Is 53,2a.3a.10-11; Sal 32; Eb 4.14-16; Mc 10,35-45

XXIX Domenica del tempo ordinario anno B

20-10-2024

Nel vangelo secondo Marco dopo ognuno dei tre annunci della passione fatti da Gesù nella sua salita verso Gerusalemme è registrata una scena di incomprensione da parte dei discepoli. Dopo il primo annuncio (cfr. Mc 8,31), è Pietro che arriva a contestare le parole di Gesù (cfr. Mc 8,32), facendosi “ostacolo” – “Satana” (Mc 8,33) come lo chiama Gesù – sul cammino che Dio ha assegnato a Suo Figlio. Quando Gesù afferma per la seconda volta la necessitas passionis (cfr. Mc 9,31), tutti i discepoli, come intontiti, non comprendono, anzi si mettono a discutere su chi tra loro possa essere considerato il più grande (cfr. Mc 9,32-34). Nel brano evangelico di questa domenica, dopo il terzo annuncio della sua sofferenza e morte, passaggio inevitabile verso la resurrezione (cfr. Mc 10,32-34), sono Giacomo e Giovanni che mostrano quanto siano distanti dal modo di pensare di Gesù. I due fratelli lo hanno seguito fin dall’inizio del suo ministero pubblico, sono i suoi primi compagni insieme a Pietro e ad Andrea, hanno abbandonato tutto, famiglia e professione, per stare con lui (cfr. Mc 1,16-20), e in qualche modo si sentono gli “anziani” della comunità. Essendo figli di Salome, probabilmente sorella di Maria, la madre di Gesù (cfr. Mc 15,40; Mt 27,56; Gv 19,25), sono cugini di Gesù, dunque suoi parenti, appartenenti alla famiglia, al clan, e per questo pensano di vantare precedenze sugli altri (cfr. Enzo Bianchi).

Ecco, dunque, presentarsi a Gesù per comunicargli ciò che pensano di “meritare” per l’avvenire, quando Gesù, il Messia, stabilirà il suo Regno: “Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. Più che una domanda è una pretesa quella dei figli di Zebedeo, una pretesa che ci rappresenta molto: la volontà di potere, di essere autorità che conta, l’ambizione.

È la logica di potenza! La molla che induce a competere per il governo delle nazioni, e non solo, dominandole e opprimendole.

Gesù replica a Giacomo e Giovanni con infinita pazienza: “Voi non sapete quello che chiedete”.

Constatiamo lo scontro tra due visioni della gloria: i due discepoli la intendono come successo, potere, splendore, mentre Gesù l’intende come servizio, come dono della vita. Egli, ancora una volta, vuole portare i suoi discepoli a guardare non alla gloria come termine finale, ma al cammino che conduce alla vera gloria, quella che essi neppure riescono ad immaginare. Per questo pone loro una domanda: “Potete bere il calice che io sto per bere, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?”. Gesù chiede loro se sono disposti a bere il “calice della sofferenza”, espressione biblica per indicare la sofferenza da subire.

Ricordiamo che Gesù, nell’agonia del Getsemani, sarà messo alla prova sulla possibilità di allontanare da sé quel calice: “Abbà! Padre! Tutto è possibile a te! Allontana da me questo calice!” (Mc 14, 36).

Nella sequela di Gesù, per i suoi discepoli, c’è una sofferenza da accogliere, proprio come conseguenza della condivisione della vita di Gesù, delle sue scelte, delle sue parole di franchezza e di libertà.

Giacomo e Giovanni alla domanda di Gesù rispondono affermativamente, e capiranno solo più tardi il prezzo di questa disponibilità: Giacomo  sarà martirizzato da Erode a Gerusalemme, e Giovanni vivrà nell’isola di Patmos una lunga passione di prigionia da esiliato. Gesù accoglie questa loro disponibilità alla croce e ricorda che non spetta a Lui concedere di sedere alla sua destra o alla sua sinistra, ma “È per coloro per i quali è stato preparato”. La richiesta di Giacomo e Giovanni suscita una reazione sdegnata negli altri discepoli.

“E qui va detto con franchezza e senza ingenuità che la comunità di Gesù è immagine delle nostre comunità: uomini e donne chiamati da Gesù e scelti da lui; uomini e donne che sovente mostrano di avere poca fede o addirittura apistía, incredulità (cfr. Mc 9,24; 16,14); uomini e donne fragili e deboli che a volte non riescono a comprendere le parole di Gesù, le esigenze della sequela, e dunque contraddicono la loro vocazione e la loro identità. La comunità, peraltro scelta, istruita e formata dal Signore presente e operante in mezzo a essa, appare una povera comunità. Marco ha l’audacia di metterci davanti agli occhi la tragica parabola di questa comunità: quelli che “abbandonata la barca, le reti e il padre, seguirono Gesù” (cfr. Mc 1,18-20), nell’ora della passione “abbandonarono Gesù e fuggirono tutti” (Mc 14,50)” (cfr. Enzo Bianchi).

Cerchiamo di essere realisti: tutte le comunità dei discepoli di Gesù, dalla prima fino a quelle di oggi, manifestano debolezze e fragilità.

Gesù, constatata la crisi che è venuta a crearsi nella sua comunità, chiama a se i discepoli e dà loro una lezione molto significativa, perché è una manifestazione del potere mondano, politico.

Dice loro: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.

Ecco, dunque, la vera “Costituzione data alla chiesa”: una comunità di fratelli e sorelle, che si servono gli uni gli altri, e tra i quali chi ha autorità è servo di tutti i servi.

“Nella chiesa non c’è possibilità di acquisire meriti di anzianità, di fare carriera, di vantare privilegi, di ricevere onori: occorre essere servi dei fratelli e delle sorelle, e basta! Il fondamento di questa comunità è proprio l’evento nel quale il Figlio dell’uomo, Gesù, si è fatto servo e ha dato la sua vita in riscatto per le moltitudini, cioè per tutti. Gesù non ha dominato, ma ha sempre servito fino a farsi schiavo, fino a lavare i piedi, fino ad accettare una morte ignominiosa, assimilato ai malfattori. Sì, Gesù è il Servo sofferente tratteggiato dal profeta Isaia nel brano che in questa domenica ascoltiamo come prima lettura: “Dopo il suo intimo tormento”, cioè dopo aver conosciuto la sofferenza, “il giusto mio Servo” – dice il Signore – “giustificherà le moltitudini (rabbim), egli si addosserà le loro iniquità” (Is 53,11). Questa la gloria del Messia, di Gesù, quindi la gloria del cristiano: non riconoscimenti mondani, non posizioni o posti di successo e di trionfo, ma la gloria di chi serve i fratelli e le sorelle e dà la vita nella libertà e per amore al seguito di lui, Gesù” (Enzo Bianchi).

Il Vangelo di questa Domenica interpella responsabilmente noi, chiesa di oggi. Soprattutto coloro che nella comunità cristiana esercitano un servizio, messo sempre alla prova perché non diventi dominio, potere, servizio narcisistico. Il servizio è fondamentale per la comunità cristiana, perché realizza concretamente il nostro amore fraterno.

Al centro della comunità c’è Gesù, il Messia, il Signore che si è fatto e continua a farsi nostro servo, e che ci ripete, in maniera perentoria, quanto ha detto nel cenacolo dopo aver lavato i piedi alla comunità dei discepoli: “Se io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri” (Gv 13, 14).

Buona Domenica.

 

   Francesco Savino

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