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Assemblea diocesana, la relazione dell’Arcivescovo di Modena Erio Castellucci


Diocesi di Cassano allo Ionio – Assemblea diocesana

Giovani e Chiesa tra ricerca di senso, desiderio di Dio e generazione alla fede

Castrovillari, 15 settembre 2018

L’instrumentum laboris uscito nel maggio scorso in vista del prossimo Sinodo, “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”, rappresenta una mappa articolata e complessa per orientarsi nell’universo giovanile odierno. Suppongo la sua lettura e mi fermo, senza preoccupazioni di completezza, su alcuni aspetti che mi sembrano particolarmente importanti nella relazione tra Chiesa e giovani. 

Scelgo una sola “icona” evangelica per sviluppare alcune riflessioni e per non rischiare di disperdermi in tanti riferimenti: l’episodio di Zaccheo. Ne colgo tre aspetti, attorno ad altrettante immagini: la strada, l’albero e la casa.

Luca 19,1-10. “1Entrò nella città di Gerico e la stava attraversando, 2quand’ecco un uomo, di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, 3cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. 4Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. 5Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua. 6Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. 7Vedendo ciò, tutti mormoravano: È entrato in casa di un peccatore!. 8Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto. 9Gesù gli rispose: Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. 10Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”. Seguirò tre immagini, ispirate al racconto evangelico: la strada, l’albero, la casa.

La strada: educazione come cammino verso la meta.

La scena di Zaccheo è piena di verbi di movimento, a partire da quello di Gesù: entrò a Gerico e la stava attraversando. La strada è l’aula scolastica di Gesù: “Vieni e seguimi”, non “vieni e siediti”. Tante volte Gesù è colto nell’atto di camminare lungo la strada. L’idea del cammino è centrale nei Vangeli; sembra quasi, a volte, che Gesù ritenga più importante il cammino rispetto alla meta. Per noi, credo, è il contrario: a noi piacerebbe raggiungere subito il traguardo, nel quale puntiamo, e ci pesa il percorso, che a volte sopportiamo. Noi spesso amiamo la meta e temiamo il cammino; Gesù ci chiede di amare anche il cammino. Se la gioia è solo nel traguardo, è rara e dura poco; se riusciamo a collocare la gioia anche nel cammino, è costante. La gioia non deve essere solo nella partita, ma anche nell’allenamento; non deve essere solo nel saggio musicale o nella rappresentazione teatrale, ma anche nelle prove. È importante accompagnare nel cammino, “fianco a fianco”. Non stare seduti alla meta ma camminare-con i giovani è la condizione fondamentale per educare alla fede. Il tempo è superiore allo spazio (EG 222-225); il percorso è più importante del traguardo.

La scuola di Gesù non è statica, non è fatta di banchi e di lavagne, nemmeno elettroniche; non è fatta di campanelle e di libri. È fatta di esperienze, di idee che nascono dalla realtà. Papa Francesco ha detto più volte che l’esperienza viene prima del concetto, la realtà è più importante dell’idea (cf. EG 231-233). Per questo Gesù non dice semplicemente ai discepoli: “imparate a memoria”, “studiate”, ma dice: “seguitemi”. I discepoli impareranno anche a riflettere ed elaborare dei concetti, ma saranno idee maturate nell’esperienza con Gesù, non maturate alla scrivania. La fede non è prima di tutto una serie di affermazioni – ci sono anche quelle, basta pensare al “Credo” – ma è prima di tutto un’esperienza di accompagnamento, dalla quale emergono anche delle riflessioni. Le idee più vere nascono da un’esperienza vissuta insieme; altrimenti rischiamo che le nostre idee siano troppo lontane e astratte.

È il tocco dell’esperienza che rende più vera l’idea. Gesù abita con i discepoli, fa vita comune con loro. Usa tutte le immagini prese dall’esperienza quotidiana. Camminando educa. Spesso le confidenze più intime i ragazzi le fanno quando cammini al loro fianco. Quando andavo in route di strada con gli scout qualche volta, insieme ai Capi, mi spendevo nel motivare il significato del sentiero. Sul piede di partenza, dovendo iniziare un cammino di ore magari in buona parte in salita, di solito impostavo così la mia esortazione: vedete quella cima? Non è la stessa cosa raggiungerla a piedi, sudando e faticando, o arrivarci in seggiovia freschi e riposati. Se ce la sudiamo, sarà nostra, la gusteremo di più. Non li ho mai convinti, ma credo sia proprio così.

L’educatore non fa l’errore di sedersi alla meta, indicando dall’alto al giovane quali passi compiere, come evitare di finire fuori strada, come rialzarsi; no: l’educatore cammina a fianco dei ragazzi, tiene il loro passo, li incoraggia e li aiuta a leggere il senso del cammino, valorizzando anche la fatica. E raccontando anche la sua fatica. È un atto educativo anche la comunicazione delle proprie difficoltà, dei propri fallimenti e dubbi, purché sempre in chiave positiva, di tensione verso la meta. I ragazzi hanno bisogno di sentire che i loro educatori non sono dei supereroi, ma donne e uomini che credono nella meta, nel Vangelo di Gesù, e pur faticando cercano di raggiungerla. In qualche esperienza giovanile si è diffusa una pratica molto interessante: ciascuno, ad un certo punto, sceglie la figura di un santo e legge la sua vita, raccontandola poi agli altri e spiegando perché l’ha scelto. Così i ragazzi imparano a smantellare il piedistallo su cui in genere si colloca il santo e magari anche a togliere l’aureola; imparano che è uno come loro, che ha fatto le sue fatiche nel sentiero, ma l’ha percorso con fedeltà ed è arrivato alla meta. E soprattutto allargano la loro idea di comunità, perché fanno un’esperienza intergenerazionale, evitando l’appiattimento sull’oggi e scoprendo, da questo punto di vista, che la Chiesa ha una bella “tradizione”.

Sarebbe molto facile adottare con i giovani una pastorale degli scacchi: bianco o nero, giusto o sbagliato, regolare o irregolare. È la pastorale statica, che risponde alla categoria dello spazio, dove la preoccupazione è di collocare, classificare, giudicare. Questa pastorale, che si sostiene solo sulle regole e sui divieti, non tiene più, se pure avesse mai tenuto. Papa Francesco, in EG 222-225, ricorda che il tempo è superiore allo spazio. Non dunque gli scacchi, ma semmai il gioco dell’Oca, capostipite dei giochi di percorso, è la metafora della pastorale dinamica, che risponde alla categoria del tempo, che mette in cammino le persone. I giovani non devono essere classificati ma accolti e accompagnati.

Il cammino che Gesù propone, però, ha comunque un traguardo. Lui non dice ai discepoli: “gironzolate”, “vagate”, ma dice: “seguitemi”. Gesù non fa le vasche, ma attraversa le città (come nell’episodio di Zaccheo) e i villaggi con una meta. C’è un pro-getto, non un girare a zonzo. Il testimone della fede è colui che percorre la strada verso la meta. È un con-duttore, non un se-duttore. No quindi, possibilmente, alla catechesi “da tavolo”.

L’albero: educazione come incrocio di sguardi.

Zaccheo sul sicomoro guarda in basso, Gesù da sotto “alzò lo sguardo”; la folla “vedendo ciò” mormorava. L’educazione incrocia tre sguardi. Lo sguardo di Zaccheo è di curiosità e attesa. Zaccheo ha senz’altro sentito parlare delle frequentazioni di Gesù con i peccatori e i pubblicani e, saputo che Gesù passava di là, deve essersi incuriosito: chi sarà questo maestro così strano da mettersi in rotta con i giusti, i farisei e i sacerdoti, e interessarsi dei peccatori? Non sempre nei ragazzi c’è la domanda esplicita; spesso va suscitata.

Ormai mezzo secolo fa, quando mi preparavo con i miei coetanei alla prima comunione studiando il catechismo per i fanciulli di San Pio X, strutturato in domande e risposte, per quanto posso ricordare non coltivavo particolari interessi per la filosofia e la metafisica. Eppure tra le prime domande del catechismo, alle quali davamo una risposta imparata a memoria, ce n’era una molto impegnativa – “Chi è Dio?” – che richiedeva questa risposta: “Dio è l’Essere perfettissimo, Creatore e Signore del cielo e della terra”. A otto anni non sapevamo bene cosa fosse un Essere perfettissimo, ma rispondevamo comunque esattamente. Forse ci avrebbe aiutato di più l’idea familiare di Dio come Padre, così come lo definiva Gesù, piuttosto che quella filosofica di Dio come Essere supremo.

Mi sembra che a volte corriamo effettivamente il rischio di confezionare bene le risposte, senza però riuscire ad intercettare e interpretare le domande. Ci concentriamo sul ruolo di maestri ma non ci mettiamo prima nei passi dei discepoli.  Credo che vada oggi evitato di dare facili risposte senza avere ascoltato a fondo le domande. Lo schema che vuole l’uomo di oggi infelice e disperato, al quale il cristiano va incontro con la sua speranza donandogli finalmente la felicità, è molto poetico ma è spesso contraddetto dall’esperienza. Forse uno dei problemi pastorali fondamentali, nella trasmissione della fede, sta proprio in questa sfasatura tra domanda e risposta. Noi elaboriamo risposte anche molto approfondite ed argomentate, ma senza talvolta  tenere conto della domanda; così la nostra argomentazione è perfetta, da manuale, ma non produce molto. Il fatto è che tante persone, pur dichiarandosi lontane dalla fede e dalla Chiesa, non avvertono infelicità né tanto meno disperazione. A volte la domanda è mimetizzata dentro a un sicomoro.

Lo sguardo di Gesù cerca quello di Zaccheo. Gesù si ferma. Lo sguardo di Gesù è tale da trovare in ciascuno, anche nelle persone più disprezzate, qualcosa di buono: è uno sguardo che si volge in alto – “quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo” – e non si ferma a guardare nei bassifondi dell’anima; è uno sguardo sul presente – “oggi devo fermarmi a casa tua” – e non si ferma a rimestare sugli errori del passato. Lo sguardo del Signore è come i raggi x, è capace di vedere molto più in profondità di ciò che appare in superficie, è in grado di trovare un punto di aggancio anche là dove un’anima sembra una parete liscia. Lo sguardo di Gesù cerca l’incontro, non è mai imbarazzato. Il suo sguardo arriva sempre prima su di noi; si appoggia su di noi anche quando siamo peccatori e ci riteniamo troppo lontani da lui. Usando una sinestesia (figura retorica che accosta due termini appartenenti a due piani sensoriali diversi): uno sguardo, quello di Gesù, che ascolta. Ci vuole più spesso l’albero, l’occasione di fermarsi, incrociare gli sguardi, ascoltare. Il tempo dell’ascolto dei giovani sembra a volte tempo perso, ma è un tempo terapeutico: “io potrei fare altre cose, ma ora tu sei più importante di tutto”.

Nella favola contemporanea di Michael Ende “Momo”, pubblicata nel 1973, trasformata in film nel 1986 e in lungometraggio a cartoni animati nel 2001, c’è la scena del canarino che non vuole più cantare. In una città senza nome giunge una bambina misteriosa – si diceva che avesse 108 anni – con dei poteri straordinari: stimola la fantasia, rimette pace tra i contendenti, trova la soluzione di molti problemi. Il suo segreto è uno solo: è capace di ascoltare. La scena del canarino esprime con forza questa caratteristica. Un giorno un giovanotto portò a Momo il suo canarino in gabbia, che non voleva più cantare. Per risolvere il problema, Momo si mise davanti alla gabbia una settimana intera in silenzio, e alla fine il canarino ricominciò a cantare allegramente. Il canarino non aveva più cantato, perché non aveva trovato nessuno che avesse la pazienza di ascoltarlo.

Il documento programmatico per questo decennio, “Educare alla vita buona del Vangelo”, indica l’ascolto come una delle esigenze fondamentali del processo educativo: “oggi è necessario curare in particolare relazioni aperte all’ascolto” (n. 53). Non basta più la formazione di gruppo, per educare il cristiano: ormai ogni ragazzo e giovane è un mondo complesso, all’interno del quale si intrecciano tanti problemi, tensioni, proposte, modi di pensare… i giovani respirano tutta la complessità del mondo attuale e questo rende ancora più necessario un contatto personale, che li aiuti a trovare un centro di unità al loro interno. Hanno bisogno di essere ascoltati ad uno ad uno – chi ascolta davvero nella società di oggi i giovani? – hanno bisogno di chi, pazientemente, li aiuti a sciogliere i tanti problemi che in ciascuno di essi coesistono. Perciò l’accompagnamento spirituale in senso vero e proprio è utile specialmente nell’età delle scelte (adolescenza-giovinezza) e non è riservato a preti e religiosi.

Ma c’è un terzo sguardo, quello malevolo della folla: “vedendo ciò, tutti mormoravano: è entrato in casa di un peccatore!”. Zaccheo è il segno dell’uomo emarginato, da tutti i punti di vista. Nella figura di Zaccheo si concentrano tante povertà, tante mancanze. Una carenza fisica, prima di tutto: doveva essere davvero molto piccolo di statura se per riuscire a vedere Gesù deve salire su un albero; poi una mancanza morale: veniamo a sapere dal seguito della storia che la ricchezza accumulata da Zaccheo è frutto anche di furti e imbrogli; e soprattutto una mancanza spirituale: non solo era un pubblicano, ma era “il capo dei pubblicani”, della categoria di peccatori più disprezzata dagli ebrei. Un uomo, insomma, che non aveva proprio niente di buono. Lo sguardo della gente è dunque giustificato, secondo il modo di pensare dell’epoca. Siccome quell’uomo porta il segno di un peccato, Gesù non può fermarsi da lui, a casa sua. Ne rimarrebbe contaminato.

Lo sguardo della folla, quindi, oltre che esprimere giudizio verso Zaccheo, forse esprime anche protezione verso Gesù. Non c’è violenza peggiore di quella procurata da chi pensa di “proteggere” il Signore dal grido del povero, da chi ritiene che il peccatore non debba venire a contatto con lui. Sguardo accusatore, catalogante. Ma Gesù dice: non accusare, di non “dividere in categorie” le persone. Non si ha a che fare con dei “casi”, ma con dei figli di Dio. È sempre in agguato la tentazione delle categorie: psicologiche, mediche, sociologiche… pastorali. Il metodo educativo di Gesù comporta invece lo strappo delle etichette: Gesù chiama Zaccheo per nome e non lo chiama peccatore o pubblicano o ladro…

L’approccio degli adulti verso i giovani è attualmente molto critico. Il timore che spesso aleggia verso i giovani è dovuto, in buona parte, alle etichette che vengono loro applicate. Le indagini sociologiche sono piene di sostantivi problematici, ai quali viene annesso l’aggettivo “giovanile”: disagio, crisi, riflusso, emarginazione, frammentazione, trasgressione, delinquenza. Per fare solo un esempio, leggo i titoli de Il Resto del Carlino del 15.02.17, che comprai in vista di una riflessione sulla pastorale giovanile: “Ragazzi suicidi, è allarme” (p. 1); “Generazione friabile” (editoriale p. 1); “Basta genitori amici dei figli” (p. 3): “Giovane diciassettenne vittima del male oscuro” (p. 3); “Sul social il video hot della sedicenne” (p. 4); “Due ventenni accusati di violenza sessuale di gruppo” (p. 3 cronaca locale); “Adolescenti depressi” (p. 5 cronaca locale); “Lottiamo tutti contro il bullismo” (p. 9 cronaca locale); “Botte fuori dal liceo” (p. 13 cronaca locale). E tutto questo in una sola giornata. È la descrizione di una catastrofe.

Possiamo lasciare i giornali, che spesso devono fare notizia, e ricorrere ai pensatori. Uno scrive: “ora (…) i giovani sentono il bisogno di distinguersi, e non trovando altra strada aperta come una volta, consumano le forze della loro giovanezza, e studiano tutte le arti, e gettano la salute del corpo, e si abbreviano la vita, non tanto per l’amor del piacere, quanto per esser notati e invidiati e vantarsi di vittorie vergognose, che tuttavia il mondo ora applaude, non restando a un giovane altra maniera, di far valere il suo corpo, e procacciarsene lode, che questa”. Il linguaggio arcaico fa capire che non è un brano contemporaneo, ma le idee sono sempre quelle: i giovani di oggi sono peggiori di quelli di un tempo. È Giacomo Leopardi che, quasi due secoli fa, il 21 giugno 1820, annotava nel suo Zibaldone di pensieri le riflessioni citate. E in molti altri passi deplorava la condizione e la vita dei giovani “di oggi”, peggiori a confronto delle generazioni passate. Un altro esempio: “il costume del mondo è stato sempre di peggiorare, e che il futuro fosse peggiore del presente e del passato. Le generazioni migliori non sono quelle davanti, ma quelle dietro; e non c’è speranza che il mondo cambi costume” (10 novembre 1820). Lo stesso giorno scriveva: “il giovane è incapace d’altra consolazione che della morte”.

Un ultimo esempio. Un altro famoso autore contrappone la semplicità dell’antica sapienza alla filosofia del suo tempo e ragiona sulla differenza tra i giovani del passato e quelli del presente. Nelle scuole di oggi, dice, non c’è più interesse per gli studi e c’è una grande solitudine; la gioventù si accalca attorno a quelli che vivono in maniera dissipata, i ragazzini vengono sfruttati in tante maniere e appena diventano adolescenti si pettinano tutti allo stesso modo. Sembra di sentire i commenti dei docenti a un consiglio di classe delle medie, e invece è la Lettera 95 di Seneca, un testo che ha poco meno di duemila anni. Non escludo che si trovino riflessioni simili  sui giovani di oggi, peggiori di quelli di una volta, in qualche papiro dell’antico Egitto.

Non vogliamo e non possiamo mettere la testa sotto la sabbia. Ma non possiamo e non vogliamo neppure accodarci al topos della corruzione dell’odierna gioventù. Ci sono tanti problemi, innumerevoli drammi, fatiche di ogni genere. Ma la comunità cristiana non può deprimere i suoi giovani: ha il compito di incoraggiarli reagendo alla litania dell’indignazione generalizzata verso di loro.

Gli educatori dei giovani hanno il compito, da questo punto di vista, di iniettare nella comunità cristiana una visione più completa dei ragazzi, meno pregiudiziale, meno colpevolizzante. Non sono solo educatori da parte della comunità, ma anche educatori della comunità. È importante, come diciamo spesso, che faccia notizia anche il bene. Sarebbe un sogno che invece di dieci titoli allarmanti sul mondo giovanile, ce ne fossero altrettanti incoraggianti. E ce n’è davvero tanto di bene tra i ragazzi e giovani, ma molto adulti – specialmente quelli che vivono di ricordi e non di presente – non lo sanno; sono sopraffatti dalle notizie cattive, seguono il topos della corruzione dei giovani di oggi. In realtà i giovani sono lo specchio degli adulti e respirano il clima nel quale sono nati e cresciuti. Hanno però una carta in più: le energie per progettare.

Le analisi sociologiche, psicologiche e pastorali sui giovani sono molte centinaia. Un dato di solito viene evidenziato da tutti: i giovani non cercano delle istituzioni, ma delle relazioni. Se accettano di coinvolgersi a qualche livello nelle istituzioni, è perché hanno sperimentato in esse la possibilità di relazioni significative. Non è quindi in crisi solo l’appartenenza alla Chiesa, ma anche – e forse ancora di più – alla politica e alle aggregazioni sociali. In questo caso non è vero che mal comune è mezzo gaudio; mal comune è piuttosto sintomo di epidemia.

Mi pare tuttavia che si possa cogliere dentro a questa crisi di appartenenza una richiesta implicita di senso: i giovani in genere sono ancora sensibili alla prossimità, alle relazioni autentiche, all’offerta di un rapporto serio da parte dei coetanei e anche degli adulti. Questa ricerca è per noi cristiani anche un’opportunità pastorale, una porta non certo spalancata ma comunque socchiusa per una testimonianza di vita che diventa anche annuncio di Cristo. Non voglio inoltrarmi nei contenuti dell’annuncio ai giovani, perché sono quelli del Vangelo e della dottrina della Chiesa, presentati con un linguaggio adeguato. Ciò che può colpire di più i giovani, al riguardo, è relativo alla “umanità” di Gesù, ai suoi atteggiamenti e ai suoi incontri. D’altra parte noi sappiamo che è proprio l’umanità di Gesù a rivelare il volto di Dio.

La casa: educazione come incontro che ri-attiva la persona

Eccoci finalmente al focolare: ma non ci si arriva subito: è necessario prima passare dall’albero e camminare sulla strada. La casa è il luogo dell’incontro personale, nel quale cadono le maschere ed emerge il mistero della persona, sempre più grande della categoria a cui è assegnata. Gesù non è paternalistico: non fa a Zaccheo nessun complimento, né tanto meno gli dice parole compassionevoli: gli propone piuttosto un incontro, gli dice che vuole essere suo ospite per quel giorno. In altre parole, non lo fa sentire destinatario ma protagonista: è Gesù che, prima di fare un favore a Zaccheo, gli chiede un favore. Straordinaria capacità educativa: Gesù “attiva” le qualità migliori di Zaccheo, lo fa diventare attore di accoglienza.

Viene in mente l’inizio della grande opera di carità diffusa prima in Francia e poi in tutto il mondo dall’Abbé Pierre, morto pochi anni fa. Lo chiamano un giorno d’urgenza perché Bastiano, un ex galeotto tenuto lontano da tutti, è entrato in una rimessa semi abbandonata e si è tagliato i polsi per togliersi la vita. All’ospedale l’Abbé Pierre gli dice: “Tu sei davvero disgraziato, ma io ho bisogno di qualcuno che venga ad aiutarmi. Anch’io non ne posso più. Vieni con me e insieme faremo qualcosa di buono”. È la prima volta che qualcuno gli chiede di dargli una mano. Accetta. Nasce la comunità Emmaus. Così, da un brigante che anziché essere aiutato si è messo ad aiutare, è nata una grande opera diffusa poi in tutto il mondo.

L’educazione è proprio questo: aiutare una persona bisognosa a tirare fuori tutte le residue capacità, i doni nascosti, le energie addormentate. Il risultato con Zaccheo è sorprendente: “scese in fretta e lo accolse pieno di gioia”. Da uomo peccatore e respinto da tutti, Zaccheo diventa colui che ospita Gesù, colui che quel giorno lo accoglie. E non solo la gioia investe Zaccheo, ma anche il desiderio di cambiare vita: “io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto”. Non c’è un miracolo in questo brano, ma forse c’è il miracolo più grande: il cuore di Zaccheo è stato completamente trasformato dalla fiducia di Gesù, che lo ha reso attore e protagonista dell’accoglienza. Zaccheo ha tirato fuori il meglio di sé, perché Gesù non lo ha trattato da destinatario ma da protagonista.

La casa è il luogo dell’educazione all’umano. No all’“angolino” della catechesi: meglio giocare con i ragazzi per mezz’ora, senza fare la catechesi, che fare la catechesi di mezz’ora interrompendo il loro gioco. Meglio preparare la cena con i giovani, giocare o fare due chiacchiere con loro, aiutarli a lavare i piatti. Gran parte della sfida oggi si gioca sull’umano. Non è un discorso “al ribasso”: la fede passa dalle relazioni umane, dal tu per tu, dal “domestico”, dalle dimensioni della vita di casa. C’è una grande efficacia nello stare-con: altrimenti Gesù avrebbe scelto di venire al mondo da adulto (come volevano alcune correnti gnostiche) e non attraverso la casa di Nazaret, “inutile” ascolto dell’umano; avrebbe scelto di apparire sui monti in certi momenti a profetizzare e fare miracoli, e non di fare strada con i discepoli, dormire e mangiare con loro; avrebbe scelto di salire direttamente al Padre, terminata la missione, e non di passare attraverso il sinedrio, il palazzo di Pilato, il Golgota e il sepolcro. Si sarebbe incapsulato nell’umano e non incarnato.

La casa di Zaccheo non è però una tana: da lì, dall’incontro con Gesù, prende avvio la “missione”: la “salvezza” che Gesù porta a casa di Zaccheo non è semplice gioia interiore – che c’è – ma è cambiamento di vita, servizio, riscatto per i poveri. L’esperienza “domestica” con Gesù ha il suo termometro del servizio, specialmente a quelli svantaggiati. Zaccheo aveva rubato: ma quanto rubiamo noi – civiltà evoluta – ai poveri? Il servizio – altra carta nel mazzo degli educatori cristiani – è il maggiore segno di conversione. La conversione è l’inversione dell’avversione di Caino: “sono forse io il custode di mio fratello?”. Il servizio ha un grande valore educativo anche per gli stessi educatori e favorisce la realizzazione del secondo significato di “educare”. Molti ricordano che educare proviene da e-ducere, trarre o condurre fuori, ma lo declinano solo nel senso di estrarre dalla persona le risorse di cui è capace; “educare”, però, significa anche trarre la persona fuori dal proprio nido, aiutarla ad uscire di casa per entrare nel mondo. Il servizio ai poveri – in senso materiale, affettivo, morale e spirituale – è un ingrediente fondamentale della trasmissione della fede alle giovani generazioni, se è vero che essa “si rende operosa per mezzo della carità” (Gal 5,6).

Conclusioni… provvisorie

Sono ancora molto attuali le parole che papa Benedetto XVI rivolse ai vescovi italiani il 30 maggio 2005: i giovani sono, «come ha ripetutamente affermato Giovanni Paolo II, la speranza della Chiesa, ma sono anche, nel mondo di oggi, particolarmente esposti al pericolo di essere “sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina” (Ef 4,14). Hanno dunque bisogno di essere aiutati a crescere e a maturare nella fede: è questo il primo servizio che essi devono ricevere dalla Chiesa, e specialmente da noi vescovi e dai nostri sacerdoti. Sappiamo bene che molti di loro non sono in grado di comprendere e di accogliere subito tutto l’insegnamento della Chiesa ma proprio per questo è importante risvegliare in loro l’intenzione di credere con la Chiesa (…). Affinché ciò possa avvenire, i giovani devono sentirsi amati dalla Chiesa, amati in concreto da noi vescovi e sacerdoti (…). Questo è oggi, cari fratelli vescovi italiani, il punto centrale della grande sfida della trasmissione della fede alle giovani generazioni». Papa Ratzinger vede dunque nella prossimità ai giovani, da parte delle comunità e specialmente dei pastori, “il punto centrale” della pastorale giovanile. Il fatto di “sentirsi amati” è la porta per una loro riscoperta della bellezza di appartenere alla Chiesa e a Cristo.

Papa Francesco concretizza ulteriormente questa prossimità: «I giovani, nelle strutture abituali, spesso non trovano risposte alle loro inquietudini, necessità, problematiche e ferite. A noi adulti costa ascoltarli con pazienza, comprendere le loro inquietudini o le loro richieste, e imparare a parlare con loro nel linguaggio che essi comprendono. Per questa ragione le proposte educative non producono i frutti sperati» (Evangelii Gaudium, n. 105).

Se vogliamo, come Chiesa, arrivare ai giovani, occorre allora che vinciamo due tentazioni pastorali: la delega agli addetti ai lavori, i quali dovrebbero possedere la “ricetta”, quando non addirittura la “pozione magica”; e la considerazione dei giovani come semplici destinatari di iniziative pensate ai tavoli degli adulti. Papa Francesco, nel seguito dello stesso documento, afferma che “si sono fatti progressi in due ambiti: la consapevolezza che tutta la comunità li evangelizza e li educa, e l’urgenza che essi abbiano un maggiore protagonismo” (n. 106). Nonostante questi innegabili progressi, le nostre comunità locali faticano ancora ad avvertirsi corresponsabili dell’evangelizzazione dei giovani e a vedere in essi non dei semplici destinatari, ma dei veri e propri protagonisti nella Chiesa. 

Contrastare la prima tentazione, quella della delega, significa richiamare di frequente la realtà dei giovani in una comunità cristiana, anche a costo di essere accusati di “giovanilismo”: nella liturgia, nei momenti di incontro, nei mezzi di comunicazione, nelle diverse le occasioni disponibili, è importante ricordare il fatto che ragazzi e giovani sono il futuro della società e della Chiesa e quindi richiedono al presente le maggiori attenzioni da parte di tutti. Saranno poi soprattutto i giovani più grandi ad educare gli altri giovani più piccoli; ma intanto la comunità è consapevole di portare tutta insieme la responsabilità per il proprio futuro.

Più difficile ancora è contrastare la seconda tentazione, quella di fare dei giovani i semplici destinatari della pastorale. Favorire il loro “protagonismo”, come auspica papa Francesco, significa accordare loro maggiore fiducia – anche a costo di qualche sbavatura – nelle proposte di animazione, festa, servizio, volontariato, testimonianza, preghiera… e anche nella celebrazione eucaristica. Alcuni giovani praticanti lamentano liturgie troppo “vecchie”: canti ormai datati, omelie piuttosto lunghe e scontate, gesti ripetuti stancamente. Non si tratta di tornare alla Messa beat degli anni ’60, ma di utilizzare meglio il ventaglio delle possibilità offerte dal Messale di Paolo VI e lasciare spazio, almeno in alcune occasioni, alla capacità simbolica dei giovani anche dentro la liturgia. E anche di tenere prediche più brevi.

In conclusione, raccogliamo gli ingredienti fondamentali della pastorale giovanile: la prossimità ai giovani, che implica tempo per “stare” con loro; l’ascolto delle loro difficoltà e dei loro desideri, che può diventare accompagnamento spirituale anche in chiave vocazionale; la sensibilizzazione delle comunità alla presenza e alle risorse del mondo giovanile; la formazione di giovani grandi come educatori dei giovani più piccoli; la fiducia data alle nuove generazioni nei diversi ambiti pastorali della comunità: servizio, animazione, catechesi, liturgia.

Saranno pure una piccola minoranza i giovani che si accostano alla Chiesa: ma se sono – per usare un’espressione cara a Benedetto XVI – una “minoranza creativa” e non rassegnata, rinunciataria, impaurita o aggressiva, avranno la funzione del sale, della luce e del lievito, dando sapore, colore e spessore all’esperienza cristiana delle nostre comunità e diventando attraenti per gli altri giovani.