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Messaggio di Mons. Francesco Savino nella 57esima giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali


 

Festina lente

57ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali

21 Maggio 2023

 

 

“Il massimo dell’artificio sarà l’assenza di artificio.

Le tue parole ti infiammino non d’esagerati clamori e gesticolazioni, ma d’intimo affetto,

sgorghino dal cuore piuttosto che dalla bocca, per quanto abbiamo potuto dire con la bocca:

il cuore parla pur sempre al cuore, mentre la lingua non fa che colpire l’orecchio.”

                                                                                                          San Francesco di Sales

 

 

 

Carissimi,

nel Centenario della proclamazione di San Francesco di Sales a patrono dei giornalisti cattolici da parte di Pio XI con l’Enciclica Rerum omnium perturbationem, è quasi d’obbligo tornare a riflettere, in questa LVII Giornata Mondiale per le Comunicazioni Sociali, sul senso profondo di quella felice “metafora cardiaca” coniata dal Dottore della Chiesa e poi assurta a motto cardinalizio di San John Henry Newman: Cor ad cor loquitur. Il Santo Padre Francesco vi ha dedicato Egli stesso la Sua riflessione per questa circostanza, formulando un «appello a parlare con il cuore», il quale «interpella radicalmente il nostro tempo, così propenso all’indifferenza e all’indignazione, a volte anche sulla base della disinformazione, che falsifica e strumentalizza la verità»[1].

“Cuore a cuore” è un’espressione idiomatica che utilizziamo anche, specie in alcuni dialetti meridionali, per indicare una situazione di particolare prossimità con qualcuno, la circostanza di una intimità personale nella quale si dà la libertà di dirsi le cose come stanno, di concedersi all’altro nella verità, certi che la sua comprensione avverrà con la tenerezza di chi accoglie – esattamente come Paolo esorta a fare nella Lettera agli Efesini (4, 25).

 

Cor ad cor loquitur

Comunicare cordialmente, cioè con il cuore, come Papa Francesco ci invita a fare, è possibile però solo a patto di saper stare al tempo, di saper armonizzare il ritmo di un cuore con l’altro, per evitare che la voce di uno finisca per sovrapporsi e sovrastare quella dell’altro, e che il concerto di sistoli e diastoli evocato implicitamente da Francesco di Sales si tramuti in un baccano di aritmie impazzite. È allora proprio su questo aspetto, sul tempo per così dire “musicale” della comunicazione, che vorrei in questa occasione soffermarmi.

Come “suona” una buona comunicazione? In 4/4? In ¾? A quale ritmo deve accordarsi, se non vogliamo che le parole cadenzino l’incedere sentenziale di una marcia autoreferenziale, ma si facciano accompagnamento musicale mite di un incontro autentico con il prossimo, nel quale la precisione tagliente della verità è legata e tenuta assieme da relazioni di carità?

In un’epoca asservita alla tirannia della velocità, la domanda ci parrebbe quasi retorica. Dipendenti dall’istantaneo, abbiamo smarrito il senso dell’attesa. Siamo ormai così abituati a contrarre le nostre parole nell’economia mediatica di un tweet, nello slogan-senza-spazi di un hashtag, che ogni pausa ci sembrerebbe un’imperdonabile perdita di tempo, un inutile dispendio di intervalli tra un post e quello successivo. Consumiamo le parole nella ricerca bulimica di titoli ad effetto e giudizi fugaci, dimentichi che la sintesi, prima che contrazione, è paziente lavoro di concentrazione, è tenere unito ciò che altrimenti andrebbe disperso. Il nostro rimpianto, semmai, è per gli attimi che le nostre parole non sono riuscite a stipare di godimento, come in quella poesia di Borges, Istanti: «Nel caso non lo sappiate, di quello è fatta la vita/solo di momenti, non ti perdere l’oggi».

Il concerto delle parole, però, non esiste senza le pause dei silenzi, come ho avuto modo di dire in altra circostanza[2]. Le pause: troppo spesso ne sottovalutiamo il valore altissimo di carità! Saper sospendere il giudizio, fermare le parole e far prendere respiro al nostro discorso per osservare, esaminare, ascoltare, interrogare i silenzi ed aprirci all’evento di un incontro vero con le realtà che incrociamo… È solo in questo modo che prende corpo la danza di una comunicazione nella carità.

Pensiamo solo al contrappunto mortifero delle parole di guerra, che da più di un anno cannoneggia alle porte della nostra Europa, nella nostra casa comune. Comunicati, dichiarazioni, smentite, repliche e controrepliche che si succedono di ora in ora, giorno dopo giorno, rimbalzando violente da una parte all’altra di una frontiera mobile e invisibile, tracciata e disfatta continuamente dal boato di missili e bombe. Sono parole d’ordine senza musica e senza tempo, le parole di odio e di devastazione da sempre uguali a se stesse, con cui ad essere scambiato è solo il reciproco rifiuto di ascoltarsi, il comune diniego della ricerca di un incontro da cui possa scaturire, finalmente, una road map verso la pace. Come potranno tacere le armi, se innanzitutto non si porrà un freno a questa escalation di parole d’odio? Vedete allora come la “carità della pausa” assuma sempre più concretamente i tratti di una tregua, di un cessate-il-fuoco delle voci d’odio, che impediscono che si intoni il Miserere della compassione…

 

La bradicardia della compassione

“Saper stare al tempo” del cuore altrui significa, dunque, per prima cosa cercare la condivisione, il confronto, l’ascolto. Implica un’apertura totale all’incontro, la disponibilità a rinunciare di sentir riecheggiare, nell’altro, il battito identitario del mio io. Perché se l’altro diventa solo cassa di risonanza del mio discorso, non importa quante tonalità la mia voce sarà in grado di scandire: le mie parole rimarranno sempre e comunque soliloquio monotono dell’egoismo. È un po’ come quando, da piccoli, ci hanno insegnato ad auscultare un cuore, o a prenderne le pulsazioni dal polso: per riuscirci, nel contatto con l’altra persona, devi fare in modo di escludere le tue proprie pulsazioni, evitando, ad esempio di usare il pollice. Se non ti fai silenzioso, nell’ascolto dell’altro, sentirai soltanto la tua interferenza su di lui.

Il Vangelo di Luca ci offre una magnifica icona di questa pedagogia della comunicazione “cordiale” nella pericope dei discepoli di Emmaus. Il giorno della Resurrezione i due, com’è noto, sono in viaggio verso il villaggio presi in una fitta discussione. Luca lo ripete per ben tre volte, quasi a voler ritmare, appunto, il contrappunto polemico di incomprensione che caratterizza le loro parole: «conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto», «conversavano», «discutevano insieme» (Lc 24, 14-15). Ci sembra di assistere a uno di quei profluvi di commenti tipici dei social network, se non addirittura a quello che oggi si definirebbe un vero e proprio “dissing” tra i due. Il misterioso Viandante che si accosta a loro lo dice chiaramente: (letteralmente) «che sono questi discorsi che vi rinfacciate [in greco, antibàllete] l’un l’altro»? Il punto è che i due sono sconfortati, «col volto triste» (24, 17) per una doppia “fake news” – Gesù messia e Gesù risorto – di cui si reputano vittime: «lenti di cuore [βραδεῖς τῇ καρδίᾳ]» li rimprovererà letteralmente il Signore, prima ancora di rivelarsi. È a questo punto, però, che la comunicazione che Gesù ha in serbo può avvenire; ed è precisamente adattandosi a quella lentezza dei pellegrini, la cui malinconia tradisce l’incomprensione dell’Annuncio. Gesù non va via risentito, né cerca il colpo di scena, la frase a effetto, il lancio d’agenzia, il titolo sensazionalistico per concedere l’esclusiva della notizia della Resurrezione ai due. Non gli interessa fare fact checking e ristabilire quanto prima la corretta versione dei fatti. Al centro della comunicazione, per Cristo, non c’è la notizia, ma l’incontro: con le parole di Sant’Agostino, «non intratur in veritatem, nisi per charitatem». Ecco, allora, che Egli «si approssima» e «li accompagna», letteralmente «si incammina insieme a loro» (24, 15). Non ha fretta. Si affianca loro e inizia quel lungo e paziente concerto di parole che, alle domande, aggiunge l’annuncio della verità: «cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (24, 27).

La pazienza del viandante è certamente tra le virtù cardinali di un’etica del buon comunicatore. Saper camminare insieme, né un passo dietro, né uno avanti. Saper regolare il proprio passo a quello della compagnia. Saper rinunciare a sacrificare l’insegnamento del viaggio con il successo della méta.

Undici chilometri. È lungo e lento questo accompagnamento del Signore, lungo il quale le parole aspre e risentite, rinfacciate a vicenda, si inteneriscono al suono della Verità, perché – come scritto nei Proverbi – «una lingua dolce spezza le ossa» (25, 15). La cura della lentezza ha convertito l’incomunicabilità in comprensione reciproca, se è vero che al gesto del viandante di «fare come per andare oltre» i due discepoli rispondono intonando un’invocazione alla sincronia: «resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto» (Lc 24, 29). Che significa: i nostri tempi sono i tuoi tempi, il nostro è un giorno comune, che inizia e finisce insieme.

I cuori, ormai, si sono accordati, proprio perché hanno trovato un tempo condiviso e, in questo, la tenerezza della comunione.

Questo elogio della parola lenta – che è arte delle cura paziente della comunicazione, e non mero traccheggiamento della responsabilità – risuona particolarmente significativo e provocatorio nei nostri tempi frenetici, scanditi da incombenti deadline e compulsioni reattive. Ci indica l’imperativo etico di custodire le parole come gesti d’amore da allevare con zelo, non lasciandoci prendere dalla smania di esibirli e gettarli alla prima occasione nel tritacarne mediatico del qualunquismo. E d’altra parte, mette ciascuno di noi di fronte all’impegno morale di misurare il nostro discorso – privato e pubblico – con sobrietà e rispetto nei confronti di quell’umanità che sempre ritroviamo in ogni volto che ci fa da interlocutore.

Esemplare, da questo punto di vista, è quanto un testimone autentico del legame inscindibile tra verità e carità, del quale proprio in questi giorni ricordiamo il centenario dalla nascita, don Lorenzo Milani, ha scritto una volta in una sua lettera al direttore del periodico fondato da don Primo Mazzolari: «quando m’è riuscito scriver un articolino non ci ho mai messo meno di sei mesi (e ho fatto così appunto perché conosco la mia intemperanza e imprecisione di linguaggio e non voglio stampare parole di cui non abbia lungamente studiate le possibilità di malinteso)»[3]. Una confessione tanto più significativa, questa, se si pensa che don Milani, cristiano di una intransigenza assoluta e di una parresia indefettibile, instancabile sostenitore del potere della parola («chiave fatata che apre ogni porta»[4]), era uno che, «chiamando le cose con il loro nome», come ha scritto il Card. Zuppi, «non doveva “piacere” ma comunicare una passione»[5]. Brillando di quella potente forma di profezia che è propria degli apocalittici innamorati della giustizia, il priore di Barbiana non ha mai retrocesso d’un passo, anche a proprie spese, da quella fermezza della verità che vedeva riflessa nei volti dei suoi ragazzi di Barbiana. La lentezza della parola, dunque, in lui non ha mai nulla a che spartire con la tentazione dell’ambiguità o il compromesso con la menzogna. Eppure, proprio don Milani si impone un esercizio di “comunicazione bradicardica” e la verifica paziente delle parole da consegnare al suo discorso pubblico. La ragione sta tutta in quella consapevolezza delle «possibilità di malinteso» che appartengono alla carta stampata e alla comunicazione pubblica, che Milani, in un’altra lettera, distingue nettamente dalla libertà espressiva che ci si può concedere in un contesto intimo, in cui si parla appunto “cuore a cuore” con chi si ama: « […] io non misuro molto le parole, né calcolo mai cosa convenga dire e cosa tacere. E questo fa parte di un preciso programma, cioè quello di ottenere la fiducia dei ragazzi e del popolo e educare gli uni e gli altri a fare altrettanto. Io penso che la cosa vada bene quando si parla a gente che si rivedrà spesso e con la quale si avrà tempo e modo di dissipare malintesi, finir di chiarire, completare e colmare lacune, ritirare errori, chiedere perdono o ribadire sotto altra forma o in altra occasione»[6].

È ancora una volta la legge del cuore, insomma, veicolata dalla consuetudine e dalla fiducia reciproca, a dettare i tempi di una buona comunicazione e a consentire, se necessario, quelle brachilogie anche ruvide o aspre che chi ama sa comprendere senza giudicare, se è vero – come scriveva il poeta Callimaco – che «le parole degli amanti sono scritte sull’acqua e non sono ascoltate dagli dèi». Solo la tenerezza propria della carità può autorizzare quelle aritmie che giustificano improvvise accelerazioni della comunicazione.

 

 

La tachicardia della speranza

Anche a questo proposito, d’altronde, il racconto di Emmaus è rivelatore. È un segno del cuore, nella locanda di Emmaus, a determinare nei due discepoli quello sprint esistenziale che, da malinconici e increduli ricevitori di presunte fake news, li porterà a divenire annunciatori della Resurrezione nel cenacolo degli apostoli: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24, 32). In seguito a questa presa di consapevolezza, determinata dal riconoscimento della Verità («si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero»), il salto di ritmo nel racconto stesso è palpabile. Il testo italiano dice che «partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro […] Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane» (Lc 24, 33; 35). Senza indugio: dopo aver lentamente e faticosamente e disperatamente camminato per undici chilometri, i discepoli scoprono un’urgenza inedita, la vita accelera e con essa le parole, che non possono più aspettare.  In realtà, seguendo alla lettera il testo greco si potrebbe persino tradurre «risorgendo all’istante [ἀναστάντες αὐτῇ τῇ ὥρᾳ] fecero ritorno a Gerusalemme…». C’è, insomma, in questa ripartenza trafelati, la coscienza di una parola nuova, diversa.

Quel che prima doveva essere meditato e sedimentato e compreso nell’accompagnamento amorevole, per via di un lungo e paziente com-patire, adesso d’improvviso traluce diamantino e irrefrenabile, così che bisognerà gridarlo dai tetti come Gesù stesso aveva invitato a fare in Mt 10, 27.

Non si tratta dell’unico caso di accelerazione improvvisa della parola, scaturita dalla gioia per la resurrezione riscoperta come verità di vita, nel racconto evangelico. Nel suo messaggio Urbi et Orbi in occasione della Santa Pasqua, lo scorso 9 aprile, Papa Francesco ha richiamato una breve teoria di esempi di quella «fretta buona» con cui, nel giorno della Resurrezione, la parola si fa urgenza e «il cammino accelera e diventa corsa, perché l’umanità vede la meta del suo percorso, il senso del suo destino, Gesù Cristo, ed è chiamata ad affrettarsi incontro a Lui, speranza del mondo»[7]: ci sono le donne che, nel vangelo di Matteo, dopo l’annuncio dell’angelo folgorante del Signore, «abbandonato in fretta il sepolcro con timore e gioia grande corsero a dare l’annuncio ai discepoli» (Mt 28, 8); quindi Maria di Magdàla che, nel racconto di Giovanni, trovata vuota la tomba di Gesù «corse e andò da Simon Pietro» (Gv 20, 2); e infine, l’apostolo Giovanni stesso e Pietro, i quali «correvano insieme tutti e due» per raggiungere il sepolcro vuoto, ingaggiando addirittura una sorta di gara di velocità (cfr. Gv 20, 4). Una tachicardia inaspettata, insomma, comprime i tempi dell’annuncio dopo che la morte è stata vinta per sempre: l’attesa si è conclusa, non è più consentito indugiare, la comunicazione della Vita non ammetterà più ritardi. In questo repentino cambio di passo nella dinamica della salvezza, anche noi siamo chiamati a cogliere un’indicazione preziosa per la modulazione dei ritmi delle nostre parole. Quanto più sarà stata accorta e paziente la compassione mediante cui avremo cercato la verità, in un percorso laborioso e condiviso fatto di ascolto, condivisione e accoglienza, tanto più essa ci investirà dell’urgenza incontenibile del suo annuncio, nonostante tutto e tutti. Ci saranno occasioni in cui quell’annuncio potrà rivelarsi scomodo o troppo oneroso, inattuale, fuori posto; circostanze in cui sarà chiaro che ci converrebbe parlare meno, o non parlare punto; situazioni in cui l’opportunismo placido e suadente dell’omertà suggerirà di procrastinare il grido della denuncia e dilatare i tempi della responsabilità. Ci sono ogni giorno volti, storie, incontri, fatti dinanzi a cui, vinti dallo sconforto e sopraffatti da quella «globalizzazione dell’indifferenza», che il Santo Padre sèguita a indicare come uno dei grandi mali del nostro tempo, pensiamo che testimoniare con la nostra parola non val la pena, che in fondo è meglio voltare la testa dall’altra parte e passare oltre, che tanto qualcuno verrà dopo e testimonierà quello che noi non abbiamo avuto il coraggio di dire, un po’ come il sacerdote e il levita della parabola del Samaritano.

È in questi momenti che la «fretta buona» dell’annuncio deve tornare ad assalirci e a scomodarci. Investiti dal mistero pasquale, dalla notizia della vita buona e bella che non teme tribolazione né morte, sperimentiamo nella strada comune ai fratelli e alle sorelle che ci accompagnano sui sentieri della vita quell’afflato della Speranza che ci muove verso i «cieli nuovi e la terra nuova» (Is 65,17), che sempre devono tracciare l’orizzonte della nostra missione come uomini, prima ancora che come cristiani. Corroborati dalla lenta compassione del pane spezzato insieme a chi, di fronte alla bellezza struggente di una promessa di gioia incontenibile, vorrebbe parlare ma non ha voce, non siamo autorizzati ad esimerci dal comunicare al prossimo l’entusiasmo per una speranza contagiosa: che nella comunione delle parole e delle opere, accordati al tempo dei cuori di chi ci è di fianco, sapremo edificare quel sogno di pace e di giustizia, di riscatto e di condivisione, che solo può ispirare la santa indignazione dei profeti e farci proclamare, con Isaia «Per amore di Sion io non tacerò, e per amore di Gerusalemme, non mi darò riposo finché la sua giustizia non spunti come l’aurora e la sua salvezza come una fiaccola ardente» (Is 62, 1).

 

Festina lente

Bradicardie della compassione e tachicardie della speranza: sono le coordinate lungo le quali possiamo ritrovare – come individui, comunità umane ed ecclesiali, operatori e professionisti dell’informazione e dei media – l’orizzonte di quell’etica della “comunicazione cordiale” che Papa Francesco ci invita a riscoprire. Come combinare questi due ritmi della parola? Come fare in modo che la lentezza dell’esame accorto del discorso non ostacoli l’urgenza dell’annuncio, e che l’accelerazione della speranza non ci faccia disattenti alla pazienza del viandante?

C’è un motto latino che mi pare una mirabile sintesi di questo impegno al tempo misto della comunicazione cordiale. Lo storico Svetonio lo attribuisce all’imperatore Augusto e suona così: festina lente, affrettati lentamente[8]. Festina lente: quale icastica endiadi per descrivere il ritmo alternato di una buona comunicazione! Affrettati: non tardare, cioè, a intravedere nel meriggio declinante delle nostre vite sgangherate, delle nostre società impoverite, delle nostre generazioni depresse, delle nostre politiche guerrafondaie, quei barlumi di speranza che già fanno capolino e annunciano che l’aurora della pace è alle porte, se solo – seguendo l’invito del Salmo 57 – sapremo svegliarla destando in essa i nostri cuori. Lentamente: non lasciare, cioè, che l’urgenza festosa dell’incontro con il giorno nuovo trasformi la tua precipitazione in una competizione egoistica; bada di non dimenticare niente e nessuno nel tuo cammino; sii pronto a tendere la mano e farti prossimo a tutte le voci che incrocerai lungo il tragitto; tieni gli occhi aperti, le orecchie tese e il cuore spalancato agli eventi che provocheranno le intenzioni della tua missione.

Affrettati lentamente: quello che a prima vista parrebbe un ossimoro, è in realtà uno splendido simbolo ancipite dell’abito umano e professionale di ogni buon comunicatore “cordiale”.

Italo Calvino, nella seconda delle sue celebri Lezioni americane, così commenta il senso di questa enigmatica locuzione, riferendola all’arte dello scrivere: «Il lavoro dello scrittore deve tener conto di tempi diversi: il tempo di Mercurio e il tempo di Vulcano, un messaggio di immediatezza ottenuto a forza di aggiustamenti pazienti e meticolosi; un’intuizione istantanea che appena formulata assume la definitività di ciò che non poteva essere altrimenti; ma anche il tempo che scorre senza altro intento che lasciare che i sentimenti e i pensieri si sedimentino, maturino, si distacchino da ogni impazienza e da ogni contingenza effimera».

Eccola, dunque, la formula musicale della buona comunicazione: festina lente! La parresia del profeta che non si risparmia il labor limae, la fatica dell’inchiesta; l’argento vivo dell’annunciatore che ha saputo forgiarsi i calzari nel crogiolo paziente dell’ascolto; il clamore coraggioso della denuncia che si è finemente depurato di ogni facile ammiccamento e di ogni sensazionalismo mondano; l’immediatezza della verità che sfocia dai lunghi rivoli di una carità vissuta; le bradicardie della compassione e le tachicardie della speranza.

Solo osando questo stile bifronte di comunicazione potremo – con le parole del Santo Padre – pregare che «il Signore Gesù, Parola che si è fatta carne, ci aiuti a metterci in ascolto del palpito dei cuori, per riscoprirci fratelli e sorelle, e disarmare l’ostilità che divide»[9].

Concludo, come augurio a noi tutti affinché sappiamo accordare i nostri cuori ai tempi di una comunicazione sempre più “lentamente accelerata” dai sussulti di un’umanità ferita dall’odio e dall’indifferenza, citando i bellissimi versi della poesia Curiamoci, di Franco Arminio:

Non adesso, forse,

ma prima o poi arriverà una storia

che ci costringerà a rivolgerci

direttamente all’universo,

ci farà saltare il supermercato,

la banca, la rissa delle parole vuote.

Sarà la storia in cui capiremo

che ognuna delle nostre ossa

è impastata col sudore di tutti,

viene dal pallido freddo

in cui un miracolo ha bucato il nulla

ed è cominciato il mistero in corso,

la vita di ognuno ora cosi tremante

e bisognosa di soccorso.

Non adesso, forse,

ma prima o poi capiremo che non dobbiamo

sprecare il tempo che passiamo assieme,

il tempo di un sorriso, di una passeggiata.

Guardiamoci, parliamoci

con bella, commovente serietà.

Curiamoci.

 

Cassano allo Ionio, 21 maggio 2023

 

 

           Francesco Savino
        Vescovo di Cassano all’Jonio

     Vicepresidente Conferenza Episcopale Italiana

 

[1] MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA 57ma GIORNATA MONDIALE DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI, Parlare col cuore. «Secondo verità nella carità» (Ef 4, 15), 24 Gennaio 2023: https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/communications/documents/20230124-messaggio-comunicazioni-sociali.html

[2] Lettera pastorale “La crisi delle parole. Far parlare i silenzi” di mons. Francesco Savino, vescovo di Cassano all’Jonio, per la XVI Settimana della comunicazione (9-16 maggio 2021): https://comunicazionisociali.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/4/2021/05/17/Messaggio.pdf

[3] Don Lorenzo Milani, Lettera al direttore di “Adesso” del 25.07.1952, in Lettere, a cura di M. Gesualdi, San Paolo Edizioni, Milano 2023, p. 45.

[4] Don Lorenzo Milani, Lettera al direttore del “Giornale del Mattino” del 28.03.1956, in Lettere, a cura di M. Gesualdi, San Paolo Edizioni, Milano 2023, p. 87.

[5] M. M. Zuppi, Don Milani cercava solo l’amore, prefazione a Don Lorenzo Milani, Lettere, a cura di M. Gesualdi, San Paolo Edizioni, Milano 2023, p. 5.

[6] Don Lorenzo Milani, Lettera a Alberto Parigi del 20.05.1953, in Lettere, a cura di M. Gesualdi, San Paolo Edizioni, Milano 2023, p. 47.

[7] Messaggio Urbi et Orbi del Santo Padre Francesco per la Pasqua, 9 aprile 2023: https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/urbi/documents/20230409-urbi-et-orbi-pasqua.html

[8] Svetonio, Vite dei Cesari, Augusto, 25, 4.

[9] MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO PER LA 57ma GIORNATA MONDIALE DELLE COMUNICAZIONI SOCIALI, Parlare col cuore. «Secondo verità nella carità» (Ef 4, 15), 24 Gennaio 2023: https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/communications/documents/20230124-messaggio-comunicazioni-sociali.html