Omelia per il Giubileo della Polizia Penitenziaria — San Basilide
Oggi, davanti a quest’altare, non offriamo solo le nostre vite, ma anche quelle di chi ogni giorno attraversa soglie fragili: confini di pietra, come le mura di un carcere; confini segreti, come la solitudine, la vergogna, il peso silenzioso della colpa.
Celebriamo San Basilide, soldato e martire. In lui vediamo un uomo che ha saputo scegliere la fedeltà alla verità, al punto da trasformare la sua divisa da simbolo di potere a segno di dono.
È un’immagine che parla con forza silenziosa: una divisa che, prima ancora di richiamare la forza, diventa segno di un’appartenenza vissuta, impronta discreta di chi sceglie ogni giorno di farsi seminatore del bene comune e di avvicinarsi alle piaghe più profonde dell’umano.
Abitiamo una stagione terribilmente smarrita, che confonde giustizia con vendetta, sicurezza con esclusione, legalità con chiusura.
Ma la giustizia vera non è un muro che divide, bensì un ponte che pazientemente riconnette, che rimette insieme le vite spezzate, che riconosce in ogni frammento il volto di un Dio che abita la storia e cammina con il suo popolo.
La sicurezza non nasce dalla paura, ma dal riconoscimento reciproco di dignità.
La legalità non è un freddo insieme di regole, ma una tela sottile che tiene insieme la nostra umanità.
Cari operatori, ogni giorno vi fate interpreti di una delle sfide più profonde e delicate: tenere insieme il rigore della legge e il calore dell’umanità.
Non è un compito semplice. La società ci spinge a etichettare, a semplificare, a ridurre le persone a un reato o a un numero di matricola.
Ma dietro ogni numero c’è un nome, e dietro ogni nome si nasconde una storia: una trama spesso segnata dal dolore, dalle lacerazioni, da nodi ancora aperti.
La sociologia ci insegna che il carcere è uno specchio della società: restituisce le sue paure, le sue contraddizioni, le sue disuguaglianze. Non è un’isola separata, ma un riflesso delle nostre incapacità collettive di prevenire, educare, accogliere.
In ogni cella si sente il rumore sordo di un fallimento sociale, il silenzio di un’opportunità negata, la sete di un abbraccio mai ricevuto.
Siete Cirenei silenziosi, accanto a un’umanità stanca, che trema e cerca appigli.
Come Simone di Cirene, non scegliete la croce che vi è posta sulle spalle, ma potete scegliere come portarla: con durezza o con compassione, con distacco o con prossimità.
Il Vangelo di Luca ci ricorda che chi vuole seguire il Signore deve prendere ogni giorno la propria croce e andare dietro a Lui. Non una croce scelta, ma una croce accolta, condivisa, portata con amore. È in questo cammino quotidiano che si protegge la vera vita, quella che non si perde ma si ritrova, trasfigurata e feconda.
Papa Francesco ci ricorda che «la misericordia non è un’idea astratta, ma un volto da riconoscere, da accarezzare, da rialzare». E allora, quale volto incontrate ogni giorno? Quello di un colpevole o di un fratello? Quello di un pericolo o di una ferita?
Sì, il carcere è chiamato a essere luogo di vigilanza, ma anche spazio di attesa, di cura dell’anima, di riscatto possibile. Voi non custodite solo porte e sbarre, ma anche speranze fragili, sogni spezzati, futuri che attendono ancora di rinascere.
Nella vostra missione c’è una dimensione profonda di pastorale sociale: siete parte di un tessuto di vicinanza che sfida la logica del deserto interiore.
E se la società spesso chiude gli occhi per non vedere, voi siete chiamati a sostare, a guardare fino in fondo, a credere con ostinazione che nessun uomo coincide mai con il suo errore.
Siate artigiani di dignità.
La dignità non è un premio da meritare, ma un diritto che ogni persona porta iscritto nel proprio corpo.
La Chiesa sogna una comunità che non sigilla mai la porta della speranza, ma la tiene socchiusa come un invito. Sogna un popolo che non si limita a condannare, ma che fascia le ferite e ricuce gli strappi dell’anima.
San Basilide, nella sua testimonianza silenziosa e coraggiosa, ci insegna che la fedeltà al Vangelo non è fatta di parole solenni, ma di scelte concrete, di gesti di misericordia, di abbracci dati anche quando sembra impossibile.
Lasciate che anche la poesia illumini questo mistero. In ogni sguardo abbassato, in ogni mano tremante, in ogni passo esitante di chi vive recluso, risuona un riverbero di quel grido antico: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?».
E voi, come Cirenei, potete diventare risposta a quel lamento che implora consolazione.
Potete essere segno che Dio non abbandona mai, che la comunità rimane accanto, che l’umano continua a fiorire, persino tra le spine del roveto.
Cari fratelli e sorelle, vi chiedo di sognare con me una società che non conosca prigionieri invisibili, che non condanni all’oblio, che non porti sul corpo le stimmate fredde dell’indifferenza.
San Basilide vi accompagni e vi ispiri a non cedere mai alla logica delle porte chiuse, a custodire la gentilezza come un respiro prezioso, quella fragilità sinuosa che protegge e scalda il cuore; a non lasciare che si spenga la fiamma viva della speranza.
Affidiamo a Lui i colleghi che hanno dato la vita, le famiglie, i detenuti che attendono una nuova alba, e voi tutti che, con discrezione e coraggio, abitate questo ministero come una chiamata al servizio civile e spirituale.
Invochiamo la Madre di Dio, donna delle soglie e delle attese, perché interceda per ciascuno di voi, perché vi insegni a tenere insieme fermezza e tenerezza, regola e compassione.
Da questo altare, dove il pane si spezza e la vita si offre, ripartiamo con il cuore dilatato e con gli occhi capaci di riconoscere in ogni volto una promessa di risurrezione.
Amen.