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Don De Cardona, il 22 ottobre verrà istituito il tribunale per la causa di beatificazione


don_carlo_de_cardonaProsecuzione della Causa di Beatificazione di don Carlo De Cardona.

La causa di Beatificazione e Canonizzazione del Servo di Dio Sac. Carlo De Cardona, morto in fama di santità il 10 marzo del 1958 a Morano Calabro, Diocesi di Cassano all’Ionio prov. di Cosenza, avviata nell’anno 2010, quando era vescovo della Diocesi di Cassano Mons. Vincenzo Bertolone, è stata ripresa e voluta fortemente dal nostro Vescovo, Mons. Francesco Savino. Con l’istanza del sottoscritto Don Massimo Romano, Postulatore legittimamente costituito, con la quale chiede la prosecuzione della Causa di Beatificazione e Canonizzazione del Servo di Dio, al fine di interrogare i testimoni viventi è stato istituito il nuovo tribunale che presterà debito giuramento dopo la solenne Celebrazione, presieduta dal nostro vescovo Mons. Francesco Savino, il 22 ottobre p.v. nella Chiesa parrocchiale di S. Maria Maddalena in Morano Calabro.

Al termine si terrà l’insediamento e il giuramento da parte dei membri del nuovo Tribunale nominato per tale atto.

I componenti sono il Rev. D. Pierfrancesco Diego, Delegato Episcopale, il Rev. D. Annunziato Laitano, Promotore di Giustizia e il Dott. Giuseppe Mastroloreno, Notaio Attuario. Nel frattempo, è già attiva la Commissione storica per la raccolta di tutti i documenti inerenti la Causa del Servo di Dio Sac. Carlo De Cardona: saranno esaminati, infatti, sia i documenti editi che quelli inediti; i componenti di tale commissione sono il Prof. Biagio Giuseppe Faillace, che ne è il presidente, il Dott. Antonio Acri, il Prof. Enio Apollaro, il Dott. Romilio Lorenzo Iusi e il  Dott. Leone Viola.

Il Postulatore
Sac. Massimo Romano

 

 

GESU’ CRISTO, FONDAMENTO DELLA SPIRITUALITA’
DEL SERVO DI DIO 
DON CARLO DE CARDONA
DA MORANO

di Francesco Savino, Vescovo di Cassano all’Jonio

Parlare della spiritualità del Servo di Dio Don Carlo De Cardona non può prescindere dall’humus in cui essa germoglia e dal quale trae forza e vigore sotto l’azione costante dello Spirito. Don Carlo, nato  a Morano Calabro (CS) il 4 maggio 1871 da Rocco De Cardona e da Giovannina Ferraro, donna di spirito profondamente cristiano, si nutre  di forti sentimenti religiosi che sua madre seppe inculcare nell’animo dei suoi sei figli: Nicola, Carlo, Ulisse, Teresina, Carolina e Amalia. Lo zio Antonino, avvocato, aveva scritto diversi articoli concernenti “Il bene degli umili ed il progresso morale delle moltitudini sotto l’azione cattolica” sulla rivista “Calabria cattolica” che veniva pubblicata a Cassano Jonio dal canonico Bloise. Si respirava in casa De Cardona una sincera  atmosfera religiosa: un altro zio, don Cesare, era parroco a Morano nella chiesa di San Pietro, e permeava ogni giorno della Parola del Signore letta e meditata  la vita dei suoi cari.

In questo clima e in quello respirato nel liceo Bernardino Telesio presso il seminario arcivescovile di Cosenza, dove superò la maturità classica  avverrà che l’azione dello Spirito porterà don Carlo a essere ordinato sacerdote il 7 luglio 1895 [per i Cameroni l’ordinazione sacerdotale avvenne il 27 settembre di quell’anno. Si veda: Silvana Antonioli Cameroni e Giovanni Cameroni, Movimento cattolico e contadino: indagine su Carlo De Cardona, Milano, Jaca Book, 1976, p. 24] nella cattedrale di Cassano Jonio dal Vescovo Mons. Evangelista Di Milia, cappuccino. Qui si verificheranno il miracolo e il calvario della sua vita. Terminata, infatti, la cerimonia di ordinazione sacerdotale, il Vescovo «comunicò a don Carlo che l’Arcivescovo di Cosenza, Mons. Camillo Sorgente, lo desiderava quale suo segretario particolare». Don Carlo, che non era attratto da un’attività burocratica e che a Roma aveva maturato il desiderio di entrare nella Compagnia di Gesù, rimase senza parola ma, dopo qualche incertezza e pensando di fermarsi a Cosenza per poco, accettò e si trasferì nella diocesi cosentina, «nel cuore di una delle regioni più dissestate del Mezzogiorno» dove «la situazione religiosa sembrava piuttosto semplice e deprimente, essendo caratterizzata da due fatti: l’inesistenza di ogni organizzazione cattolica efficiente e il dominio della massoneria nella vita civile», come aveva osservato nel 1891 Mons. Gottardo Scotton, vicentino, inviato nel Mezzogiorno d’Italia da Giovambattista Paganuzzi, presidente generale dell’Opera dei Congressi.

Le fede in Dio, l’amore per Gesù Crocifisso e per il prossimo saranno il viatico di tutta la vita di Don Carlo, quella spirituale e quella sociale. Non ci sarà azione o momento della sua esistenza   senza che avvertisse l’azione dello Spirito.

Già ai primi del 1899 don Carlo sul numero 2 del quindicinale La Voce Cattolica, da lui fondato, a Cosenza, nel 1898 e diretto, in prima pagina espone il suo programma con precisione e chiarezza, un programma al quale resterà per sempre fedele e senza alcuna incertezza. «Noi vogliamo – scrive – 1. la difesa dei principi eterni della Fede Cattolica e del Papato che ne è  […] il fulcro e l’incarnazione […] . 2 .  La ricostruzione dell’ordine sociale sulle basi del Cristianesimo».

Nel n. 3 del 15 gennaio don Carlo dà vita a una rubrica, “La Domenica del popolo”, «fatta per istruire e incoraggiare al bene i figli del popolo». In quella rubrica si soffermava sui «principi fondamentali dell’impegno sociale e notizie sullo sviluppo del movimento cattolico in Italia e in altri Paesi europei».

Tre sono le linee-guida della spiritualità di don Carlo:

1) la Chiesa e il popolo.

Nessuna istituzione – scrive don Carlo – è stata mai nel mondo che avesse amato il popolo come lo ha amato la Chiesa Cattolica […]. Solo Gesù Cristo col suo Vangelo e con la sua grazia vi rende fratelli sinceri ed amantissimi; e però accorrete in quelle società in cui lo spirito del nostro Divin Redentore aleggia ed impera. In queste troverete la pace, la concordia, la schiettezza, l’amore, perché dove è Gesù ivi è ogni bene […] il vincolo dell’amore e della fratellanza cristiana deve unire in lega compatta il popolo per potere elevarsi all’altezza a cui l’ha designato il Cristianesimo […] Il popolo – e specialmente il popolo più disprezzato e sofferente – è stato sempre l’oggetto su cui si è rivolta, a preferenza, l’azione redentrice della Chiesa

Quando «alcuni membri del comitato Diocesano di Cosenza» s’erano rifiutati di «firmare la petizione contro la legge del divorzio», come aveva segnalato qualche anno prima Mons. Gottardo Scotton, don Carlo non esita a scrivere un articolo molto significativo dal titolo “L’obbedienza al Papa” rivolto «ai cattolici di mezza coscienza […] quei signori che si fan paladini di un cattolicesimo così detto liberale, la cui caratteristica più spiccata è la disobbedienza al Papa»,  affermando con forza che

ogni vero figlio della Chiesa deve al Pontefice Romano, come a supremo maestro, l’ossequio docile e intero della sua mente e del suo cuore. Chi si ribella al Papa, si stacca dal gregge di Cristo, […] è uno sterpo e non un ramo verdeggiante di questo albero grandioso che coi suoi frutti allieta la famiglia umana […] La stella è la parola del Papa, che non si stanca di richiamare i popoli all’unità della fede e d’incitare le anime ad unirsi a Colui che è via, verità e vita” […] L’operaio che lavora […] non è il bue che trascina […] l’aratro […] non è lo schiavo, strumento cieco nelle mani del padrone che ne sfrutta i sudori e le vigorose energie. L’operaio cristiano è il divino falegname di Nazareth, che il lavoro santifica con la preghiera, e nel segreto del cuore offre i suoi stenti ad onore del Padre Celeste. E’ oggi la festa del lavoro, perché con la Rerum Novarum, al lavoro fu solennemente, innanzi alla storia, rivendicata la dignità   e l’importanza del fattore umano nel progresso della civiltà […] E’ festa oggi! E’ la festa dei deboli e degli oppressi cui è annunziato il verbo della redenzione. E’ la festa del lavoro che da basse morte gore, assurge al fastigio della sua dignità, per avvicinarsi a Cristo Redentore degli umili.

2) Il prete e la sua missione

Don Carlo, evitando di polemizzare con i suoi confratelli, manifestò tuttavia, sempre con fermezza il «suo pensiero sulla missione del sacerdote scrivendo su La Voce Cattolica

Come pretendere che il popolo si avvicini al prete, se la missione del prete non gli si mostra nella sua vera luce, se non gli si fa intendere che la Chiesa non è e non può essere indifferente alle distrette dolorose e alle ingiustizie di cui è vittima la classe operaia?

e ricorrendo a una citazione di S.S. Leone XIII al vescovo di Liegi nel maggio 1893, sempre su La Voce Cattolica scrive

bisogna esortare soprattutto i preti ad andare al popolo; essi non possono rimanere circoscritti nelle loro chiese e nei loro presbiteri; bisogna animarli dello spirito apostolico, dello spirito di S. Francesco Saverio, che in ogni luogo penetrava dove fosse a predicare la verità Cristiana, [perché] il Cristianesimo è fatto dal suo Divino Istitutore per salvare l’uomo, l’uomo intero con la sua intelligenza, col suo sentimento, coi suoi bisogni, col suo provvidenziale istinto alla socialità, al progresso.

Rivolgendosi a un amico sull’importanza «della costituzione intima e la funzione sociale di una di quelle originarie cellule che sono le cooperative» scrive: «Non vede quale e quanta influenza nella società odierna acquisterebbe lo spirito di Gesù, se quelle primitive cellule si avvivassero e crescessero, feconde e robuste, nel calore vitale del cristianesimo?»

Don  Carlo sa quale deve essere  la missione del sacerdote: alla luce del Vangelo e sotto la vigile protezione della Chiesa “Madre e Maestra” vivere per gli “altri”, per gli emarginati, per gli oppressi, per gli ultimi.

L’altissimo valore che don Carlo attribuiva al sacerdozio emerge in tutta la sua chiarezza in una lettera che scrisse all’amico e discepolo, Luigi Nicoletti, in occasione della sua ordinazione sacerdotale

Potevi seguire – scrive – gli impulsi affascinanti della natura e della giovinezza, e hai invece voluto il sacrificio, l’immolazione nell’amore di Cristo e del mondo […] Santo Gregorio ti ammonisce che con ogni cura devi vigilare, per essere puro nel pensiero, il primo e il più ardente nell’azione, prudente nel tacere, vicinissimo a ciascuno per amorevole compassione, per umiltà compagno con tutti […] Si vuole forse incoronare di rose e di frasche la vittima che deve portarsi sul Calvario? Io piuttosto ti prego con lo stesso San Gregorio: nella faticosa e sdrucciolevole salita, teniamoci stretti per le mani, sostenendoci l’un con l’altro, in modo che chi è più giovane e fresco, come te e i tuoi compagni, sorregga fraternamente la stanchezza e un po’ la fiacchezza dei più anziani

Un incoraggiamento, quelle lettera, in nome di Gesù Crocifisso, per «affrontare con serenità quella vita di lotta e di sacrificio che sola poteva garantire la continuazione del discorso che don Carlo aveva iniziato».

3) Fede, carità, perdono. 

La profonda e sentita spiritualità di don Carlo era la pietra angolare su cui poggiava la sua azione, che era servizio per il prossimo e, soprattutto, per chi soffriva la fame o i soprusi degli arroganti e dei potenti. Ma tutto in lui aveva nasceva unicamente dalla «fede indefettibile» in Gesù Cristo, nello Spirito Santo e nell’aiuto della Madonna. Così scrive sul n. 42 del 1899 de La Voce Cattolica:

Il pensiero della presenza di Gesù Cristo deve essere il più efficace conforto per i cattolici, che intendono la necessità del momento che attraversiamo e non rifuggono dalla lotta […] in mezzo agli uomini […] di stabile e d’immortale non vi è che la Fede in Gesù Cristo, sempre viva, sempre verde, nel continuo mutarsi delle cose

e sul n. 21 dello stesso anno scrive:

Lo Spirito Santo è spirito di verità, di giustizie, di libertà, di amore. Egli risiede nella Chiesa Cattolica, e per mezzo dei successori degli apostoli continua ad operare per la salvezza del mondo…. Come gli Apostoli, così noi – senza armi, senza congiure – animati soltanto dallo spirito di Dio, resisteremo a tutti gli attentati…In noi vincerà la Chiesa; e la nostra vittoria segnerà il trionfo degli umili e degli oppressi.

Sul n. 23 parlando del Corpus Domini scrive:

L’Eucaristia infatti è il fermento divino che riempie le anime di virtù cristiane; è il germe immortale da cui nascono e hanno rigoglioso sviluppo grandi idee, vigorosi affetti, eroici sacrifici. Se vogliamo che il nostro popolo… risorga dall’avvilente deiezione in cui si trova, dobbiamo aver fede nell’onnipotenza e nell’amore di Cristo: dobbiamo fissare lo sguardo nell’Ostia immacolata, simbolo d’immolazione, pegno di amore, fonte inesauribile dei fulgori della fede.

Sul n. 14 del 1900 de La Voce Cattolica, parlando de Il mese di maggiosi sofferma sulla figura della Madonna e tra l’altro scrive: «[…] la preghiera confidente e affettuosa alla Madonna è per i cattolici una necessità sociale. Siamo pochi e fiacchi, il cammino che dobbiamo fare per giungere alla meta è faticoso e lungo».

Per don Carlo ciò che deve muovere i cattolici ad adoperarsi umilmente per aiutare la plebe a sollevarsi dalle angustie è la carità di Cristo e non la politica o l’opportunismo dei partiti o, ancora, la febbre della novità e l’istinto a ribellarsi tanto che sulla scia di Sant’Ignazio di Loyola scrive: «In alto, in alto i cuori, o generosi lottatori dell’ora presente: Non vi prenda alcun pensiero della vittoria: a voi tocca solo combattere sotto gli occhi di Dio».

Parlando poi delle istituzioni sociali don Carlo scrive che esse hanno bisogno di un grande ideale che deve animarle e questo non può che essere il Cristianesimo:

[…] il cristianesimo è una forza. Una forza che non si vede, ma si sente nell’anima… il Cristianesimo è l’anima grande e divina delle cose: è anima di verità perché è luce; è anima di giustizia, perché la giustizia esso vuole come base del suo regno; è anima di fraternità universale, è anima di liberazione e di redenzione.

Tutta la vita di don Carlo fu un atto di amore che lui consacrava al Sacro Cuore di Gesù durante il mese di giugno. Stupenda è la preghiera datata Todi 30 giugno 1937:

O Sacro Cuore! […] è nostro dovere: primo chiederti perdono e invocare la Tua Divina Pazienza sulla nostra miseria – che forse è rimasta tale e quale, per l’incorreggibile durezza del nostro cuore; ciò nonostante dobbiamo e vogliamo, in secondo luogo, ringraziarTi del Dono di farci venire puntualmente, tutte le sere, qui, innanzi al Tuo Altare, a conversare con Te sul Mistero Altissimo e Profondissimo del Tuo Amore per noi creature, infette di peccato, e sempre pronte a dimenticare Te e i tuoi Doni. Questa sera, aiutati dalla Tua Grazia, rivolgiamo (a Te) il nostro pensiero.

Spinto dall’amore verso il prossimo, don Carlo non portava rancori, non sapeva odiare. Egli era pronto a dimenticare a perdonare tutti, compresi i quelli che avversavano le sue idee, i politici che talvolta per la loro acredine e per la loro ostilità s’inimicavano con lui. Così scrive sul n. 51 del 1899 de La Voce cattolica:

Nei tempi tristissimi in cui ci troviamo, nelle distrette dolorose in cui oggi è posta la Chiesa, teniamo sempre nella memoria la bella e radiosa figura del martire che muore perdonando e amando coloro cui aveva rimproverata la durezza del cuore.

Molte furono le occasioni in cui col suo comportamento mostrò inequivocabilmente il senso del suo perdono e del suo amore. Basta ricordare la sua presenza, il 7 agosto del 1942, ai funerali del suo maggiore antagonista, il giornalista e letterato Antonio Chiappetta.

Anche durante l’esilio di Todi, tra sconforto e povertà, emerge la radiosa spiritualità di don Carlo. Ingiustamente perseguitato, la fede, luce che non conosce il tramonto, lo sorregge.

Nella totale amarezza dell’animo, per don Carlo fu di grande sollievo e conforto l’amicizia di Federico Sorbaro, allontanato da Cosenza anche lui nel 1922 ed emigrato al Nord; con quell’amico

tenne un regolare contatto epistolare. Le lettere di don Carlo e le pagine del suo diario intimo sono la più immediata testimonianza del durissimo travaglio interiore che lo tormentava per veder crollare tutta la sua opera e per l’impossibilità di combattere la manovra di distruzione morale condotta ai suoi danni a Cosenza.

Un animo sensibile e immacolato quello di don Carlo, doti che si evincono dalla lettera che il 30 agosto del 1935 scrive all’amico Federico:

Non si muove foglia che Dio non voglia: è dunque il Signore che qui a Todi – nell’esilio – mi ha fatto pervenire la parola affettuosa di uno della mia stessa terra […] dopo 40 anni di lavoro, senza riposo […] sono alla elemosina del mio caro fratello, a cui non ho dato mai un soldo, e che invece tante volte mi ha fornito di biancheria, indumenti ed altro […] Se fossi stato un “banchiere” (e avrei potuto esserlo […]), almeno le “briciole” di quelle centinaia di milioni che circolavano nella Federazione delle Casse della Calabria Citeriore […] una particella di quelle “briciole”  sarebbe ora meco in sostegno e in difesa del mio corpo logoro dagli anni e assai più dai combattimenti, dagli sforzi, dalle emozioni, ecc. […] In verità, tutta quella struttura economica era per me lo “strumento”, l’espediente per avvicinare anime “calabresi” ed educarle a Cristo, in Cristo […] Ora –  nella umiliazione e nel dolore – è necessario ancora pregare, soffrire, tacere. E se ho fatto con te questo sfogo, gli è stato per evitare lo “scandalo” che tu potresti sentire nel vedermi “fallito”; e per affermare la “vitalità” intensa del mio sacerdozio”,

e nel suo diario intimo annotava:

Signore! Tu lo sai! sono stato, per decenni, tra i “milioni”: ne ho avuto sempre paura: credevo di poter fare il “bene” con essi; ma, infine, sono stati il mio “tormento”; e per non averli “ amati”, come si fa da tutti, si sono, selvaggiamente, vendicati: son fuggiti da me, con l’intento di vedermi un “uomo finito”, coperto di “vergogna”, e distrutto anche come “prete”.- Ma Gesù vegliava sul suo povero peccatore: lo ha liberato da quella “ricchezza”, che “uccide”; e ora gli promette, gli fa intravedere un’altra ben diversa “ricchezza”: la “ricchezza” della Presenza di Lui, nel mondo, nella chiesa, negli avvenimenti, negli spiriti, nei cuori umani, e, prima e più di tutto, nel Pane Consacrato.

Lo sfogo di questa amarezza non era fine a sé stesso, non si cristallizzava in ira o ribellione. Le sue riflessioni sulle sventure erano per don Carlo motivo di ricerca di equilibrio interiore che poteva venirgli solo dalla consapevolezza della purezza del suo rapporto con l’Essere Supremo, un  equilibrio che avrebbe potuto dargli la forza di affrontare le dure battaglie future. Il sacerdozio di don Carlo, quindi, continuava, e prevaleva sull’animo ribelle del De Cardona uomo.

Nel giugno del 1936 don Carlo torna all’esilio di Todi, lontano da Cosenza ancora per circa cinque anni, vive quasi isolato presso suo fratello Ulisse. Persino gli altri sacerdoti non lo avvicinavano, perché le sue “colpe” nei confronti del regime erano considerate troppo gravi. Poverissimo, senza neppure una sovvenzione che gli consentisse di mantenersi, doveva contare esclusivamente sull’ospitalità del fratello. Lo sconforto di don Carlo si aggrava sempre più, anche per le sue precarie condizioni di salute, tuttavia lui non si perde d’animo e attende con coraggio nuove possibilità d’azione. Don Carlo si ripiega  sulla sua fede incrollabile, nel suo ascetismo spirituale, e «lentamente ricostruiva il suo animo macerato dalle brucianti delusioni e dalle persecuzioni subite». Il 12 agosto del 1930 scrive nel suo Diario intimo: 

Le condizioni in cui mi ha condotto la Provvidenza del Sacro Cuore sono queste: l’ “assedio” delle forze nemiche mi stringe da vicino da ogni parte; bisogna finalmente che io mi decida a “uscire” dal “mondo”, interamente: dallo “spirito del mondo” e, a suo tempo, anche dai “luoghi” e dalle “cose” del mondo. In tale condizione esteriore, io non posso non sentire l’urgenza di essere “munito”, agguerrito e preparato alle supreme decisive battaglie.

A Todi l’amarezza veniva in qualche modo lenita da nuovi eventi, veniva nominato curato nella parrocchia rurale detta della canonica; così scrive il 22 agosto del 1937 nel Diario intimo

Sono di nuovo in mezzo ai “rurali” […]  ma, questa volta, in modo preciso e completo, ricco di un’esperienza lunga e dolorosa – la quale, oggi, mi è apparsa come una “preparazione” fatta da Dio […] in ordine al “compimento” della mia vocazione, e come ultima tappa di “viatore” in vista della patria. Già stamani, alla messa, ho visto fortemente aumentato il numero dei presenti, ed era impressionante il loro silenzio e la loro attenzione. Stavano silenziosi e immoti come “presi” dal senso di Dio.

«Incoraggiato dalla fiducia dei ‘rurali’ don Carlo riprendeva la sua azione sociale, in una delle parrocchie più povere di tutta l’Umbria, come nei primi anni della Democrazia cristiana». Da Todi l’8 marzo del 1938 così scrive in una lettera all’amico fraterno Federico

[…] mi sono messo a servire i poveri con tutte le forze e con l’intento di evangelizzarli…Non posso pretendere il dono dei miracoli per imitare il Signore […] ; ma è anch’esso un miracolo della Grazia, sacrificarsi nella povertà, nelle umiliazioni, nelle infermità, nelle fatiche […] per servire i poveri. Questa è stata – ed ora è, anche più – la mia Azione Sociale. Stamane sono andato e tornato a piedi – in tre ore – per servire una povera donna che voleva onorato il suo marito defunto col rito della santa messa. Sono già amico di un giovane muratore perché curo l’istruzione di un suo figlio; così di un calzolaio, mediante la scuoletta a un figlio storpio in una mano”.

Nel luglio del 1939 don Carlo viene nominato parroco a Collepepe, un piccolo paese in provincia di Perugia; presto entra nelle simpatie dei parrocchiani ed ecco rispunta, anche in un paesino “stonato”, la sua vitalità sociale tanto che promuove la nascita di una Cassa parrocchiale che avrebbe dovuto trasformarsi presto in una vera e propria cassa rurale. Ma proprio quando la Cassa cominciava a dare i suoi frutti, intervennero i gerarchi fascisti locali che stroncarono sul nascere la sua opera tanto che don Carlo che fu cacciato anche da Collepepe.

Così lo ricorda la signora Lina Solini:

“Lo conobbi a Collepepe di Collazzone (Perugia) negli anni 1938-39. Di questo sacerdote mi è rimasto impresso nella memoria l’aspetto ascetico, ieratico, e al tempo stesso umile e mite. Si proponeva agli altri in modo molto delicato e sensibile e quasi preoccupato di imporre la sua presenza. …Io posso testimoniare la profondità morale e spirituale di don Carlo De Cardona “.

E il sacerdote Mons. Cesare Checcobelli che conobbe don Carlo negli stessi anni e che fu suo alunno quando insegnava latino nel Seminario di Todi, scrive: «Appariva come sacerdote buono ma sofferente, mesto e silenzioso. Celebrava la Santa Messa con tanto raccoglimento e osservanza liturgica».

Torna a Todi presso il fratello Ulisse nel settembre del 1940, e qui, nominato canonico del Capitolo cattedrale, insegna Latino e Storia nel ginnasio del seminario; riprende i suoi studi di filosofia e di teologia, pubblica un breve saggio su San Tommaso d’Aquino, Thomas d’Aquino, lucerna viva di sapienza redentrice, porta avanti uno studio impegnativo e teologico sull’Apocalisse mai dato alle stampe. Era bravissimo come docente tanto da far esclamare a uno dei suoi studenti, Nello Gentile, «Com’era bello farsi insegnare da lui!». E tuttavia don Carlo si sentiva solo, anche a causa «dell’incomprensione che lo circondava, anche tra lo stesso clero di Todi, che quasi lo rifuggiva»; forse per questo lui

pur essendo canonico della cattedrale, era solito celebrare la messa nella chiesetta della Madonna del Campione, poco distante dall’abitazione del fratello … Quella chiesetta, nel suo intimo e silenzioso raccoglimento, gli consentiva di sublimare il suo sacerdozio nel gesto liturgico, lontano dalla solitudine che poteva derivargli dal sentirsi circondato da persone che non potevano comprenderlo.

La figura di Don Carlo De Cardona, sacerdote, “prete-missionario”, uomo, politico, giornalista, docente, “l’innamorato” del Cuore di Gesù”, ieri come oggi, si presenta quanto mai attuale.

Il suo pensiero, le sue idee, la sua azione, la sua fede, fresche e cariche di vitalità e di pregnante valore spirituale, morale e sociale, hanno toccato la mente e il cuore di tutti, valicando i confini della nostra regione per approdare anche in terra lombarda e al di là delle Alpi.

Il suo vivere cristiano, nell’umiltà, nella semplicità e soprattutto nella povertà, oggi più che mai, costituisce, non solo per ogni buon cristiano, un fulgido modello da seguire, un sentiero di speranza e di certezza da percorrere per la nostra conversione e la nostra rinascita spirituale, morale e sociale.

In un momento in cui il mondo, ieri come oggi, è “tutto pervaso e dominato dallo spirito di “distruzione”, …distruzione di tutto: distruzione di istituti sociali… di vite umane… di edifici… distruzione della Scienza… essere e rimanere cristiano con assoluta fedeltà al Signore, non è e non può essere fragile sentimentalismo, e nemmeno una speculazione”, come purtroppo spesso accade, “…non può essere altro che vivere seriamente in Cristo… non può essere altro che Cristo medesimo, il Verbo di Dio fatto uomo, il Quale si degna dei “suoi” amici, anche in questa “fase” della storia dell’uomo sulla terra” (n.d.a. , Diario intimo di don Carlo, Documento n. 3)

Vivere cristianamente in questa nostra società significa, come scrive don Carlo, che Cristo deve avere, ed avrà, la testimonianza sicura dei Suoi “amici”; risolvere radicalmente  il problema  del vivere  cristianamente, non solo per sé stessi, ma soprattutto per il prossimo e per la società, vuol dire, per lui,

Amare veramente Gesù Cristo, la Persona di Lui, la Passione di Lui: udire la Voce di Lui, assentire alle chiamate e ai richiami suoi, desiderare la sua amicizia, la sua dolcissima “conversazione”, e infine raggiungere l’“altezza” della di Lui Presenza nello spirito, nella mente, nel corpo, nelle parole e in tutto l’operare”.

Senza tali “sorgenti” del nostro essere, sarebbe un assurdo morale, scrive don Carlo, «pretendere di vivere cristianamente, peggio ancora, pretendere di agire socialmente in nome di Cristo». 

Quando S. S. Giovanni Paolo II visitò la Calabria dal 5 al 7 ottobre del 1984, nello stadio di San Vito a Cosenza, invitando la Chiesa Calabrese a essere «fermento e forza morale per il rinnovamento e la rinascita religiosa, sociale, morale e civile di tutta la regione»”, un solo nome gridò alto e sonante come modello da seguire: “don Carlo De Cardona, il gigante del Cattolicesimo calabrese”.

La Sequela Christi, la Devozione a Maria, il messaggio evangelico della salvezza attraverso la croce e della purificazione mediante il sacrificio, in una visione cristocentrica, consentirono al Servo di Dio don Carlo De Cardona l’esercizio in forma eroica delle virtù teologali della Fede, della Speranza, della Carità. E a proposito della Fede è sorprendente e nello stesso tempo è meraviglioso quanto don Carlo scrive nel suo Diario Intimo (2 febbraio 1936) a proposito dell’infedeltà degli uomini: “O San Francesco di Paola, soccorrete le vostre popolazioni che hanno poca fede, o non sempre ne hanno. Proprio come i discepoli di Gesù nell’episodio della ‘tempesta sedata’: « Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva … Maestro, non t’importa che moriamo? … E Gesù disse loro: perché avete paura? Non avete ancora fede?.

Le virtù teologali unitamente alle Virtù Cardinali, Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza, ai consigli evangelici, allo stile di vita di assoluta povertà evangelica e di adamantina castità, furono il dono più bello fatto da Gesù al Servo di Dio don Carlo De Cardona , che seppe mettere a frutto i talenti a lui affidati.

«Bisognerebbe rileggere i suoi “Diari”», scrive Mons. Serafino Sprovieri, Arcivescovo Emerito di Benevento, «per seguire l’itinerario luminoso, che condusse don Carlo fino al Calvario, facendo sua la passione gloriosa del Signore».

   Francesco Savino

     Vescovo di Cassano all’Jonio

(*) Le citazioni sono tratte dai “quaderni decardoniani”