Omelie

XXIV Domenica del tempo ordinario anno A


XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO  (anno A)

 

Sir 27,30-28,9; Sal 102; Rm 14,7-9; Mt 18,21-35

 

17  Settembre  2023

 

Siamo sempre all’interno del cap.18 del Vangelo secondo Matteo, nel quale Gesù rivolge ai suoi discepoli il cosiddetto “discorso ecclesiale”, comunitario.

Non appena Gesù ha finito di esporre l’esigenza della correzione fraterna (cfr. Mt 18, 15-20), Pietro gli pone una domanda circa il perdono.

“Signore, se mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli fino a sette volte?” E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”.

Pietro in altri termini chiede se c’è un limite al perdono e lui stesso avanza una risposta dicendo fino a sette volte.

Gesù puntualizza che il perdono deve essere illimitato e sconfinato, ribaltando la logica vendicativa che è propria del risentimento umano: “Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamek settanta volte sette” (Gen 4, 24).

Perché questa indicazione, che è un comando, si possa imprimere nella profondità dei cuori e delle menti dei discepoli, Gesù racconta una parabola che rivela come il perdono che ci viene accordato da Dio, che è Padre, è il motivo e la misura del perdono reciproco.

“Il Regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi …”: in questa storia tutto è poco verosimile ma proprio per questo la storia è chiara nel suo significato perché urta contro ogni logica umana.

Dialoghiamo con la parabola: “C’è un servo, un funzionario di corte, che deve al suo re diecimila talenti: una somma spropositata, impossibile da rendere, in quanto equivale allo stipendio di cento milioni di giornate di lavoro! Minacciato dal suo signore di essere venduto insieme alla famiglia e a ciò che possiede, per saldare in minima parte questo enorme debito, egli si getta ai suoi piedi e lo supplica: «Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa». Allora il re prova compassione, cioè freme nelle sue viscere di misericordia, verbo che esprime il sentire profondo di Dio (cfr. Lc 15,20) – e, di riflesso, di Gesù (cfr. Mt 9,36; 14,4, ecc.) – per le situazioni di sofferenza e di peccato in cui l’uomo viene a trovarsi. È da questo sentire di Dio, il re della parabola, che discende il perdono incondizionato (ed economicamente folle) concesso al servo” (cfr. Enzo Bianchi).

Appena il servo “condonato” uscì dal colloquio con il re, che gli aveva riaperto un futuro possibile, gli aveva ridato vita, incontrò un suo collega servo, che gli doveva cento denari, una somma di denaro non certamente piccola ma irrisoria rispetto ai diecimila talenti di cui egli era debitore.

“Ma con la sua condotta egli mostra che non sempre il perdono muta il cuore di colui che lo riceve: il perdono è onnipotente, perché tutto può perdonare, e nello stesso tempo è infinitamente impotente… Infatti, supplicato dal suo debitore con le stesse parole da lui usate verso il re, si mostra inflessibile: dopo averlo trattato con violenza, lo fa gettare in carcere, fino a che non abbia saldato il debito. «Come è possibile?», ci chiediamo d’istinto, dimenticando che spesso questo è il nostro modo di agire… E come noi se lo chiedono gli altri servi della parabola che, rattristati e indignati, si ribellano di fronte all’ingiustizia perpetrata sotto i loro occhi e hanno il coraggio di denunciare l’accaduto al loro signore” (cfr. Enzo Bianchi).

Il servo “condonato” ma malvagio, viene richiamato dal padrone che lo invita a prendere ulteriormente coscienza della realtà che gli è accaduta e gli pone una domanda fondamentale per le nostre coscienze nel momento in cui ascoltiamo o leggiamo la parabola, che costituisce il vero vertice della stessa e riporta l’insegnamento morale che ne deriva: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno così come io ho avuto pietà di te?”. Il padrone, dinanzi alla stupida cecità del servo malvagio, si vede costretto a consegnarlo agli aguzzini finchè non avrà restituito il dovuto.

Gesù opportunamente commenta: “Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”.

Siamo chiamati, dunque, a perdonare senza misura i nostri fratelli perché Dio in Gesù Cristo, suo Figlio, ci ha fatti destinatari di un perdono unilaterale e senza condizioni.

Possiamo chiedere perdono al Signore, allora, solo nella misura in cui siamo disposti a perdonare i nostri “con-servi”.

“Ecco perché nel «Padre nostro» la richiesta di perdono da noi rivolta a Dio è condizionata dalla nostra pratica di perdono verso gli altri. Non a caso l’unica domanda di questa preghiera che Gesù spiega è: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12), e lo fa con parole che dobbiamo ricordare con cura, come una luce che illumina le nostre relazioni quotidiane: «Se voi perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Mt 6,14-15)” (cfr. Enzo Bianchi).

Convertiamoci al perdono consapevoli che è possibile perdonare “fino a settanta volte sette”, cioè sempre, perché la “grazia” di Cristo viene incontro alla nostra difficoltà, spesso impossibilità umana, di perdonare.

Convertiamoci, dunque, all’Amore. “L’amore tutto dimentica, tutto perdona, dà tutto senza riserve” (Padre Pio).

Buona Domenica.

   Francesco Savino

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