Omelie

XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO 10 luglio 2016


XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO [SCARICA]

10 luglio 2016

Nel Vangelo di oggi, leggiamo una domanda che è fondamentale e ci appartiene: “Maestro che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”

La domanda è posta a Gesù, che va a Gerusalemme, da uno studioso della Legge il quale vuole sapere cosa è obbligato a fare per ottenere in eredità una vita che non finisca sulla terra, ma continui per sempre nel Regno di Dio.  La domanda è seria  ma non è altrettanto serio l’atteggiamento dello studioso della Legge il quale “Lo interrogò per metterlo alla prova”. Questo atteggiamento è tipico di Satana (cfr. Lc 4,2): è un atteggiamento dia-bolico, divisivo, che crea contrasto, perché si serve  anche della  stessa Legge per creare difficoltà a Gesù.

Come le altre volte, la risposta di Gesù  implica il metodo pedagogico  di Dio (che educa sempre il suo popolo): Egli invita l’interlocutore a  rispondere, a sua volta, alla domanda: “Che cosa sta scritto nella Legge?”. L’esperto risponde in modo ineccepibile riportando  dalla Torah la sintesi della volontà di Dio, cioè il primo e più importante dei comandamenti: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il tuo prossimo come te stesso (Lv 19,18)”. Le parole della Legge contengono un orientamento di vita così chiaro  che non va né interpretato né commentato. ma solamente vissuto. Ecco perché,  in modo lapidario, Gesù dice: “Hai risposto bene; fà questo e vivrai”, avrai la vita che non muore, la vita eterna.

A questo punto il dialogo tra Gesù e il dottore della legge potrebbe dirsi concluso perché tutto è stato acclarato, ma non  succede così probabilmente perché la risposta di Gesù “fà questo”  inquieta l’esperto della Legge che incomincia a tergiversare ponendo una domanda che risulta alquanto generica. Egli chiede: “Chi è il mio prossimo?”. E’ l’incarnazione concreta del comandamento dell’amore che  gli crea dubbi su chi debba essere l’oggetto di questo amore. Saranno i connazionali? I fratelli nella fede? Gli altri? Insomma chi? Si chiede a sua volta il Priore della Comunità monastica di Bose, Enzo Bianchi.

A questo punto Gesù pone il suo interlocutore di fronte alla sua coscienza e alla sua responsabilità personale raccontando la parabola nota a tutti come la parabola del buon Samaritano.

Entriamo nella parabola e cogliamone il senso per noi, uomini e donne credenti, di oggi.

Un tale, mentre scende da Gerusalemme verso Gerico, sulla strada che attraversa il deserto della Giudea, viene assalito dai briganti, derubato, percosso e abbandonato sulla strada mezzo morto. Senza retorica, ci chiediamo: chi era quest’uomo? Non viene definita  la sua identità: era un essere umano qualunque. Non importa né la professione né il ruolo sociale, ma soltanto che un “tale” vive una situazione di bisogno.

Gli passano accanto un sacerdote e un levita, cioè due persone addette al culto nel Tempio del Signore, due “uomini religiosi” che conoscono bene la Legge di Dio: lo vedono, si accorgono che è in  bisogno di aiuto e  passano oltre senza fermarsi. Su quella stessa strada passa poi un Samaritano, un “nemico” religioso per i Giudei, il credente scismatico ed eretico (cfr. Lc 9,53; Gv 4,9). Non passa oltre, anzi. L’evangelista  Luca mette in fila, come scrive padre Ermes Ronchi, dieci verbi per descrivere l’amore: “lo vide, si mosse a pietà, si avvicinò, scese, versò, fasciò, caricò, lo portò, si prese cura, pagò” … Infine “al mio ritorno salderò il debito se manca qualcosa. Questo è il nuovo decalogo, i nuovi dieci comandamenti, una proposta per ogni uomo, credente o no, perché l’uomo sia uomo, la vita sia amica, la terra sia abitata da “prossimi”, non da avversari”.

“Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è incappato nei briganti?”.  Rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”.

Prossimo è colui che ha gesti di misericordia. Chi fa della misericordia un atto, una storia, una compagnia, una presenza. A noi oggi come a quell’esperto  della Legge, Gesù dice: “Và e anche tu fà lo stesso” inchiodandoci alla nostra personale responsabilità.

Per ereditare la vita eterna occorre non soltanto provare compassione  ma essere e fare misericordia, perché  misericordia è lasciarsi “ferire” dal male degli altri, lasciarsi coinvolgere, essere “storia di prossimità e di vicinanza”.

Nella vita di ognuno c’è un rischio: identificarsi con un ruolo professionale o sociale che  impedisce di uscire da se stessi, di mettere in gioco la propria vita, di “perderla” con gli altri e per gli altri, specialmente quando gli altri sono gli ultimi degli ultimi, avanzi e scarti.

Noi vescovi o presbiteri, corriamo il grande rischio di diventare  burocrati se non ci lasciamo coinvolgere dalle situazioni delle persone che incontriamo, se rimaniamo estranei agli altri.  Nella Didachè viene definito il rischio che corrono i predicatori itineranti: diventare christemporoi, cioè trafficanti, venditori di Cristo. L’estraneità può portare alla mercificazione di Cristo.

Interessante per approfondire la nostra riflessione è la lettura cristologica della parabola che trova fondamento negli scritti dei Padri della Chiesa: il Samaritano è Cristo e l’uomo incappato nei briganti è l’umanità comprendente tutti i lettori del testo. Il sacerdote e il levita sono la Legge e i Profeti che sono passati dall’altra parte; il Samaritano è Gesù, rappresentato da un eretico, un marginale,  uno scomunicato che non ha contatti con il Tempio. L’olio e il vino sono  il simbolo dell’Eucarestia, della Crismazione e del Battesimo; l’albergo è la Chiesa, l’albergatore lo Spirito Santo, le due monete l’Antico e il Nuovo Testamento. Alla fine si parla di uno che ritorna, cioè la parusia, la fine dei tempi.

Jean Corbon così commenta: “Nel capovolgimento operato dall’Evangelo, il centro non sono più io, bensì gli altri. Il prossimo non è un evento che si impone sugli altri ma un appello: siamo noi a doverci fare prossimo, siamo noi il prossimo di quell’uomo caduto nelle mani dei briganti o, piuttosto, a diventarlo. Il prossimo non esiste prima del nostro arrivo, siamo noi a diventare o a rifiutare di diventare prossimo, il prossimo degli altri”.

Che bello  dire che la “prossimità” accade.  Misericordia è dunque lasciarmi coinvolgere dall’altro che incontro, che diventa appello alla mia responsabilità.

Con le parole di un sopravvissuto di Auschwitz, Eli Wisel, morto qualche giorno fa, possiamo affermare che “il contrario dell’amore non è l’odio ma l’indifferenza”.

Sia questa una Domenica nella quale ci lasciamo attraversare dall’altro.

“Percorri l’uomo, dice sant’Agostino e raggiungerai Dio”.

L’uomo è la strada verso l’Assoluto, Dio!

Buona Domenica per tutti di misericordia ricevuta e condivisa.

   Francesco Savino