una realtà che si interroga costantemente. E allora lasciate vi ponga un interrogativo definitivo, che non sostituisce la domanda dell’uomo della legge: Chi è il mio prossimo? ma che la rafforza:

 

Sono io prossimo per qualcuno?

 

Vi auguro dunque di essere Samaritani non solo nei gesti ma anche nell’essenza profonda della vostra vita; di vedere il dolore che sfiora i margini delle strade e della vita e di avere il coraggio di fermarvi, di sapervi fermare, di non voltare gli occhi, le spalle ed il cuore altrove, ma di lasciare che ogni ferita dell’altro vi tocchi, vi trasfiguri e vi renda terra arida che accoglie la pioggia per far rinascere la vita, terra feconda.

Vi auguro di portare con voi non solo bende e balsamo ma la gentilezza, il sorriso che consola e la voce che riscalda. Che possiate essere capaci di chinare il cuore prima ed il corpo poi, sul prossimo che soffre e che chinandovi apriate le mani per fasciare e non per trattenere. Vi auguro di essere capaci di caricare i pesi degli altri, senza calcolare il costo del sacrificio.

Vi auguro di essere Samaritani nei pensieri e lasciare che la vostra mente si apra alle storie degli altri, accogliere non solo chi chiede ma anche chi non osa più domandare.

Siate Samaritani nei gesti e lasciate che il vostro olio ed il vino scorrano senza la paura di perderli perché l’amore che si dona moltiplica ogni bene.

Siate Samaritani del tempo: fate dell’oggi un luogo dove qualcuno trovi speranza e del domani una promessa di ritorno per chi ha creduto in voi.

Siate fedeli alla cura e non lasciatevi sedurre dalla fretta e dall’egoismo.

Soprattutto, siate Samaritani senza volto perché non cadiate nella tentazione di ricercare il riconoscimento ma solo la gioia del con-esserci. Siatelo nei deserti del mondo, lì dove la solitudine urla silenziosa e nei giardini in fiore dove le ferite sono nascoste da finti sorrisi.

Ricordate sempre che essere Samaritani non è un dono di santità ma un esercizio ed una azione quotidiana, un modo di anticipare il cielo sulla terra. E infine, vi auguro di scoprire che nel vostro chinarvi sull’altro, il volto di Dio si riflette nella vostra anima e nell’amore che donerete senza riserve, troverete la misura di ciò che siete chiamati ad essere.

Siate Samaritani, poeti della carità, testimoni di speranza, artisti della cura e continuate a far fiorire il mondo sotto il peso leggero del vostro amore.

 

Grazie!

 

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