Lettera ai presbiteri di Mons. Francesco Savino

Non stancatevi di essere misericordiosi

Lettera ai presbiteri, Giovedì Santo 2024

 

 

Cari fratelli,

Nei primi giorni di febbraio scorso – lo ricordiamo – papa Francesco ha rivolto un messaggio al Convegno internazionale sulla formazione del clero.

Un intervento lineare, articolato con chiarezza, come egli è solito fare, centrato su tre punti ben riconoscibili: la gioia del Vangelo, l’appartenenza al popolo, la generatività del servizio. Tre indicazioni di percorso, per aiutare noi ministri ordinati a ravvivare il dono di Dio che è in noi. Vi invito a rileggere quel testo, appena vi è possibile.

Ebbene, rileggendolo, osserverete come nella conclusione il tono delle parole del Santo Padre si stacca dallo stile della lettura e si rivolge al suo uditorio alzando gli occhi dalle pagine di carta. Pur senza il video di quell’incontro, la sola lettura del documento riportato dai media vaticani ci permette quasi di visualizzare la scena: in quel momento il papa aggiunge a braccio delle parole e sente di dirci, di cuore: «Per favore, non stancatevi di essere misericordiosi». E spiega, più in particolare: «Perdonate sempre. Quando la gente viene a confessarsi, viene a chiedere il perdono e non a sentire una lezione di teologia o delle penitenze. Siate misericordiosi, per favore. Perdonare sempre, perché il perdono ha questa grazia della carezza, dell’accogliere. Il perdono sempre è generativo dentro. Questo mi raccomando: perdonate sempre».

Proprio da quella parola, carica e coinvolgente, vorrei far scaturire la mia riflessione per voi, cari fratelli: “Non stancatevi di essere misericordiosi”. Questi miei semplici pensieri vorrebbero tenere a cuore quella comprensibile condizione di fatica, e quindi di stanchezza, alla quale siamo sottoposti (anche) noi presbiteri. Considero però non solo quel tipo di stanchezza legato alle crisi soggettive e alle criticità ambientali che ci possono riguardare, ma allargo progressivamente lo sguardo a quella stanchezza indice di vita autenticamente spesa, di cuore dedito al servizio, di spirito conquistato dalla paternità di Dio, in un abbraccio che si estende alle creature da amare.

 

“Non stancatevi di…”. Luci e ombre della stanchezza

La stanchezza di per sé non è certo negativa, e queste mie righe vogliono favorire una valorizzazione delle esperienze di fatica. Quanto meno se si considera quella stanchezza positiva che scaturisce dal tempo ben speso e vissuto.

Ci sono infatti almeno due forme di spossatezza. C’è una stanchezza che scaturisce dal rifiuto di ciò che siamo e viviamo, generando voglia di evasione. Ma c’è anche una stanchezza che rivela pienezza e voglia di riprendere energie per ricominciare. E quante volte anche noi facciamo esperienza di entrambe le situazioni!

La prima forma di stanchezza viene dunque dallo sconforto o dalla perdita di senso e di motivazione. A volte ciò accade perché spendiamo energie in ciò che è vano; oppure perché la nostra azione e il nostro coinvolgimento, pur ispirati dalla saggezza di fede, appaiono frustrati da fallimenti o avversità, che sembrano oscurare l’orizzonte della speranza e possono condurre a un pericoloso ripiegamento.

Sono emblema di stanchezza da frustrazione le esperienze di Mosè, di Elia, di Giobbe. Ricordiamo il lamento di Mosè, quando si sfoga davanti al Signore per il peso insostenibile che sente sulle sue spalle: le continue recriminazioni degli Israeliti non gli lasciano tregua e lui, dopo aver portato per lungo tempo il peso del popolo, sente venir meno le sue forze, quasi rinfaccia al Signore la sua fatica e la sua umiliazione e preferirebbe porre fine a tutto: «Mosè disse al Signore: “Perché hai fatto del male al tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi, al punto di impormi il peso di tutto questo popolo? L’ho forse concepito io tutto questo popolo? O l’ho forse messo al mondo io perché tu mi dica: ‘Portalo in grembo’, come la nutrice porta il lattante, fino al suolo che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri? Da dove prenderò la carne da dare a tutto questo popolo? Essi infatti si lamentano dietro a me, dicendo: ‘Dacci da mangiare carne!’. Non posso io da solo portare il peso di tutto questo popolo; è troppo pesante per me. Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto, fammi morire, se ho trovato grazia ai tuoi occhi; che io non veda più la mia sventura!”» (Nm11,11-15). In risposta, il Signore stabilisce una riforma dell’ordinamento del popolo, istituendo una forma di partecipazione al servizio di Mosè, in modo che il suo carico ne risulti alleggerito: settanta anziani riceveranno il suo stesso spirito e condivideranno alcune sue incombenze. L’intervento del Signore sembrerebbe così rivolto solo alla risoluzione pratica del problema gestionale sollevato da Mosè, e forse poco attento ai sentimenti di quest’uomo “assai umile” (Nm 12,3). Ma il lamento di un Mosè insolitamente sconfortato e pronto ad arrendersi non passa inascoltato al cuore di Dio. Quel lamento era davvero frutto di una fatica oppressiva, per la quale anche lo spirito allenato e fedele di Mosè si ritraeva nell’umana fragilità e apriva le porte allo sconforto e alla rinuncia. L’intervento del Signore è un riconoscimento del grido di Mosè, è un conforto alla sua anima, un abbraccio alla sua afflizione.

Anche Elia – il profeta impetuoso che, davanti al re idolatra e al popolo inerte, aveva affrontato da solo i quattrocentocinquanta profeti di Baal (cf 1Re 18) – ad un certo punto supera il limite della resistenza spirituale e psicofisica, quando sente ancora pressanti le minacce della regina Gezabele e crolla sotto una ginestra: «Desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”» (1Re 19,4). Ma il conforto del Signore si fa per lui parola di coraggio, si fa acqua e pane, si fa forza che rialza e rimette in cammino.

E Giobbe, il servo giusto per antonomasia. Fermiamoci davanti all’immagine della sua prostrazione umanamente insuperabile, che giunge a provocare Dio e a chiedergli conto di un atteggiamento che appare troppo terreno: «Io sono stanco della mia vita! / Darò libero sfogo al mio lamento, / parlerò nell’amarezza del mio cuore. /Dirò a Dio: “Non condannarmi! / Fammi sapere di che cosa mi accusi. / È forse bene per te opprimermi, / disprezzare l’opera delle tue mani / e favorire i progetti dei malvagi? / Hai tu forse occhi di carne / o anche tu vedi come vede l’uomo?» (Gb 10,1-4). E il Signore farà ancora attendere il suo conforto e il suo sostegno, prima di rivelare la giustizia del suo servo e abbracciarlo con la sua saggezza amorevole.

I grandi servi di Dio, i tre emblemi della legge, della profezia e della giustizia, fanno l’esperienza del limite umano, si confrontano con la loro debolezza, che tuttavia si manifesta fonte di saggezza e di umiltà, e richiama alla necessità della forza e della grazia di Dio.

Non dimentichiamo però che una stanchezza opprimente può giungere anche da un attivismo dedito a obiettivi vani o secondari, effimeri. È paradigmatica l’amara constatazione del Qoèlet: «Ho intrapreso grandi opere, mi sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti. Mi sono fatto parchi e giardini e vi ho piantato alberi da frutto d’ogni specie; mi sono fatto vasche per irrigare con l’acqua quelle piantagioni in crescita. Ho acquistato schiavi e schiave e altri ne ho avuti nati in casa; ho posseduto anche armenti e greggi in gran numero, più di tutti i miei predecessori a Gerusalemme. Ho accumulato per me anche argento e oro, ricchezze di re e di province. Mi sono procurato cantori e cantatrici, insieme con molte donne, delizie degli uomini. Sono divenuto più ricco e più potente di tutti i miei predecessori a Gerusalemme, pur conservando la mia sapienza. Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva d’ogni mia fatica: questa è stata la parte che ho ricavato da tutte le mie fatiche. Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo affrontato per realizzarle. Ed ecco: tutto è vanità e un correre dietro al vento. Non c’è alcun guadagno sotto il sole» (Qo 2,4-11).

Il presbitero può essere coinvolto da una amarezza di questo tipo quando la vita lo porta a considerare in modo ombroso le sue fatiche pastorali, soprattutto se una certa aridità spirituale gli ha fatto perdere il gusto della relazione con Dio e con gli altri e se la ricerca di risultati misurabili ha distolto il suo cuore dalla meta più alta che è la carità. Il vescovo di Ajaccio François Bustillo suggerisce che tale distorsione può venire da una formazione per la quale i presbiteri sono stati posti davanti all’obiettivo del successo pastorale o all’incombenza di mantenere strutture: «Durante un certo periodo – riflette – siamo stati (…)  prigionieri della apparecchiatura ecclesiastica, perdendo a volte la nostra libertà e il gusto della vita. Abbiamo generato sacerdoti a volte stanchi e presi nel sistema in cui bisognava mantenere le strutture e continuare a far vivere, con un certo volontarismo, il patrimonio ricevuto». E tuttavia i sacerdoti – puntualizza – «non sono formati per guadagnare gente ma per dare la loro vita».

Può anche succedere che una concezione del ministero imperniata su obiettivi alienanti – e come tale votata all’esperienza dell’insuccesso – favorisca alla fine un ripiegamento del presbitero verso priorità poco significative: il culto dell’immagine, del consenso, dell’esteriorità rituale, l’autoritarismo. Queste estremizzazioni un po’ caricaturali possono anche essere un segnale di ciò che accade quando un presbitero cede alla stanchezza di essere autenticamente se stesso e non riesce più a trovare pienezza nel proprio ministero, finendo per ripiegare in modelli di vita fatui, in surrogati artificiosi. È un rischio effettivo, che porta non di rado a un proliferare di etichette, che dovrebbero identificare certi modelli di postura presbiterale (il prete clericale, narcisista, social, mondano…). Tuttavia, bisogna essere molto cauti verso le categorizzazioni e la corsa alle etichette. In effetti, pur descrivendo situazioni realmente esistenti e un effettivo possibile sintomo di sfiducia/stanchezza verso l’autenticità del presbiterato, questa corsa finisce per amplificare la percezione di quei comportamenti e per esagerare la loro effettiva diffusione, contribuendo a generalizzare e a distorcere l’immagine complessiva dei presbiteri agli occhi del popolo. E anche a ingenerare un’insidiosa perdita di autostima all’interno del presbiterio stesso.

Un secondo genere di stanchezza, tuttavia, è segno di affaticamento operoso e ben vissuto. È una stanchezza confortata da una coscienza serena di aver vissuto la propria fedeltà, il proprio servizio. La stanchezza fisica o mentale di chi sa che ha bisogno di affidare al Signore il lavoro svolto e di riprendere forza. Una stanchezza che può essere quella della sera, ma anche della sera della vita. La ritroviamo soffusamente nell’esame di coscienza fiducioso e sereno, che San Paolo confida a Timoteo: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,7).

Certo, tra il “nero” della stanchezza di un’esistenza vana e il “bianco” della serena coscienza di Paolo al termine della sua corsa, esiste tutta l’indefinibile estensione cromatica di toni e sfumature, tante quante sono le cangianti situazioni umane. Non possiamo pretendere di classificarci in un estremo o nell’altro, ma la consapevolezza degli estremi a volte può far da criterio di discernimento.

Non siamo né superflui né supereroi, questo è certo. Ma come il Signore non vuole servi malvagi e pigri (cfr. Mt 25,26), allo stesso modo non cerca dei protagonisti tuttofare e inossidabili. Piuttosto il suo cuore desidera discepoli che nella loro missione fedele si confidino con lui e ritornino a prendere fiato in lui, come ci viene testimoniato da Marco: «Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: “Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’”. Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare» (Mc 6,30-31).

Proprio questa iconica scena di vita descritta da Marco può essere il nostro criterio ispiratore. La stanchezza provata dagli inviati al rientro dalla loro prima missione e alimentata da ritmi vorticosi di incontri e relazioni sembra ben assorbita dal cuore dei discepoli stessi, sembra accompagnata da una soddisfazione di coscienza, da una risonanza interiore di fiducia. Ma è Gesù stesso che, in modo premuroso, previene il cedimento di chi potrebbe forzare i propri limiti, e chiama i discepoli a riposare un po’, recuperando energie del corpo e dello spirito nella comunione con lui.

Certo, quando la stanchezza fisica e mentale si accompagna alla soddisfazione di aver offerto una giornata faticosa di servizio fedele, quella stessa stanchezza può divenire un segnale di incoraggiamento per lo spirito. Ovviamente, sempre con la dovuta attenzione a non ricadere nella trappola di un mero autocompiacimento. Ricordiamoci sempre della raccomandazione del Signore: «Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”» (Lc 17,10)

 

Stanchezza del fare o dell’essere?

«Non stancatevi di essere misericordiosi»: con spontaneità, l’incoraggiamento del papa poggia sull’essere. Avrebbe potuto raccomandare di non stancarci delle opere della carità pastorale, delle azioni e dei gesti di misericordia, della dedizione nel servizio. Ma tutto questo è generato dall’essere. E la misericordia è una condizione dell’essere, prima che del fare.

E allora l’appello giunge potente, nella sua schiettezza: soprattutto siate misericordiosi, custodite un cuore che accoglie e genera misericordia.

Ricordiamoci che la misericordia, in effetti, ha la sua fonte e la sua sussistenza in Dio. E Dio non solo “usa” misericordia, prima di tutto Egli è il misericordioso. Quando Egli “discende” e si presenta a Mosè, pur custodendo la sua ineffabile trascendenza di gloria, Dio così rivela il suo nome, il suo essere: «Il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui, proclamando: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà…”» (Es 34,5-6). “Misericordioso e pietoso”: queste qualità fanno parte del nome di Dio, e sappiamo bene che nel linguaggio biblico-semitico la manifestazione del nome contiene la rivelazione dell’essenza e la presenza stessa dell’essere.

E qual è la risposta di Mosè a questa ineffabile rivelazione di Dio? Vale la pena ricollocarci brevemente nel contesto della narrazione biblica, perché la questione è rilevante per noi. Mosè era già disceso una prima volta dal monte e aveva sperimentato l’infedeltà idolatrica del suo popolo, che aveva infranto le tavole della legge prima ancora di riceverle. Mosè aveva spezzato quindi delle tavole già moralmente infrante, ed era risalito sul monte portando con sé davanti a Dio il peso della colpa della sua gente. È in quel momento che Dio si rivela come il Misericordioso, «che conserva il suo amore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (34,7). E davanti a questa manifestazione teofanica, la risposta di Mosè può apparire sorprendente: lui, che non era stato coinvolto nell’idolatria degli Israeliti, non si chiama fuori rispetto al suo popolo, ma si presenta a Dio con un “noi” che chiede perdono, un “noi” in cui c’è anche l’io di Mosè.

Commenta argutamente Luciano Manicardi: «Pur avendo molti motivi per lamentarsi del popolo, egli non si de-solidarizza ma anzi si coinvolge con il popolo e parla al noi. Riconosce realisticamente la qualità della sua comunità, comunità dal cuore duro, comunità che non obbedisce, che non comprende, ma non ne prende le distanze, bensì fa corpo con essa: “Fa’ di noi la tua eredità”. Il suo parlare davanti a Dio non è “io contro loro”, ma “io e loro”, “io con loro”, “io che non sono meglio di loro”. Così, il popolo peccatore rivela qualcosa di cui Mosè stesso ha bisogno: sapersi anche lui peccatore. Ma soprattutto egli, come guida del popolo crede: ha piena fiducia che il Signore possa rendere sua eredità, comunità sacramento della sua presenza nel mondo, quella gente riottosa all’ascolto e restia a far fiducia. “Fa’ di noi la tua eredità”: Ecco la grandezza di Mosè, vedere i limiti del popolo, ma vivere la piena solidarietà con il popolo stesso, e credere che proprio quelle persone possono essere il popolo di Dio, il suo possesso prezioso tra le genti. Se a Mosè fosse mancata questa fiducia, che ne sarebbe stato dei figli d’Israele? È essenziale che la guida del popolo creda in Dio, ma anche che creda che quella gente può divenire il popolo di Dio. Credere, in sostanza, contro ogni evidenza».

Se vogliamo comprendere cosa significhi per il presbitero “essere misericordioso”, forse qui troviamo un punto chiave: la misericordia ci solidarizza con la nostra comunità, ci fa essere parte di un noi. Un noi nel quale il presbitero è sì chiamato a portare un peso particolare come Mosè, a farsi guida, ma allo stesso tempo un “noi” nel quale il presbitero sa vedersi nei limiti del popolo e dell’umanità, sa guardarsi non al di fuori di quei limiti, ma pienamente coinvolto in essi. Anzi, i limiti e i peccati dell’umanità divengono il suo esame di coscienza. E al tempo stesso, con il popolo e per il popolo, il presbitero sa chiedere con fede misericordia al Signore, sa e testimonia che Dio è misericordioso, ma anche che il popolo è “capax misericordiae”, è capace di essere amato e di amare, di accogliere e diffondere la sorgente della misericordia divina.

Il senso vivo di appartenenza al popolo permette al presbitero di superare anche quel malinteso senso di misericordia intesa come accettazione (o pretesa) di “fare tutto” e di accentrare tutti i carismi e servizi. Il ministero del presbitero ovviamente è insostituibile, ma non nel senso della quantità di servizi, bensì della specificità, come ben illustra il vescovo Roberto Repole, secondo il quale occorre «una chiarificazione sempre più netta, sul piano teologico come su quello pratico, della limitazione del ministero – e dunque del potere e della responsabilità – del prete alla garanzia del fatto che la comunità cristiana rimanga ancorata alla radice apostolica». È per questo – prosegue – «che il suo servizio per l’esistenza di una comunità cristiana è indispensabile e non è rimpiazzabile da alcun altro ministero. Riconoscerlo e chiarificarlo al meglio è però di aiuto a cogliere che la responsabilità e il potere del prete non sono ad omnia. Molte delle difficoltà prodotte dall’attuale figura del presbitero sono, infatti, dovute all’idea, più o meno implicita, che a lui compete tutto ed egli ha potere su tutto. Ma ciò alla fine si rivela paralizzante e frustrante per chiunque».

È vitale per noi ministri il sentirci parte solidale del popolo, così come in modo specifico ci sentiamo parte del presbiterio. Nello stesso discorso da cui sto prendendo spunto, papa Francesco precisa a tal proposito che l’appartenenza al popolo di Dio è “una strada da percorrere”: «Discepoli missionari si può essere solo insieme. Possiamo vivere bene il ministero sacerdotale solo immersi nel popolo sacerdotale, dal quale anche noi proveniamo. Questa appartenenza al popolo – non sentirci mai separati dal cammino del santo popolo fedele di Dio – ci custodisce, ci sostiene nelle fatiche, ci accompagna nelle ansie pastorali e ci preserva dal rischio di staccarci dalla realtà e di sentirci onnipotenti». Questo distacco dalla realtà – riconosce – «è anche la radice di ogni forma di abuso». E del clericalismo, ovviamente.

Ancora forse portiamo in noi il retaggio di una cultura che ha concentrato la spiritualità presbiterale in un’ascesi individualistica, in uno sforzo solitario di santificazione. In un recente articolo dedicato alla solitudine del prete – un testo un po’ a tinte fosche, forse esageratamente generalizzate, ma ricco di spunti stimolanti di discernimento – lo scrittore de La Civiltà Cattolica Giovanni Cucci, mentre commenta le cause di burnout tra i preti, evidenzia che nella formazione «si è insistito in modo esasperato sull’aiuto ad altri e sul dono di sé, a scapito della cura personale e del creare un clima di comunione e amicizia nel seminario e in seguito con i presbiteri».

Una formazione, poi, che idealizza la singolarità del prete, o potremmo dire la sua “eccezionalità”, contribuisce senz’altro a separare il prete dal popolo e ad accentuare la sua solitudine, non solo spirituale, ma anche relazionale. «Ha pesato e pesa tuttora molto, anche sui preti giovani – anzi, per loro è perfino accentuata – quella inveterata abitudine per cui il prete è considerato una persona “diversa”, con qualcosa in più di irraggiungibile, perché è una persona sacra» (Severino Dianich).

In questo elogio della singolarità del presbitero, anche la misericordia presbiterale (sintomaticamente ristretta al concetto di carità “pastorale”) è stata concepita come un’azione unidirezionale, un travaso di grazia sacramentale, di parola e di opere da trasmettere al popolo, magari in senso volontaristico; ma più difficile rimane considerare la misericordia come la virtù di un essere che ama e si dona partecipando della stessa condizione di coloro che sono amati, e che per questo, mentre dona se stesso, sa anche lasciarsi “misericordiare” (come simpaticamente dice a volte papa Francesco). Senza trascurare che una concezione tutta unilaterale della misericordia potrebbe essere un rivestimento che cela autoritarismo (e clericalismo): «L’autorevolezza, radicata e fondata nella com-passione, si esprime nell’accoglienza rispettosa e discreta del mistero impenetrabile dell’altro; l’autoritarismo è un atteggiamento che genera il movimento contrario, per cui chi s’impone invade, non accoglie» (Amedeo Cencini). Invadere, non è mai segno di misericordia. Accogliere, significa stabilire relazioni feconde di servizio da offrire e di sostegno da ricevere.

Tornando al tema della stanchezza, è evidente quindi che una concezione “solitudinaria” del presbitero – mi si passi il termine – non può che accentuare il senso di fatica del fare e dell’agire, in particolare quando le azioni pastorali, espressione di un ministero non abituato alla comunione e alla sinergia, sfociano in difficoltà o fallimenti che si ripiegano tutti sulla singola persona del prete, e non possono essere compartecipati con altri. La stanchezza del fare, alla fine, rischia di divenire radicale, strutturale, una sorta di stanchezza dell’essere, che si ripercuote, cioè, su tutta l’autocomprensione del presbitero come figura individualistica.

Si tratta di una deriva inevitabile? No di certo.

 

L’antidoto alla stanchezza è la misericordia

“Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia” (μακάριοι οἱ ἐλεήμονες, ὅτι αὐτοὶ ἐλεηθήσονται). La quinta beatitudine del vangelo di Matteo è posta in una forma simmetrica, riflessiva. «In questa beatitudine c’è una particolarità: è l’unica in cui la causa e il frutto della felicità coincidono, la misericordia. Coloro che esercitano la misericordia troveranno misericordia, saranno “misericordiati”» (papa Francesco).

Sembra che il testo voglia esprimere una relazionalità circolare. La prospettiva di trovare misericordia è già insita nella condizione esistenziale di chi è misericordioso, perché la misericordia è già causa di gioia in se stessa e, a sua volta, è disponibilità, apertura al “circolo della misericordia” che scaturisce dal cuore di Dio e si estende in Cristo a tutte le creature. La misericordia apre le porte della compassione in uscita e in entrata, ed è questa relazione dinamica che fa vibrare il cuore e la coscienza, rendendo beati, felici. «La misericordia suscita gioia – sottolineava papa Francesco nella lettera Misericordia et misera – perché il cuore si apre alla speranza di una vita nuova. La gioia del perdono è indicibile, ma traspare in noi ogni volta che ne facciamo esperienza. All’origine di essa c’è l’amore con cui Dio ci viene incontro, spezzando il cerchio di egoismo che ci avvolge, per renderci a nostra volta strumenti di misericordia».

Senza volermi addentrare nel commento alla beatitudine della misericordia, mi basta questo spunto per ritornare all’invito che stiamo commentando: «Non stancatevi di essere misericordiosi». Siamo ad un punto chiave: quando la misericordia si radica nell’essere, apre alla beatitudine, e quindi non stanca. Anzi, di più: consola, ritempra, risana, dona letizia. Se la misericordia fosse identificata da singoli sforzi da compiere, allora essa consumerebbe energie psico-fisiche e spirituali, da rinvenire di nuovo in impossibili risorse umane. Ma se la misericordia è un modo di essere, è una qualità del cuore, allora essa è vero antidoto alla stanchezza, è vero balsamo dell’anima.

Fratelli, è chiaro che sarebbe troppo semplice proporre questo ideale come opzione immediatamente disponibile per noi. Sarebbe anzi presuntuoso e abbastanza pelagiano, poter pensare che basti la nostra determinazione per cominciare ad “essere” misericordiosi. Ma vorrei soltanto considerare che troppo spesso le nostre analisi si smarriscono nel senso di impotenza, davanti alle crisi di un mondo che si allontana e alle tante manifestazioni della nostra inadeguatezza. E che troppo spesso vorremmo rispondere con rinnovate strategie, che alla fine, rivelandosi limitate, aumentano quel senso di impotenza. E di stanchezza, appunto. Invece forse abbiamo bisogno di un po’  più di accettazione dei nostri limiti e di rispetto per un mondo che prende la sua strada. A condizione però di amare. Di sentire amore per questo mondo, per questo popolo di cui facciamo parte. Sentire l’amore del nostro Signore Gesù, per noi e per il mondo. Non importa se e quante crisi riusciamo a risolvere, quante stanchezze riusciamo a recuperare, quanti frutti riusciamo a portare. La misericordia è la risposta. La misericordia è la speranza. La misericordia è la freschezza della nostra vita.

Auguri, fratelli cari. Buon Giovedì Santo. Mentre nel profetico rito della lavanda dei piedi cingiamo il grembiule di Gesù, chiediamogli con fede e preghiamo gli uni per gli altri: Maestro nostro, aiutaci a non stancarci di essere misericordiosi.

28 marzo 2024
messa crismale

+ Francesco Savino