17 Aprile 2025

Lettera ai presbiteri di S.E. Mons. Francesco Savino

Ripartire con semplicità dall’Eucaristia, nostra speranza

 

Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele…

Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto…

 

Miei cari fratelli presbiteri,

chiedo al Signore la grazia di potervi rivolgere alcuni pensieri davvero semplici, ma che corrispondano a un bisogno sincero e profondo del nostro cuore, a cui Egli solo sa dare ascolto, comprensione e speranza. Quando dico “nostro cuore”, voglio intendere il cuore di ciascun presbitero, certo, ma anche il cuore di tutto il presbiterio inteso come unico corpo.

MI riferisco al bisogno profondo, che ci accomuna come presbiteri, di ritrovare ogni giorno la verità del nostro essere dalla fonte dell’Eucaristia, da cui sola può scaturire la sincerità del nostro spirito, l’autenticità del nostro vivere nella carità, la forza della nostra comunione in Cristo, tra di noi e con il mondo.

Non vi appaia semplicemente “dovuto” questo mio riferimento all’Eucaristia, considerato che vi scrivo nell’occasione di grazia del Giovedì Santo. Non voglio proporvi riflessioni dettate da schemi protocollari o tratte da repertori per noi già troppo consueti. E per evitare questo rischio, comincio con il lasciarmi interpellare da uno spunto che giunge a noi, in modo schietto e privo di retorica, da un ragazzo quindicenne. Il suo amore intuitivo e profondo per l’Eucaristia è un segno potente della Grazia di Dio che interpella primariamente noi presbiteri, affinché il nostro rapporto con il sacramento dell’altare sia sempre rinnovato e offerto al popolo con freschezza e gratitudine. Quel ragazzo quindicenne è Carlo Acutis.

 

Carlo Acutis e Teresa di Lisieux. Quando l’esempio dei semplici ci riconduce all’amore per l’Eucaristia

Come sapete, Carlo sarà proclamato santo nella prossima Domenica della Divina misericordia. La sua canonizzazione non significa che il vivace impatto della sua originalità venga in qualche modo regolato dai “canoni” di una certa ufficialità, che potrebbe assorbire e teologizzare i suoi linguaggi. La testimonianza di Carlo resta genuina e diretta, come solo un ragazzo della sua età sa essere.

Ebbene, le esperienze e le riflessioni che Carlo ci ha testimoniato nel suo intenso rapporto con l’Eucaristia giungono al nostro cuore sacerdotale come un soffio di aria pura, come un chiarore che splende innocente, così sottile da filtrare nello specchio della nostra coscienza e fare luce tra la polvere che può accumularsi nel nostro spirito e appesantire i nostri sentimenti.

Confrontarci con l’animo semplice di un giovanissimo conquistato dall’Eucaristia ci può fare davvero tanto bene. Ci può fare ritrovare giovinezza di spirito e calore di carità. Può anche turbare, scuotendo i nostri animi quando si lasciano andare nell’abitudine e nella tiepidezza. Carlo era capace di questo, lasciamo che ora parli anche a noi, vi riprendo alcune sue espressioni, da cui possiamo lasciarci guidare per riflettere insieme.

Il suo rapporto con l’Eucaristia rivela una spontaneità e un’immediatezza feconda che rivelano senza dubbio una forte azione della Grazia di Dio in lui. I suoi pensieri uniscono una sapienza pervasiva a una semplicità illuminante, con la forza di orientare la vita fin dai suoi primi passi. Carlo è quel bambino che già all’età di sette anni, nel fare la sua prima Comunione, dichiara con una chiarezza disarmante: «Essere sempre unito a Gesù, questo è il mio progetto di vita». E nel portare avanti questo programma, Carlo «non si sentiva assolutamente migliore di nessuno». Anzi – testimonia la madre – «si considerava un ragazzo come tanti altri che tuttavia, a differenza di altri, aveva scoperto che il segreto di una vita felice stava tutto nell’abbandono a Gesù, nell’incontro con Lui nell’Eucaristia, nel mettere Dio al primo posto nella nostra vita». Da quel momento, tutta la sua vita sarà impostata a partire dall’incontro quotidiano con la messa e l’adorazione eucaristica, senza minimamente rifuggire da tutte le più normali e dinamiche attività tipiche della sua età, di cui era protagonista in modo estroverso, coinvolgente, fruttuoso. Nell’Eucaristia, Gesù si dona a noi come “puro Amore”, diceva. Aveva scoperto questo amore, e si era lasciato conquistare.

E da quell’amore nascevano delle intuizioni che, con semplicità assoluta, riuscivano a trasmettere tutta una spiritualità coinvolgente, perché da lui quelle parole scaturivano vive, cariche di spirito, efficaci: «L’eucaristia è la mia autostrada verso il cielo»… «Di fronte al sole ci si abbronza, ma di fronte a Gesù Eucaristia si diventa santi»… «La luce che l’Eucaristia sprigiona ci permette di vedere tutta quella polvere che inquina la nostra anima». Noi che siamo abituati a «discorsi persuasivi di sapienza» potremmo considerare queste frasi con una bonaria ed evoluta sufficienza. Eppure, questa semplicità è potente e disarmante. Perché frasi così semplici le puoi dire solo se ne possiedi lo spirito, perché è proprio lo Spirito che le rende efficaci e spiazzanti. E Carlo quello spirito lo trasmetteva.

Con la stessa semplicità, Carlo aveva capito che «attraverso l’Eucaristia verremo trasformati nell’Amore». Si spingeva a spiegare, usando l’analogia forse senza saperlo, che «Così come il pane e il vino dopo la consacrazione, per la potenza dello Spirito Santo diventano il Corpo e il Sangue di Gesù, così anche noi verremo “transustanziati” in Cristo». E questa trasformazione in amore non era per Carlo un concetto da spiegare, ma era vita concreta. Dall’Eucaristia nasceva il suo sorprendente e creativo amore per gli ultimi e i bisognosi, specialmente per i poveri, per i compagni emarginati, per le persone ignare dell’amore del Padre e per le anime del Purgatorio. Possiamo dire che Carlo ci ha mostrato come l’Eucaristia diventa vita nell’esistenza di chi la ama. Ci ha mostrato come l’Eucaristia, divenuta vita, porta speranza negli ambienti vissuti da chi la ama. Ci ha mostrato come l’Eucaristia, amata e vissuta, fa uscire dall’indifferenza e dal grigiore che – dobbiamo riconoscerlo – possono avvolgere il cuore di chi la celebra e di chi la accoglie.

Il padre spirituale di Carlo Acutis testimonia a tal proposito qualcosa che ci interpella tutti come presbiteri. Parlando della grande devozione che il ragazzo nutriva per l’Eucaristia e per i sacerdoti, attesta: «Carlo era particolarmente sensibile nel capire se i sacerdoti celebravano la Messa in modo devoto e quando si accorgeva che erano poco immedesimati nella Celebrazione Eucaristica si rattristava; più di una volta mi ha detto “che essendo i sacerdoti le mani tese d Cristo, il Signore lo devono testimoniare con entusiasmo e loro stessi debbono essere modelli luminosi e non ripetitori automatici di un rito liturgico in cui non mettono il proprio cuore e da cui non traspare la propria fede in Dio”». Si percepisce che queste parole scaturivano dal profondo dell’anima di una persona che si sentiva pienamente coinvolta nel mistero eucaristico e ne parlava dal di dentro, partecipe e responsabile in prima persona. Mentre colgono alcune ombre nel ministero sacerdotale, le sue parole non sono indice di malumore, quanto piuttosto di premura, di sensibilità, di compartecipazione. Sono parole dette da chi vede il mondo e la Chiesa con gli occhi di Cristo e la luce dello Spirito, e per questo soffre quando il dono di Cristo è trascurato e gioisce quando è accolto e amato.

Gli occhi e il cuore di questo ragazzo di oggi ci sono offerti come uno specchio nel quale noi presbiteri possiamo guardarci dentro, con gratitudine e attenzione, a cominciare proprio dalla coscienza del nostro rapporto con l’Eucaristia. Sapere che lo Spirito di Dio permette a persone sincere di cogliere qualcosa di vero all’interno del nostro spirito sacerdotale, questo può farci bene. Non si tratta di regolare i nostri comportamenti al pensiero che altri ci stanno osservando, in modo da conformarci esteriormente alle loro attese, perché questo atteggiamento sarebbe ipocrita. Ma si tratta di considerare che il nostro cuore in qualche modo è visibile. Può far trasparire luce, spirito di servizio e di carità, sincerità, oppure può rivelare tiepidezza e distacco. E allora, anche la visibilità del nostro cuore, può diventare uno stimolo, in modo da guardarci dentro con coraggio e lealtà, e accogliere anche quel sano e rinnovato entusiasmo che ci può venire dalle anime semplici.

Lo sguardo di Carlo Acutis richiama alla memoria altri giovani cuori che hanno potuto offrire a noi presbiteri un chiarore limpido per osservarci dentro. Santa Teresina di Lisieux ci ha lasciato un suo delicato ricordo che ci riguarda. Ripensa al suo viaggio in Italia, nel quale aveva avuto per la prima volta l’occasione di frequentare dei sacerdoti fuori dal contesto sacro, nel loro comportamento quotidiano. Rammenta, che prima di quel momento, capiva bene l’importanza di pregare per i peccatori, ma non riusciva a comprendere il bisogno di pregare per le anime dei sacerdoti, che ella con innocenza considerava «più pure del cristallo». Ebbene, durante quel viaggio Teresa vide che «essi sono tuttavia uomini deboli e fragili…» E osservava: «Se dei santi preti che Gesù chiama nel Vangelo “il sale della terra” mostrano nella loro condotta che hanno un grande bisogno di preghiere, che dobbiamo dire dei tiepidi? Gesù non ha detto anche: “Se il sale diviene scipito, con che cosa lo rafforzeremo?”». Sono pensieri che fanno trasparire delicatezza e rispetto, ma che hanno anche la forza di metterci in questione.

Cari fratelli, ho voluto prendere spunto dalle osservazioni di questi due giovani luminosi, non per suggerire di impostare il nostro comportamento sul criterio di misura di chi ci osserva. È scontato ricordare che la luce che ci permette un sano discernimento interiore viene dalla Parola del Signore. Ma è proprio la luce del Signore che a volte si serve degli sguardi schietti e innocenti di chi ci osserva con carità e verità, per capovolgere a volte i nostri criteri di giudizio impostati su modelli troppo compromessi con gli standard della sapienza e della potenza dell’uomo.

Pensiamoci sinceramente nella vita delle nostre comunità: quante volte ci può capitare di regolare la nostra parola e i nostri atteggiamenti sulla misura e sulle attese di chi è umanamente più “grande”? Adeguare la nostra capacità di relazionarci con il mondo delle professioni, della politica, dell’economia, della cultura, finendo in qualche modo per regolare l’apparire più che l’interiorità? È ovvio che siamo chiamati ad abitare tutti i luoghi del vivere umano, per essere ovunque presenza di Cristo buon Pastore, ed è anche ovvio che al presbitero è richiesto, per quanto possibile, un grado di competenza umana e culturale più che adeguato alla dignità del suo ministero. Tutto questo non è in discussione, ma ciò a cui ora mi riferisco è il discernimento sulla nostra interiorità. E da questo punto di vista, proprio l’esempio dei semplici e dei piccoli è per noi uno strumento limpido della luce dello Spirito, quello che può penetrare il nostro animo in modo disarmante e irresistibile.

Credo che questi semplici esempi ci rafforzino in una certezza che magari possediamo, ma da cui non sempre riusciamo a farci guidare liberamente: che cioè, come presbiteri, quand’anche fossimo dotati di nobile scienza, consolidata esperienza, riconosciuta autorevolezza, efficace sagacia pastorale, ma tutte queste qualità non fossero vivificate dalla carità alimentata da una forte e semplice spiritualità eucaristica, saremmo «come  bronzo che rimbomba o come cembalo che strepita» (cf 1Cor 13,1).

Questa sera, cari fratelli, riuniti nella celebrazione della messa crismale, che più di tutte rappresenta la bellezza e la forza della nostra comunione in Cristo, noi tutti siamo messi davanti a una scelta, da rinnovare, ma come se la accogliessimo per la prima volta: chiediamo al Signore la grazia di poter ripartire oggi nel nostro sacerdozio e nel nostro presbiterio, come se fosse il nostro primo giorno. Come se ricevessimo l’eucaristia per la prima volta, per dire con il cuore, come il giovane Carlo: «Essere sempre unito a Gesù, questo è il mio progetto di vita presbiterale». Come se avvenisse oggi la nostra ordinazione presbiterale, per tornare a guardarci dentro davanti al Signore, e con umiltà dirgli: «Signore, nonostante le mie fragilità, le mie tiepidezze, le mie infedeltà, la Grazia che tu mi dai è più forte di tutto: anche se tornassi indietro, con il tuo aiuto, ti direi di nuovo e sempre il mio sì. Aiutami da oggi a offrirti senza riserve tutto quello che sono». Come se oggi ci ritrovassimo alla prima volta in cui abbiamo celebrato l’Eucaristia, per dirgli: «Signore, perdona ogni volta in cui ho accolto il tuo corpo e il tuo sangue tra le mie mani, ma il mio animo è rimasto freddo, non coinvolto, distratto; infondi in me un incolmabile desiderio di vivere la piena unione con la tua volontà e di mettermi umilmente al tuo servizio per amore tuo e dei miei fratelli e sorelle».

Ripartiamo da questa Eucaristia di oggi, fratelli cari. Questa Eucaristia è la nostra speranza. L’Eucaristia è la speranza del mondo. Come avvenne per i discepoli di Emmaus: nello spezzare il pane, quella sera Gesù diede loro la grazia di ricominciare, e fu per loro l’alba di una vita nuova.

 

I discepoli di Emmaus. Quando dall’Eucaristia riparte la nostra speranza

Vi suggerisco adesso di ripensare a quella vicenda, che il Vangelo di Luca ci offre con tanta delicatezza, come se pensasse proprio a noi e a tutti i discepoli che, lungo i secoli e in tanti angoli della terra, avrebbero sperimentato sfiducia e disillusione, con il bisogno di ritrovare speranza e fuoco di carità. Mettiamoci nei panni di quei due discepoli, consideriamo la loro esperienza come paradigma di tante nostre situazioni.

Quei due discepoli fanno parte di coloro che sono stati particolarmente vicini a Gesù, mostrano un senso di appartenenza e di identità di gruppo. È un’identità però messa in crisi dallo sconvolgimento provocato dalla morte di Gesù, che ha destabilizzato le loro attese e il loro modo di comprendere se stessi: «Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele». La speranza che li aveva animati ora è coniugata al passato, triste segno di una vita che sembra aver perduto il suo senso e la sua meta. E questo ripiegamento della speranza è simboleggiato plasticamente dal senso retrogrado del loro cammino: lasciano alle loro spalle Gerusalemme, la comunità dei discepoli, la stessa vicenda di Gesù, e neanche le voci sconvolgenti delle donne che parlano di risurrezione riescono a trattenerli. Di fatto, il loro cammino va nella direzione sbagliata. Non è un’uscita, ma una fuoriuscita. È una rinuncia, una caduta dalla fede, un cedimento alla frustrazione e alla fragilità. Quei discepoli hanno smesso di sperare nel Cristo e il loro ripiegamento geografico verso Emmaus sembra l’immagine del loro ripiegamento spirituale verso speranze banali, che non hanno più bisogno di Dio e dei fratelli.

Il ripiegamento nella banalità e nell’individualismo è un male a cui noi possiamo essere facilmente esposti. Don Domenico Marrone mette in guardia i presbiteri da due atteggiamenti, che sorgono da un cuore che non sa più sperare davvero: la evagatio mentis e la riduzione del desiderio. L’evagatio mentis, o distrazione, è «intesa come quel ritirarsi in una mediocre apatia, lasciandosi trascinare da sentimenti banali o assorbiti dalle chiacchiere quotidiane». Questa tendenza «ci porta ad accettare (pur consapevoli che non troveremo soddisfazione duratura) di cercare piccole gratificazioni, accumulandole una dopo l’altra alla fine della giornata, o nel tempo libero, come una forma di distrazione». La riduzione del desiderio è quella perdita di speranza che fa smettere di aspirare a mete alte, quelle che Dio ci affida, e richiude le proprie aspettative negli obiettivi che ci si dà da soli con le proprie sole forze, nelle ambizioni terrene di affermazione personale che non possono dissetare il nostro spirito. Questi atteggiamenti non sono però invincibili. A condizione di ritornare a volgere il nostro desiderio verso il Signore che si affianca a noi. Così come accade ai discepoli di Emmaus.

Per quei due discepoli che hanno soffocato la speranza, la sorpresa viene dal Risorto che si affianca a loro. Non solo si affianca, ma cammina con loro. Sì, il Risorto, il Vincitore, accetta di camminare con loro nella direzione sbagliata. Non si pone di traverso, non cerca di fermarli e di riportarli nella giusta direzione. Li accompagna. E li ascolta. Lascia che dal loro cuore esca lo sfogo del loro racconto, della loro delusione, della loro incapacità di credere, delle fratture nella comunione con gli altri. In fondo quei due discepoli raccontano al loro compagno di viaggio la loro crisi interiore e trovano in lui qualcuno capace di sostenere i loro sfoghi.

Quando camminiamo nella direzione sbagliata, non per questo il Signore rimane indietro o lontano da noi. Ma anche noi stessi siamo chiamati a camminare con coloro che prendono direzioni contrarie alla comunità della Chiesa e alla sua fede in Cristo. Camminando a nostro fianco, il Signore sa trovare il momento per invitarci di nuovo a sé; e anche noi, camminando a fianco di chi si allontana dalla fede o se ne rende estraneo, possiamo metterci in ascolto delle delusioni o degli sfoghi di quanti sembrano percorrere tutte altre vie rispetto alle nostre. Commenta padre Timothy Radcliff, da poco creato cardinale: «La principale testimonianza della nostra fede, soprattutto come predicatori, è impegnarci in una conversazione. Qualcuno obietterà che prima di tutto dobbiamo proclamare la nostra fede, altrimenti cadremo nel relativismo. Ma la conversazione è l’unico modo per annunciare Gesù, che è il dialogo della Parola di Dio con l’umanità. Qualsiasi altro modo rischia di cadere nell’ideologia. L’intero Vangelo di Giovanni è una conversazione dopo l’altra. Quindi, al centro della vocazione del sacerdote c’è l’arte della conversazione. Dovrebbe essere qualcuno a cui piace parlare con altre persone, soprattutto se non sono d’accordo con lui. Ha bisogno di fiducia per parlare e di umiltà per ascoltare. Questo è particolarmente difficile nella nostra società che sta perdendo l’arte di interagire con persone che pensano in modo diverso. Gli algoritmi di Google e Facebook ci guidano verso persone che la pensano come noi. La società occidentale sta diventando tribalizzata. Viviamo in camere con l’eco di persone che la pensano allo stesso modo. Le migliori conversazioni abbracciano e si dilettano invece della differenza».

Tornando ai discepoli di Emmaus, non ci può sfuggire il modo in cui Gesù Risorto riaccende in loro la speranza. Il suo camminare con loro, il suo conversare, lo mettono in grado di spiegare loro le Scritture partendo dalla loro stessa esperienza. La Parola che incontra il cammino degli uomini, che va incontro alle loro disillusioni e ai loro vuoti, è Parola che fa ardere il cuore, che ridona il desiderio di cercare, di esserci, di impegnarsi, di guardare alla meta.

E soprattutto, il momento della svolta, il segno che rimette i discepoli nella giusta direzione e con un animo finalmente conquistato dall’amore è lo spezzare il pane. Sì, quello è il momento in cui i due discepoli sfiduciati ritrovano la speranza. Quel gesto, che Luca ci fa capire come segno tipicamente eucaristico, è il segno della speranza.

Ma già al momento stesso dell’ultima cena, Gesù aveva istituito il dono dell’Eucaristia in un contesto in cui tutto sembrava volgersi contro la speranza. L’imminenza della croce, il tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro, l’incomprensione dei discepoli, l’angoscia, la notte: tutto sembrava dire buio, fine, fallimento. E invece, quello era il momento dell’amore fino alla fine, quello era l’evento da cui la storia ripartiva.

Il pane spezzato da Gesù ridava ai discepoli di Emmaus la speranza della vittoria sulla morte, di un annuncio da diffondere subito e con gioia, di un amore da far conoscere a tutti. L’Eucaristia è anche per noi il dono della speranza che rinnoviamo ogni giorno. E ci rimette in cammino.

Fratelli, chiediamo al Signore la grazia di ritrovarci oggi, insieme, davanti all’Eucaristia per riconoscere in Essa la fonte della nostra speranza che si rinnova. Riconoscerla con umiltà, con le lacrime del cuore, con il tremore commosso di uno spirito che riprende vita, con la gratitudine inesprimibile davanti a Colui che ha compassione di noi e non si volta mai indietro.

Facciamo in modo che da questa Eucaristia, da ogni Eucaristia, rinasca ogni giorno il nostro sacerdozio, la nostra comunione vicendevole, la gioia di servire i fratelli e le sorelle, il desiderio di accompagnarli con la pazienza e la carità di Cristo, l’ardente speranza di camminare insieme verso la Pasqua eterna.

La nostra speranza non finisce. Tu, Signore, sei la nostra speranza!