CONCLUSIONI ASSEMBLEA DIOCESANA [SCARICA]
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In Cristo con i giovani in ascolto e discernimento
Il Vescovo a tutto il popolo di Dio che è in Cassano all’Jonio
“Ho scritto a voi, giovani, perché siete forti, e la Parola di Dio dimora in voi e avete vinto il maligno” (1Gv 2,14)
“Uscire da un certo pessimismo sui giovani è cambiare lo sguardo su di loro: questa è forse oggi la priorità. Riuscire a guardare davvero ai giovani e con i giovani al loro mondo, oltre la superficie di apparente aridità e «mancanza di valori» alla quale spesso ci fermiamo. Ci sorprenderà scoprire che, in verità, ricca è la loro ricerca di spiritualità, autentico è il loro desiderio di vita e sincero il loro interesse per la fede” (Alessandro Castegnaro, “Giovani in cerca di senso”, ed. Qiqajon)
PROLOGO:
Telemaco non si sbagliava: la condizione giovanile “non è una malattia”
Molte volte siamo tentati di considerare la condizione giovanile come una “malattia” che ammorba gli esseri umani in una fase della loro vita di durata più o meno imprecisata.
La difficoltà che nella cultura occidentale si è riscontrata da sempre nel definire questa condizione esistenziale ha portato in alcune fasi della storia, soprattutto recente, a veri e propri scontri generazionali in cui “i giovani” hanno rivendicato nei confronti della generazione adulta (la generazione dei Padri) uno spazio di espressività, di libertà e soprattutto di potere.
La rivalità tra il Padre e il Figlio rappresentata dal mito di Edipo è stata il cliché culturale che ha spazzato via la convinzione che un figlio è tale solo se eredita dal Padre, una memoria, una visione del mondo e della realtà ed uno spirito critico per poter progredire nella conoscenza.
D’altra parte “far fuori” il Padre significa per il Figlio rassegnarsi a vivere da disadattato in questo mondo, vittima di una sorta di oblio delle proprie radici e della propria storia.
Ma per sottrarci a questa interpretazione nichilista del rapporto tra Padri e Figli dobbiamo rifarci invece al mito di Telemaco nella lettura fatta sia dallo psicanalista Recalcati che da don Luigi Maria Epicoco, che restituisce al figlio la sua condizione originaria anche in questo tempo di incertezza:«Il tempo dei nostri figli è il tempo di Telemaco che non è solo una figura della nostalgia. Telemaco è il figlio giusto che ha il coraggio di mettersi in moto, di compiere il proprio viaggio. È il viaggio del figlio che rende possibile il ritorno di Ulisse. Per questo ho ribattezzato la generazione di oggi, “generazione Telemaco”. Se i padri non hanno lasciato niente ai figli, tocca ai figli fare il viaggio, diventare eredi, interpretare in modo nuovo quello che hanno ricevuto. Anche se non hanno ricevuto Regni ma solo debiti! Da questo punto di vista possiamo dire che nelle nuove narrazioni irrompe anche e soprattutto una nuova figura di figlio»(Recalcati, La Repubblica, 30 ottobre 2016).
Ci apprestiamo quindi a tratteggiare la figura del figlio che fa della sua condizione giovanile una opportunità per il presente ed una traiettoria del futuro.
1 – “Dammi un cuore che ascolta” (1 Re 3,1-15)
Il testo biblico di 1Re 3,1-15 appartiene alla tradizione dei libri storici, quelli che parlano dell’istituzione della monarchia davidica in Israele e di come questa istituzione sia entrata con il passare dei secoli in un lungo e inesorabile declino. Il passo citato si riferisce al re Salomone che dopo la morte di suo padre Davide si ritrova a governare il regno d’Israele in giovane età.
Salomone riconosce di non avere una regola (1 Re 3,7); quando sentiamo la parola regola , subito si avverte una sensazione di fastidio. Pensiamo erroneamente che regola coincida con legge; esempio classico per noi cristiani sono i dieci comandamenti: sono qualcosa che obbligano, che costringono l’essere umano ad acquisire un determinato modo di comportarsi per stare al mondo.
In realtà la parola REGOLA, traduce il greco entolè, che significa propriamente I(N)-STRUZIONE, che seguita, permette di avviare un processo di CO-STRUZIONE.
L’ I(N)-STRUZIONE è primariamente un processo di CO-STRUZIONE e non di CO-STRIZIONE!
Un pilastro dell’educazione delle culture antiche era il seguente: Il giovane, il ragazzo è colui che ha bisogno di co-struirsi. E per costruirsi ha bisogno di istruirsi.
La condizione giovanile non può viversi partendo dal principio dell’IO-SO ma come Salomone deve riconoscere il principio dell’ IO-NON-SO o so di non sapere!
Questo principio è il motore di ogni ricerca della conoscenza sicura ed affidabile, di ogni ricerca della Verità!
2 – “Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male”(1 Re 3,9)
La riflessione sul cuore nella cultura biblica individua nel cuore non solo la sede dei sentimenti ma il centro propulsivo dell’essere umano (pensieri, emozioni, decisioni). Ne è la parte più profonda e rappresenta la sede sia della vita morale che spirituale dell’essere umano.
L’aggettivo docile viene dal latino dòcilem che significa ammaestrabile, facile ad apprendere che deriva a sua volta da dòceo, insegno.
Docile è colui o qualcosa che si lascia guidare secondo l’insegnamento della ragione.
Un cuore docile è un cuore che cerca ragioni ed a cui bisogna dareragioni.
La nostra cultura contemporanea imbevuta di senso comune tende a contrapporre ragione e sentimento; ma l’insegnamento biblico ci dice che non si possono concepire l’una senza l’altro.
La ragione autentica è affettiva!
Ma qual è il compito che occorre assegnare a questa ragione affettiva? Saper distinguere il bene dal male. Il verbo distinguere viene dal grecodia-stìzein che significa marcare con lo sguardo, puntare. Quindi ha il significato di discernere, per mezzo della vista e con gli altri sensi le diverse parti di cui è composta una cosa. In senso metafisico è l’operazione di sceverare le idee composte secernendone con il pensiero i diversi elementi.
La ragione affettiva, il cuore docile, deve acquisire la capacità didistinguere, ossia ridurre la complessità in semplicità.
3 – “ Hai domandato per te il discernimento per ascoltare le cause”
Salomone non chiede a Dio né una lunga vita, né la ricchezza, né la morte dei suoi nemici. Egli domanda l’essenziale: la capacità di discernere per ascoltare.
Sono proprio questi due verbi discernere ed ascoltare che segnano il passaggio dalla giovinezza all’età adulta, due stati dell’esistenza più che due soglie anagrafiche.
Il verbo discernere indica la capacità di distinguere le identità e le differenze, ciò che è vero da ciò che è falso.
I medievali, utilizzavano un criterio per poter operare tale discernimento: ens, unum, verum, bonum convertuntur; l’ente, l’uno, il vero, il buono convergono.
Nel Nuovo Testamento la capacità di discernere viene attribuita allo Spirito Santo. L’uomo che discerne è in definitiva l’uomo spirituale! Questa è la conclusione a cui S.Paolo ci conduce nella I lettera ai Corinzi (cf. 1 Cor2, 10b -16).
La grande tradizione spirituale cristiana ci indica tre ambiti in cui opera sempre il discernimento dello Spirito:
– il discernimento del cuore;
– il discernimento nell’ambito della comunità cristiana;
– il discernimento nel mondo e nella società.
Il secondo verbo della maturità adulta è il verbo ascoltare. L’ascolto è il frutto maturo dell’udire e del sentire.
Il verbo udire si riferisce al senso dell’udito ed ha lo stesso significato di percepire con le orecchie. Sentire invece fa riferimento all’azione di percepire non con le orecchie, ma anche con il naso, con il tatto o con tutto il corpo. Sentire è un verbo generico e si può usare per descrivere sensazioni come caldo, freddo, odori, sentimenti, emozioni, stati d’animo o del corpo.
Ascoltare significa prestare attenzione, pensare e ragionare, ed è un processo attivo-cognitivo, basato sull’interesse e la concentrazione. Per esempi: ascoltare un suono per riconoscerlo, ascoltare intenzionalmente e con molta attenzione le parole di una canzone per capirne il significato, voler capire chi parla e i suoi discorsi, ascoltare il sibilo del vento, gli uccelli che cantano, o il battito del cuore. In altre parole, ascoltare è l’azione dell’udire fatta con volontà e consapevolezza.
L’ascolto è la prima e più importante capacità da esercitare per migliorare la comunicazione e le relazioni con il prossimo.
Ma tale capacità non si può coltivare se non si coltiva il silenzio.
4 – Maria donna senza retorica
Molte volte la retorica è il modo “più originale” che noi abbiamo per presentare il messaggio cristiano soprattutto ai giovani. Un riempire di parole di circostanza l’angosciante scorrere senza senso del tempo.
Ma occorre recuperare le parole franche e perciò profetiche di don Tonino Bello per delineare un modello di cristiano che non è sfiorato minimamente dalla tentazione di fare moralismo. Don Tonino parla di Maria come modello dell’anti-retorica, lo stesso modello che la Chiesa dovrebbe seguire nella comunicazione del messaggio evangelico:
Lo so bene: non è un’invocazione da mettere nelle litanie lauretane. Ma se dovessimo riformulare le nostre preghiere a Maria in termini più umani il primo appellativo da darle dovrebbe essere questo: donna senza retorica.
Donna vera, prima di tutto. Come Antonella, la ragazza di Beppe, che ancora non può sposarsi perché disoccupata e anche lui è senza lavoro. Come Angela, la parrucchiera della città vecchia che vive felice con suo marito. Come Isabella, la vedova di Leo che il mese scorso è morto in un naufragio lasciandola con tre figli sulle spalle. Come Rosanna, la suora stimmatina che lavora tra i tossicodipendenti della Casa di accoglienza di Ruvo.
Donna vera, perché acqua e sapone. Perché senza trucchi spirituali. Perché, pur benedetta tra tutte le donne, passerebbe irriconoscibile in mezzo a loro se non fosse per quell’abbigliamento che Dio ha voluto confezionarle su misura: «vestita di sole e coronata di stelle».
Donna vera, ma, soprattutto, donna di poche parole. Non perché timida, come Rossella che tace sempre per paura di sbagliare. Non perché irresoluta, come Daniela che si arrende sistematicamente ai soprusi del marito, al punto che tronca ogni discussione dandogli sempre ragione. Non perché arida di sentimenti o incapace di esprimerli, come Lella, che pure di sentimenti ne ha da vendere, ma non sa mai da dove cominciare e rimane sempre zitta.
Donna di poche parole, perché, afferrata dalla Parola, ne ha così vissuta la lancinante essenzialità, da saper distinguere senza molta fatica il genuino tra mille surrogati, il panno forte nella sporta degli straccivendoli, la voce autentica in una libreria di apocrifi, il quadro d’autore nel cumulo delle contraffazioni. Nessun linguaggio umano deve essere stato così pregnante come quello di Maria. Fatto di monosillabi, veloci come un “sì”. O di sussurri, brevi come un fiat. O di abbandoni, totali come un amen. O di riverberi biblici, ricuciti dal filo di una sapienza antica, alimentata da fecondi silenzi.
Icona dell’antiretorica, non posa per nessuno. Neppure per il suo Dio. Tanto meno per i predicatori, che l’hanno spesso usata per gli sfoghi della loro prolissità.
Proprio perché in lei non c’è nulla di declamatorio, ma tutto è preghiera, vogliamo farci accompagnare da lei lungo i tornanti della nostra povera vita, in un digiuno che sia, soprattutto, di parole.
Santa Maria, donna senza retorica, prega per noi inguaribilmente malati di magniloquenza.
Abili nell’usare la parola per nascondere i pensieri più che per rivelarli, abbiamo perso il gusto della semplicità. Convinti che per affermarsi nella vita bisogna saper parlare anche quando non si ha nulla da dire, siamo diventati prolissi e incontinenti. Esperti nel tessere ragnatele di vocaboli sui crateri del “non senso”, precipitiamo spesso nelle trappole nere dell’assurdo come mosche nel calamaio. Incapaci di andare alla sostanza delle cose, ci siamo creati un’anima barocca che adopera i vocaboli come fossero stucchi, e aggiriamo i problemi con le volute delle nostre furbizie letterarie.
Santa Maria, donna senza retorica, prega per noi peccatori, sulle cui labbra la parola si sfarina in un turbine di suoni senza senso. Si sfalda in mille squame di accenti disperati. Si fa voce, ma senza farsi mai carne. Ci riempie la bocca, ma lascia vuoto il grembo. Ci dà l’illusione della comunione, ma non raggiunge neppure la dignità del soliloquio. E anche dopo che ne abbiamo pronunciate tante, perfino con eleganza e a getto continuo, ci lascia nella pena di una indicibile aridità: come i mascheroni di certe fontane che non danno più acqua e sul cui volto è rimasta soltanto la contrazione del ghigno.
Santa Maria, donna senza retorica, la cui sovrumana grandezza è sospesa al rapidissimo fremito di un fiat, prega per noi peccatori, perennemente esposti, tra convalescenze e ricadute, all’intossicazione di parole. Proteggi le nostre labbra da gonfiori inutili. Fa’ che le nostre voci, ridotte all’essenziale, partano sempre dai recinti del mistero e rechino il profumo del silenzio. Rendici come te, sacramento della trasparenza. E aiutaci, finalmente, perché nella brevità di un “sì” detto a Dio ci sia dolce naufragare: come in un mare sterminato.
5 – I giovani ed il buon umore: una via di santità
Papa Francesco nella Gaudete et Exultate fa del buon umore la condizione necessaria ad intraprendere la via della santità: Ordinariamente la gioia cristiana è accompagnata dal senso dell’umorismo, così evidente, ad esempio, in san Tommaso Moro, in san Vincenzo de Paoli o in san Filippo Neri. Il malumore non è un segno di santità: «Caccia la malinconia dal tuo cuore» (Qo11,10). E’ così tanto quello che riceviamo dal Signore «perché possiamo goderne» (1 Tm6,17), che a volte la tristezza è legata all’ingratitudine, con lo stare talmente chiusi in sé stessi da diventare incapaci di riconoscere i doni di Dio (Gaudete et exultate, 126).
L’invito del papa è a considerare la propria condizione giovanile non come un fardello da trascinare con fatica e paura ma come una possibilità di prendersi gioco delle forze e dei poteri di questo mondo che vogliono trascinare noi e soprattutto i giovani nella disperazione dell’insignificanza.
La gioia e il senso dell’umorismo sono il segno tangibile della grazia santificante che ci comunica la natura divina e ci spalanca le porte dell’eternità della vita in Cristo.
6 – Innanzitutto figli: generare è essere generati! La generatività della Chiesa
Nel NT il verbo ghìghnomai assume il significato di apparire dell’essere e quindi di generare ed ha la stessa radice del verbo ghighnòsco che significa conoscere. Generare, quindi, è primariamente conoscere. Si genera quando si conosce di essere stati generati. La comunità cristiana è generativa perché riconosce di essere stata generata. Ma quali sono “i luoghi teologici” in cui la comunità cristiana viene generata? Da chi viene generata? I “luoghi teologici” sono primariamente due:
– la celebrazione dei sacramenti;- l’annuncio della Parola di Dio.
Riprendendo un’espressione della teologia dei Padri della Chiesa essi sono i “lògoi spermàtikoi” ossia sono i semi del Verbo che fecondano “il mondo” e generano la comunità cristiana. È il mondo l’utero che fecondato da Cristo genera la Chiesa! «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,17). La salvezza del mondo consiste nella sua fecondazione e nel suo parto. La Chiesa è la generazione di Cristo che “feconda” il mondo. La Chiesa è il parto del mondo. Tale parto avviene sulla croce e liturgicamente ne facciamo memoria nel triduo pasquale!
Ma in che cosa consiste la generatività della Chiesa? Essa è una “generatività verginale” come quella di Maria (Lumen Gentium VIII – Maria icona della Chiesa). I tratti iconologici di una Chiesa generativa ce li ricorda San Paolo nel capitolo IV della lettera agli Efesini (IV, 17-31):
Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani nella vanità della loro mente, accecati nei loro pensieri, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro, e per la durezza del loro cuore. Diventati così insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza, commettendo ogni sorta di impurità con avidità insaziabile.
Ma voi non così avete imparato a conoscere Cristo, se proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, per la quale dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera. Perciò, bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membra gli uni degli altri. Nell’ira, non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira, e non date occasione al diavolo. Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità. Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano. E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione.
Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo.
Lo stile generativo da proporre ai giovani è quello di una Chiesa:
– che abbandoni gli usi pagani che eredita, dalla cultura secolarizzata del tempo in cui viviamo, il culto del potere e del riconoscimento mondano;
– che insegni ai suoi membri a vivere fuori dall’impurità e dall’avidità insaziabile del denaro;
– che impari a dare ascolto alla verità che è in Gesù e insegni a pensare con verità;
– che non si corrompa dietro le passioni ingannatrici ma insegni il dominio di sé all’uomo;
– che metta al bando la menzogna e impari a comunicare con parrhesìa;
– che non rubi più ma che si dia da fare a lavorare onestamente con le proprie mani;
– che eviti il clamore e la maldicenza e che invece conosca la pratica della misericordia e della preghiera come restituzione dell’altro a se stesso. Questi i tratti di una comunità che generando alla vita cristiana rinnovi sempre più, come il lievito nuovo, la “pasta” dell’uomo di oggi.
Cari giovani vi scrivo …
Cari giovani,
vorrei chiamarvi tutti per nome per farvi sentire di più la mia vicinanza e la mia stima.
La mia vicinanza perché il vostro modo di desiderare, cercare, a volte anche in modo confuso, di voler stare insieme, di sorridere, di amare, mi provoca, rimette in gioco la mia umanità, richiamandomi la mia natura di uomo mendicante di senso.
La vostra ansia di voler essere all’altezza di chi vi sta di fronte, in genere gli adulti a cui tenete o i miti che vi attraggono, di voler sperimentare nuove vie, di voler vivere a modo vostro, spesso si trasforma in rabbia di contestazione per uno sguardo di cura e di attenzione non ricevuto, per un silenzio indifferente dall’altra parte che pesa e brucia più di una correzione data con rigore e autorevolezza.
Voi volete vivere pienamente e anch’io! Ciascuno di noi vuole vivere, siamo fatti per la vita piena, non per la morte, non per il nulla, non per la dimenticanza, non per l’annientamento.
“Come posso io/Non celebrarti vita?” dice una canzone di uno dei vostri amici famosi, Jovanotti. E ancora “Ah beh sì beh vacci a credere te/Che è tutto sempre relativo come piace a me/Non sono qui per il gusto, per la ricompensa/Ma per tuffarmi da uno scoglio dentro all’esistenza”.
Voglio parlare al vostro cuore, a quel cuore che vuole provare il brivido di un’esistenza compiuta e che non si arrende alle difficoltà, alla paura. Non sono fatti per voi la noia, il disinteresse, lo sballo, la dipendenza soporifera. Ve l’hanno fatto credere i trafficanti di morte, il potere, anche quello cosiddetto “perbene”, per gestirvi meglio, per usarvi al meglio.
Siete e siamo stati fatti per essere felici e, ancor prima, liberi … di amare, perché se ami, diceva Sant’Agostino, puoi fare quello che vuoi, senza fare del male, senza possedere, senza fare violenza.
Se l’uomo guarda a se stesso, non può negare l’evidenza di un impeto irriducibile che costituisce il suo cuore come tensione a una pienezza, a una perfezione o soddisfazione.
Il potere che non ha volto, ma ha tentacoli molto pericolosi, convince in modo anonimo che un telefonino, un computer, un videogioco, una serata in discoteca o al bar “figo” di turno, con consumo spropositato di alcool e sostanze stupefacenti, una sgommata all’incrocio o una corsa clandestina, siano più appassionanti della ricerca della Verità.
NON E’ VERO! Non per autorità vescovile, ma per passione alla Bellezza. Quella bellezza per cui Dostoevskij faceva urlare a uno dei suoi personaggi che si può fare a meno quasi di ogni cosa: «Ma senza la bellezza no, perché allora non avrà assolutamente nulla da fare al mondo! Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui!».
La bellezza è una chiamata, perché la bellezza mostra l’unicità di qualcosa che è uscito dall’anonimato e ha raggiunto il suo compimento, la bellezza trasforma in volto ciò che è indistinto.
Io sono diventato sacerdote per questo, chi si sposa credendoci si sposa per questo, chi sceglie la via del monastero o chi parte missionario lo fa per questo, chi fa il cantante, l’attore, il professionista lo fa per questo, chi lavora per sostenere la famiglia lo fa per questo. Per meno nulla vale la pena.
La vocazione è chiamata alla Bellezza e occorre riscoprirlo non solo nei discorsi ma anche e soprattutto nei volti dei testimoni. Quanti dei vostri genitori lo sono, quanti vostri amici, parenti, conoscenti lo sono! Imparate a guardare, non c’è altro modo per scoprire la propria strada. Quando vi umiliano, vi opprimono, non vi comprendono, alzate lo sguardo, guardate oltre e scoprirete l’ardore, il coraggio, la forza di tanti uomini e donne normali, che nella banalità del quotidiano sono veramente eroici: imitateli. Ascoltate il cuore perché non mente; è fatto di cose grandi e semplici allo stesso tempo: esigenza di bellezza, di giustizia, di verità.
Vivete e lottate per questo! Si chiama ideale.
“Io non volevo sopravvivere e basta, non mi piace accontentarmi”
afferma il cantante trap Sfera Ebbasta.
Quando ti spinelli, ti ubriachi, fai violenza o la subisci, tu inconsapevolmente stai tradendo quello per cui sei fatto e per cui il tuo cuore grida: l’esigenza di felicità. La tua fragilità non è obiezione, è domanda, è grido di essere compiuto da un Altro che non sei tu.
Il cristianesimo è per donne e uomini coraggiosi, altro che per “sfigati”, perché non riduce, perché chiede l’impossibile in questo mondo, che la vita scoppi dentro il cuore e si trasmetta per contagio.
Fate vostro l’ammonimento del Caligola di Camus: “Siate realisti, chiedete l’impossibile”.
Dio ci ama da sempre e per sempre: questo è lo sguardo che cambia la vita. A tanti è accaduto, auguro che accada anche a voi.
Cammineremo insieme. Vi prometto, malgrado il limite di tempo che il mio ministero pone, di esservi compagno di viaggio.
Desidero entrare nella vostra vita, proponendovi occasioni di compagnia vera e lieta in alcuni momenti dell’anno che verrà. So che siete anche più programmati di me: tenterò di venirvi incontro in punta di piedi, ma deciso a guardarvi in faccia e ad ascoltarvi.
Spero sarete voi stessi entusiasti comunicatori della gioia che vi portate dentro e che a volte, per un malinteso pudore umano, non esprimete.
Cristo è venuto a questo mondo per due problemi che nessuna sapienza umana risolverà mai. Primo: perché soffro? E secondo: perché nasco con appeso al collo il cartello “condannato a morte”? (Camus).
Ci confronteremo sulla sofferenza, sul dolore innocente, sulla fede e sulla speranza, sull’amore e sulla sessualità, sulla gioia e sull’eternità. Aspetto da tutti voi suggerimenti e domande. Tante.
“Se esiste un dio, forse si forse no, boh
Ma ascolto le storie disposto a crederci un po’
Che siamo figli di qualcuna
Il resto è tutto da fare
Non ho radici, ma piedi per camminare” (Oh vita, Jovanotti)
E così possiamo tornare insieme “…a rimirar le stelle”.Vi benedico e vi abbraccio uno ad uno! A presto.
EPILOGO:
Esorto i parroci, i catechisti, gli animatori, i genitori, gli insegnanti tutti a diffondere questa lettera, sia ai giovani che fanno un percorso di fede, sia a quelli che vivono sulla soglia o sono indifferenti del tutto.
E’ chiaro che non basta una lettera più o meno bella, occorre rendere possibile e credibile una strada da fare insieme. In ogni parrocchia si ripensi seriamente e responsabilmente, mettendo al centro i giovani, un accompagnamento e una presenza educativi non dimenticando quanto abbiamo già condiviso nelle prime tappe del progetto pastorale diocesano “La gioia del Vangelo”: l’adulto-famiglie al centro con il Vangelo nel cuore e tra le mani, un’iniziazione cristiana ripensata in modo catecumenale, una comunità-utero che genera alla fede adolescenti e giovani.
Organizzeremo a livello diocesano con il Servizio di Pastorale Giovanile e con il Centro Diocesano Vocazioni un percorso nel quale far parlare i tanti testimoni e le tante icone di riferimento per i giovani.
Vorrei ancora una volta ricordare che il compito di educare i giovani alla fede è un impeto di vita che ha il cristiano se è tale, e non si arresta davanti a quel che può sembrare un risultato fallimentare. E’ necessario essere “liberi dall’esito” che significa, in definitiva, non essere prigionieri dei propri progetti, ma restare spalancati alla realtà, sempre più grande di ogni idea e di ogni schema. Mi sembra che questo sia stato il senso dell’Assemblea.
Essere spalancati alla realtà con curiosità e audacia è la caratteristica propria della gioventù. Il Papa ha preso di petto la questione già nella lettera di preparazione al Sinodo inviata ai giovani all’inizio del 2017. Dopo aver ricordato le parole che Dio rivolse ad Abramo “vattene dalla tua terra”, scrive: “queste parole sono oggi indirizzate anche a voi: sono parole di un Papa che vi invita ad «uscire» per lanciarvi verso un futuro non conosciuto ma portatore di sicure realizzazioni, incontro al quale egli stesso vi accompagna”. E’ la descrizione affascinante di cosa significa la parola “vocazione” cui si richiama il titolo del Sinodo. Oggi però, ammettiamolo, “il futuro non conosciuto” spaventa e la frase biblica “vattene dalla tua terra” assume il significato della prevaricazione, dell’ingiustizia e della guerra, dice il Papa.
Mi sembra che, più in generale, è lo stesso concetto di vocazione che va rilanciato, perché oggi appare più che mai logorato ed obsoleto. E’ andata persa la coscienza, sorretta dalla fede, secondo cui la vita stessa è vocazione, e dunque una risposta alla chiamata di Qualcuno che conosce la strada e ci accompagna nel cammino.
Buon anno pastorale!
✠ Francesco, vostro Vescovo