Dopo la parabola dell’economo ingiusto ascoltata Domenica scorsa, oggi ci viene proposta una seconda parabola di Gesù sull’uso della ricchezza: la parabola del ricco e del povero Lazzaro.
“C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti”.
Annotiamo che di costui non si dice il nome e la sua identità è definita dal suo lusso e dal suo comportamento. I ricchi vogliono farsi vedere, imporsi ed ostentare. Esibiscono i segni del potere! L’altra dimensione che caratterizzava i ricchi nell’antichità soprattutto, ma anche oggi, è il farsi vedere mentre banchettano. Per essi ogni giorno è possibile festeggiare, per i poveri non è possibile mai. Festeggiare cosa?
“Sé stessi e la loro situazione privilegiata, senza mai pensare alla condivisione. Questo ricco, in particolare, mai aveva invitato i poveri, mai si era accorto del povero presente davanti alla sua porta, e dunque mai aveva praticato quella carità che la Torah stessa esigeva. Ma qual è la malattia più profonda di quest’uomo? Quella che papa Francesco, in una sua omelia mattutina, ha definito mondanità: l’atteggiamento di chi “è solo con il proprio egoismo, dunque è incapace di vedere la realtà” (Enzo Bianchi).
Alla porta del ricco sta “gettato” come una cosa un altro uomo, coperto di piaghe. È completamente abbandonato! È invisibile per tutti tranne che per i cani. La sua condizione di vita è la più disperata! Costui, però, a differenza del ricco, ha un nome: El’azar, Lazzaro, cioè “Dio viene in aiuto”, nome che esprime realmente la sua identità.
Sia il ricco che il povero condividono la condizione umana, per cui per entrambi giunge l’ora della morte che accomuna tutti.
Un salmo sapienziale così dice: “L’uomo nel benessere non comprende, è come gli animali che, ignari, vanno verso il mattatoio” (cfr. Sal 49, 13.21). Il ricco completamente chiuso in sé stesso, era incapace di responsabilità verso l’altro, incapace di condivisione. Il vero nome della povertà è condivisione!
Quando muore Lazzaro, il suo nome mostra tutta la sua verità, perché il funerale del povero (che forse non c’è stato materialmente, perché l’avranno gettato in una fossa comune!) è officiato dagli Angeli, che vengono a prenderlo per condurlo nel seno di Abramo. La vita di Lazzaro non si è dissolta nel nulla, ma egli è portato nel regno di Dio, dove si trova il padre dei credenti, di cui egli è figlio: colui che era “gettato” presso la porta del ricco, ora è innalzato e partecipa al banchetto di Abramo (cfr. Mt 8,11; Lc 13,28). Il ricco invece ha una sepoltura come gli si conviene, ma il testo è laconico, non precisa nulla di un suo eventuale ingresso nel Regno.
Ecco infatti, puntualmente, una nuova situazione, in cui i destini dei due uomini sono ancora una volta divergenti, ma a parti invertite. Ciò che appariva sulla terra viene smentito, si mostra come realtà effimera, mentre ci sono realtà invisibili che sono eterne (cfr. 2Cor 4,18) e che dopo la morte si impongono: il povero ora si trova nel seno di Abramo, dove stanno i giusti, il ricco negli inferi. Alla morte viene subito decisa la sorte eterna degli esseri umani, preannuncio del giudizio finale, e le due vie percorse durante la vita danno l’esito della beatitudine oppure quello della maledizione. A Lazzaro è donata la comunione con Dio insieme a tutti quelli che Dio giustifica, mentre al ricco spetta come dimora l’inferno, cioè l’esclusione dal rapporto con Dio: egli passa dall’avere troppo al non avere nulla (cfr. riflessione di Enzo Bianchi).
Il ricco, soffrendo le pene dell’inferno, alza i suoi occhi, vede Abramo e Lazzaro nel suo grembo e supplica Abramo di aver pietà di lui chiedendogli di mandare Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnargli la lingua perché è torturato dalla fiamma dell’inferno. Chiede, in altri termini, che Lazzaro compia un gesto di amore che lui in vita non aveva mai compiuto verso una persona bisognosa; ma Abramo gli risponde: “Figlio, durante la tua vita hai ricevuto i tuoi beni, mentre Lazzaro i suoi mali; ora egli qui è consolato, tu invece sei torturato”. Un modo schematico ma efficace per esprimere come il comportamento vissuto sulla terra abbia precise conseguenze nella vita oltre la morte: il comportamento terreno è già il giudizio, da esso dipendono la salvezza o la perdizione eterne (cfr. Mt 25,31-46). Così la beatitudine rivolta da Gesù ai poveri e il “guai” indirizzato ai ricchi (cfr. Lc 6,20-26) si realizzano pienamente. Poi Abramo continua servendosi dell’immagine dell’“abisso grande”, invalicabile, che separa le due situazioni e non permette spostamenti dall’uno all’altro “luogo”: la decisione è eterna e nessuno può sperare di cambiarla, ma si gioca nell’oggi…
Il racconto potrebbe anche finire qui ma la narrazione cambia perché il ricco, dopo aver udito la prima risposta di Abramo, chiede di intervenire sui suoi familiari che sono sulla terra affinché possano cambiare il loro modo di vivere, ancora una volta, però, Abramo fa capire al ricco che Lazzaro non potrebbe annunciare nulla di nuovo perché hanno già la possibilità di ascoltare Mosè e i profeti, le sante scritture, che indicano la via della salvezza. Le scritture che contengono la Parola di Dio con chiarezza e senza ambiguità dicono come gli uomini debbono comportarsi nella vita per raggiungere la salvezza. Il ricco insiste per la terza volta rivolgendosi ad Abramo: “Padre Abramo se qualcuno dai morti andrà dai miei fratelli saranno mossi a conversione”. A questo punto Abramo chiude per sempre ogni possibilità di discussione: “Se non ascoltano Mosè e i profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”.
La parabola di questa Domenica non può non scuoterci, graffia le nostre coscienze, spesso addormentate e addomesticate. Viviamo un tempo dove l’indifferenza, la negazione dell’altro sembra essere la nota dominante! Per dirla con don Lorenzo Milani, viviamo il tempo del “me ne frego” rispetto all’“I care”, mi sta a cuore l’altro.
Non dimentichiamo che “il vero nemico della fede è il narcisismo, non l’ateismo” (K. Doria). Per Narciso non esiste nessuno!
Sosteneva S. Weil: “Il primo miracolo è accorgerci che l’altro esiste”.
Siamo chiamati tutti a convertirci! Deve cambiare il paradigma culturale di questo nostro tempo complesso e complicato.
Dall’identità all’alterità, dall’“io” al “tu”, al “noi”. Mai senza l’altro!
Augurando a tutti una buona Domenica, sentiamoci tutti disponibili a rispondere alla domanda: “Caino, dov’è tuo fratello?”.
Sono io, sei tu, il custode dei fratelli e delle sorelle che incontriamo sui sentieri più o meno interrotti della nostra esistenza.
✠ Francesco Savino