Intervento di S. E. Mons. Francesco Savino alla Settimana Liturgica

27-08-2025

Dalla tenda alla strada.

Per una Chiesa eucaristica di

missione e comunione

 

Introduzione. Un contesto “im-plosivo” che ci interpella

In un mondo sempre più segnato da violenze e divisioni di ogni genere, come impietosamente ci testimoniano i mass media, e che sembra incapace di uscire da quella “terza guerra mondiale a pezzi” denunciata da anni dal nostro compianto papa Francesco, abbiamo sempre più bisogno e desiderio, come fratelli e sorelle battezzati in Cristo, di riscoprire il potente messaggio dell’Eucarestia celebrata, cuore pulsante della nostra vita di credenti e bussola irrinunciabile per le nostre scelte quotidiane.

Non appena eletto al soglio petrino, Papa Leone ha invitato il mondo intero ad una «comunicazione disarmata e disarmante»[1], rinunciando ad ogni forma di prevaricazione e perseguendo una “cultura dell’incontro e del dialogo”, fortemente promossa da Papa Francesco (cfr. FT, nn. 198-224) per costruire la pace. Inoltre, incontrandoci come Vescovi italiani, ci ha consegnato quattro attenzioni pastorali che il Signore pone sul cammino delle Chiese in Italia e meritano riflessione, azione concreta e testimonianza evangelica, tra cui la pace. Il Papa diceva:

 

«La relazione con Cristo ci chiama a sviluppare un’attenzione pastorale sul tema della pace. Il Signore, infatti, ci invia al mondo a portare il suo stesso dono: “La pace sia con voi!”, e a diventarne artigiani nei luoghi della vita quotidiana. Penso alle parrocchie, ai quartieri, alle aree interne del Paese, alle periferie urbane ed esistenziali. Lì dove le relazioni umane e sociali si fanno difficili e il conflitto prende forma, magari in modo sottile, deve farsi visibile una Chiesa capace di riconciliazione. […] Ogni comunità diventi una “casa della pace”, dove si impara a disinnescare l’ostilità attraverso il dialogo, dove si pratica la giustizia e si custodisce il perdono. La pace non è un’utopia spirituale: è una via umile, fatta di gesti quotidiani, che intreccia pazienza e coraggio, ascolto e azione. E che chiede oggi, più che mai, la nostra presenza vigile e generativa»[2].

 

Tutto questo è possibile perché la Chiesa, sacramento di Cristo, vive del mistero di amore inesauribile e straripante di cui l’Eucaristia è sacramento mirabile. L’Eucaristia dona al popolo dei credenti l’orizzonte fondamentale per accogliere il dono di Dio, vivere la comunione e costruire la pace. Se il mondo  rischia di “im-plodere”, ripiegandosi su se stesso, l’Eucaristia, quale sacrificio e rendimento di grazie, è la forza centripeta, che ci attira nel cuore del Mistero di Dio, e centrifuga, che ci induce ad “ex-plodere”, uscendo dalle nostre zone di confort. In questo mutuo movimento agapico, che attrae e invia, ci percepiamo pellegrini nel mondo e verso la pienezza del Regno di Dio.

 

  1. L’Eucaristia “fa” la Chiesa?

«Attraverso il Sacramento eucaristico – ricordava Benedetto XVI in Sacramentum caritatis – Gesù coinvolge i fedeli nella sua stessa “ora”; in tal modo Egli ci mostra il legame che ha voluto tra sé e noi, tra la sua persona e la Chiesa»[3]. A partire da questa relazione di intimità ci chiediamo: dove ci conduce il connaturale dinamismo centripeto e centrifugo dell’Eucaristia? Verso quale meta il nostro Buon Pastore, Gesù Cristo, sempre disposto a dare la vita per il suo gregge, ci chiama ad incamminarci?

L’esperienza spirituale dell’antico Israele ci consegna l’immagine di un Dio vicino al popolo. Emblematica in tal senso è l’esperienza dell’esodo, in cui la tenda del convegno è segno della presenza salvifica ed operante di Dio e invito costante per il popolo a ravvivare il legame di comunione con Colui che lo aveva liberato dalla condizione di schiavitù.

Durante il cammino esodale dall’Egitto a Canaan, la tenda del convegno plasma la fisionomia dell’accampamento: i Leviti, infatti, erigevano il tabernacolo al centro, situavano le loro tende attorno a esso, e le tende delle tribù di Israele circondavano il tutto. Questa sistemazione spaziale non è frutto di una mera organizzazione funzionale dell’accampamento. Essa, piuttosto, rimanda a un dato teologico che Israele nella precarietà del cammino sperimenta quotidianamente: Dio si si fa pellegrino con i pellegrini, abitando per quarant’anni in mezzo al suo popolo e guidandolo fino alla terra promessa.

La centralità della tenda del convegno manifesta che l’adorazione a Dio costituiva il cuore pulsante della vita della nazione, avvertendone in questo modo la Sua immediata e protettiva presenza. Come non commuoversi davanti a tutta questa misericordiosa tenerezza del Dio d’Israele che, nonostante le ripetute deviazioni e cadute del Suo popolo eletto, mai gli fa venire meno il suo sostegno lungo la strada del deserto, nutrendolo di manna e coprendolo con la propria nebulosa vicinanza? La tenda del convegno rimaneva, quindi, quel grembo materno sempre accogliente, all’interno del quale nessuno poteva sentirsi escluso o diseredato, perché – come riecheggia al capitolo 49 del libro del profeta Isaia – se anche una mamma fosse mai capace di dimenticarsi dei propri figli, senza più provare la capacità di commuoversi per essi, mai Dio potrebbe farlo.

I rimandi all’attendarsi di Dio nella precarietà del cammino del deserto ci inducono a ricordare, con Joseph Ratzinger, che la Chiesa del primo millennio non conosceva la custodia eucaristica; al suo posto c’era inizialmente lo scrigno della Parola, poi l’altare, sottratto alla vista dei fedeli. Il tabernacolo come tenda santa, come luogo della Shekhinà, della presenza del Signore vivente si è sviluppato solo nel secondo millennio in cui veniva posta in grande rilievo la presenza vera, reale e sostanziale di Cristo nell’Ostia consacrata. Nascosto nel tabernacolo, Cristo con il dono della sua presenza prolunga ed intensifica quanto s’è fatto nella Celebrazione liturgica stessa[4], aprendo a una memoria costante del Mistero Pasquale e plasmando l’esistenza dell’uomo.

Dalle origini della Chiesa è sempre stato chiaro a tutti i credenti che il vero scopo dell’Eucarestia è la nostra stessa trasformazione, così che noi diventiamo “un corpo e uno spirito” con Cristo (1Cor 6,17). Questo dato che l’eucarestia ci trasforma, che essa vuole cambiare l’umanità nel tempio vivente di Dio, nel corpo di Cristo, ha trovato espressione fin dal primo medioevo nella coppia concettuale corpus mysticum e di corpus verum.

Nel linguaggio dei Padri mysticum non ha lo stesso significato odierno, ma indica ciò che appartiene al mistero, all’ambito del sacramento. Con l’espressione corpus mysticum trovava così espressione il corpo sacramentale, la presenza corporea di Cristo nel sacramento. Esso, secondo i Padri, ci viene dato perché diventiamo corpus verum, corpo reale di Cristo. Il mutamento terminologico intervenuto nel tempo, brillantemente individuato e descritto da Henri De Lubac, è stato tale che i significati si sono invertiti, così che per corpus verum si intese il sacramento e per corpus mysticum la Chiesa, laddove mistico viene a voler dire non più sacramentale, ma mistico, ovvero misterioso.

Tutto ciò, comunque, non ci ha mai fatto perdere di vista che il sacramento stesso porta in sé una dinamica che mira alla trasformazione dell’umanità e del mondo nel nuovo cielo e nella nuova terra, nell’unità nel corpo risorto di Cristo, perché l’Eucarestia non mira primariamente al singolo quanto piuttosto alla comunione, verso il superamento del muro tra Dio e l’uomo, tra io e tu, nel nuovo “noi” della comunione dei santi. Il corpo eucaristico del Signore ci raduna affinché noi diventiamo tutti “il suo vero corpo” così che il Signore vivente si dona a noi, entra in noi e ci invita a consegnarci a Lui, tanto che ognuno di noi può allora affermare: “Io vivo, ma non più io, è Cristo che vive in me” (Gal 2,20). Questo dinamismo è espresso chiaramente nella duplice invocazione epicletica della preghiera eucaristica: invochiamo la rugiada dello Spirito perché trasformi la povertà del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo e chiediamo che, per la comunione al Corpo e al Sangue del Signore, il paraclito ci riunisca – pur nelle nostre diversità –  in un solo corpo.

La fede eucaristica della Chiesa ha fatto si che il tabernacolo prendesse il posto che un tempo era dell’arca dell’alleanza, realizzando lo scopo per cui essa esisteva. Esso è il luogo del “Santissimo”: è la tenda di Dio, il trono, dal momento che Egli è ora tra noi, nella più povera chiesa di villaggio non meno che nella più grande delle cattedrali. Anche se il tempio definitivo ci sarà solo quando il mondo sarà diventato la nuova Gerusalemme, qui è presente nella maniera più alta: la nuova Gerusalemme è anticipata nell’umiltà della forma del pane.

Come osservava Benedetto XVI in Lo spirito della liturgia, la presenza eucaristica nel tabernacolo non suppone una concezione dell’eucarestia parallela o contraria a quella della celebrazione eucaristica, ma significa la sua piena realizzazione. Così la Chiesa non diventa mai uno spazio morto, ma è sempre ravvivata dalla presenza del Signore, che viene dalla celebrazione eucaristica, ci introduce in essa e ci fa partecipare per sempre all’eucarestia cosmica. In una Chiesa siffatta il Signore mi aspetta sempre, mi chiama, vuole rendere “eucaristica” anche la mia persona, mettendoci in movimento verso il Suo ritorno[5].

L’Eucaristia, dunque, fornisce l’orizzonte escatologico alla Chiesa, Popolo di Dio in cammino verso la pienezza del Regno di Dio, edificandola nella sua autocoscienza gravida di speranza. La Chiesa è il Popolo di Dio pellegrino, il quale, perseguendo la via di Gesù Cristo, si dirige verso la pienezza del Regno di Dio e l’avvento della sua seconda venuta.

Spesso l’espressione “Regno di Dio” è stata interpretata come un mero sinonimo di Paradiso, ma giova ricordare che essa possiede ed esplica una grande ampiezza di significati, concretizzando in un’immagine la grande speranza portata dal messaggio biblico. Infatti, bisogna innanzitutto tenere presente che l’espressione “Regno di Dio” è, linguisticamente, una metafora, proveniente dall’esperienza politica dei popoli sottomessi al dominio dei re iniqui (cf. 1Mac 1,7-9); in questa luce si comprende anche il discorso del profeta Samuele, che tentava di dissuadere il popolo dall’intenzione di darsi un re, preannunciando il duro futuro di violenza, ingiustizia e sfruttamento a cui sarebbero andati incontro una volta accettato l’arbitrio di un re (cf. 1Sam 8,4-20). Ma proprio da questa terribile esperienza scaturisce e matura la speranza che un giorno sia Dio, e Lui solo, a regnare sull’umanità (cf. Ez 20,33; Mi 4,6-8; Sap 3,8; Sal 146,10; Zc 9,9-10; Zc 14,8-9).

Una così forte idea del divino, come quella che appunto si era affermata in Israele, per cui un giorno sarà Dio stesso a stabilire il suo potere sul mondo, significava pertanto annunciare giustizia, pace, libertà, benessere, vita senza fine. Si tratta di un messaggio di liberazione e di una proclamazione di speranza. La metafora del Regno di Dio ha quindi una forza intrinseca dirompente: essa pone l’uomo in una tensione nuova, positiva e propositiva nei confronti della storia e del suo futuro approdo, poiché vuol dire che il mondo non è nelle mani dei malvagi, ma che Dio custodisce il futuro del mondo e lo conduce verso un termine felice.

Coloro che attendono con obbediente disponibilità una simile realtà sono per l’umanità intera portatori di una grande speranza, proclamata mirabilmente nell’Eucaristia: ciò che aspettiamo è un “regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace” (cf. prefazio del Messale Romano per la solennità di Cristo Re). La Chiesa è nel mondo testimone di Dio e del Suo dominio sull’Universo e si fa portatrice di una visione positiva delle cose, nonostante i grandi mali che affliggono la vita umana, e di una prospettiva aperta su di un esito positivo della storia[6].

Nel famoso libro Méditation sur l’Église, il teologo gesuita Henri de Lubac ha proposto la formula: «È la Chiesa che fa l’Eucaristia, ma è anche l’Eucaristia che fa la Chiesa»[7]. Questa frase ha certamente riscosso un grande successo, ma è chiaro che, in pratica, la celebrazione dell’Eucaristia non basta a “fare la Chiesa”. La difficoltà sta nel fatto che la formula è presa isolatamente, mentre deve essere chiarita prima dalla tesi di Henri de Lubac nel suo libro Catholicisme, les aspects sociaux du dogme (1938): il Mistero si compie storicamente e socialmente.

In effetti, la formula aveva originariamente lo status di “paradosso”, che per de Lubac era un modo di avvicinarsi alla realtà. Tuttavia, il teologo francese Laurent de Villeroché mostra che dal Concilio in poi c’è stata la tendenza a dare priorità unilaterale all’uno o all’altro membro della frase. Oggi si tratta di ricomprendere la formula nel suo stesso paradosso, e quindi di riscoprire una visione sacramentale del ruolo della Chiesa. In questa prospettiva, è l’“economia del Mistero” che diventa l’orizzonte della vita sacramentale. Mentre ci siamo spesso concentrati sulla questione dell’efficacia sacramentale e delle sue condizioni, il paradosso lubacchiano ci invita a cogliere il legame tra l’azione rituale e la Chiesa, la quale è allo stesso tempo soggetto e beneficiario di tale azione. La sfida è quella di pensare, in termini sacramentali, «a partire dalla celebrazione stessa secondo la sua dinamica»[8]; è anche quella di comprendere la grazia sacramentale come l’offerta, nella Chiesa, di «un avvenimento comunitario che trasforma la storia»[9].

 

  1. Il potere dei segni: l’Eucaristia come forza centripeta (“ex-plosiva”)

Il sacerdote e instancabile indagatore dei misteri del cosmo e dell’essere umano, Pierre Teilhard de Chardin, spesso incompreso o frainteso per le sue folgoranti intuizioni, ha saputo testimoniarci, ancor più che insegnarci, che « l’Eucarestia è sempre celebrata, in un certo senso, sull’altare del mondo [perché è] il centro vitale dell’universo, il centro traboccante di amore e di vita inesauribile»[10], ancor più in un tempo come il nostro abitato, se non dilaniato, da tensioni e conflitti crescenti. Egli scrive poco oltre, sempre ne La Messa sul mondo, che:

 

« Una volta ancora, sotto la tovaglia mobile dei suoi fuochi, la superficie vivente della Terra si sveglia, freme, e ricomincia la sua spaventosa fatica. Io metterò sulla mia patena, mio Dio, l’atteso raccolto di questo nuovo sforzo. Verserò nel mio calice il succo di ciascun frutto che oggi verrà spremuto. […] È una cosa terribile essere nato, ossia, trovarsi irrevocabilmente importato, senza averlo voluto, in un torrente di energia formidabile, che pare voglia distruggere tutto ciò che trascina in sé. Io voglio, mio Dio, che per rovesciamento di forze, di cui solo tu puoi esserne l’autore, lo spavento che mi assale, davanti alle alterazioni senza nome che si apprestano a rinnovare il mio essere, si tramuti in una gioia incontenibile di essere trasformato in Te. Senza esitare, stenderò la mano verso il pane bruciante che mi presenti. In questo pane, dove tu hai racchiuso il germe di tutto lo sviluppo, io riconosco il principio e il segreto dell’avvenire che mi riservi»[11].

 

Come non riconoscere in queste parole così dense di emozione e sentimenti vividi e icastici lo stesso grido di sofferenza, ma al tempo stesso di fervente speranza cristiana, che anima ciascuno di noi? Allora il sacrificio eucaristico diventa il luogo nel quale innalzare confidenti a Dio tutte le nostre fatiche, trovando in esso quel centro unificante che dà senso e orientamento alle nostre esistenze. Questa consapevolezza trova espressività nell’atto di presentare le offerte all’altare. In questo atto liturgico, infatti, «il pane e il vino diventano, in certo senso, simbolo di tutto ciò che l’assemblea eucaristica porta, da sé, in offerta a Dio, e offre in spirito»[12]. È importante riscoprire e valorizzare la portata spirituale di questo gesto in cui portiamo all’altare le gioie e i dolori, le speranze e le inquietudini, le attese e le paure di un mosaico umano con storie e volti diversi capaci vivere la fraternità eucaristica del pane spezzato.

A tal proposito, desidero riprendere una delle voci più carismatiche dell’episcopato italiano, che certamente sa ancora smuovere le nostre coscienze. Il vescovo don Tonino Bello, profeta del nostro tempo, ci aiuta a comprendere l’Eucaristia alla luce dello splendido modello trinitario della “convivialità delle differenze” come antidoto ad ogni forma di “globalizzazione dell’indifferenza”:

 

«Il genere umano, Signore, è chiamato a vivere sulla terra ciò che le tre Persone divine vivono nel cielo: la convivialità delle differenze. Nel cielo, più persone mettono tutto in comunione sul tavolo della stessa divinità, così che fra loro rimane intrasferibile solo l’identikit personale di ciascuno, che è rispettivamente l’essere Padre, l’essere Figlio, l’essere Spirito Santo. Sulla terra, gli uomini sono chiamati a vivere secondo questo archetipo trinitario: a mettere, cioè, tutto in comunione sul tavolo della stessa umanità, trattenendo per sé solo ciò che fa parte del proprio identikit personale»[13].

 

L’Eucaristia ci propone sempre in maniera dirompente un cambio di paradigma ecclesiale e sociale: da una Chiesa spesso ripiegata su se stessa, che si autolegittima attraverso i “segni del potere”, ad una Chiesa che vive del “potere dei segni”, della presenza del Signore Risorto sempre vivo e operante. Scriveva ancora don Tonino:

 

«Noi non abbiamo i segni del potere, ma abbiamo il potere dei segni; il potere cioè di collocare sulla strada del mondo delle segnaletiche particolari, delle luci come sull’autostrada: ecco allora che la nostra comunità accoglie una famiglia, il vescovo accoglie degli sfrattati nel suo episcopio, le suore fanno spazio nel loro convento e dicono: “questo qua a noi non serve più; facciamone un centro di accoglienza, un osservatorio permanente per i bisogni, per le nuove povertà, non solo quelle finanziarie. Questo è il potere dei segni. Come Chiesa noi non possiamo risolvere il problema degli sfrattati, non compete a noi, deve farlo il sindaco con la giunta comunale; non tocca a me, vescovo, risolvere il problema dei tossicodipendenti. Però, io ho il potere di collocare dei segni sulla strada della gente e dire: “Gente, se io in casa mia porto degli sfrattati o dei marocchini, che cosa voglio dirvi? Voglio dirvi che anche voi dovete accogliere questa gente, perché con questa mentalità egoista così chiusa non riusciamo a combinare nulla, siamo una controtestimonianza a Gesù Cristo»[14].

 

Il concetto “il potere dei segni” di Tonino Bello si riferisce alla capacità di gesti e simboli, più che a parole o a gesti di potere, di comunicare profondamente e suscitare cambiamento. Don Tonino contrappone il “potere dei segni” ai “segni del potere”, evidenziando come un cristianesimo autentico si manifesti attraverso gesti di servizio e di umiltà che al contempo esprimono e alimentano la comunione, piuttosto che attraverso simboli di autorità. La forza del potere dei segni dovrebbe spronarci arche a una autenticità del gesto liturgico, perché questo si traduca in gesti di vita concreta secondo le declinazioni della prima comunità cristiana che è capace di vivere la koinonia attorno alla Parola accolta, il pane condiviso, i beni messi in comune (cfr. At 2, 42-47).

 

III. Verso una concreta “convivialità delle differenze”

Occorre adesso precisare la polisemia talvolta sfuggente del termine “comunione”, in latino communio, a sua volta strettamente legato a quello greco di koinonia, eppure ancor più emblematico e sfaccettato di quest’ultimo. In base alla sua etimologia indoeuropea, derivante dalla radice “–mun”, il termine genericamente tradotto in italiano con “comunione” attiene in primo luogo alla barriera, al vallo (cf. mœnia, ovvero le mura cittadine): le persone che stanno in communio sono quindi quelle accomunate dal vivere dietro la medesima barriera, che condividono cioè un comune ambito vitale delimitato, che le vincola le une alle altre, tanto che l’una è inevitabilmente rimandata all’altra.

Una seconda connotazione raffigurativa di questa parola è invece un rimando al munus inteso sia come compito, servito, ma anche come grazia, dono, regalo. Chi si trova in communio, pertanto, è tenuto ad un mutuo servizio, preceduto però da quel dono previo che si riceve solo perché possa poi essere trasmesso a propria volta agli altri; nel concetto di communio è così implicitamente incluso anche quello di dedizione, perché solo nel ricevere e nel trasmettere oltre, ovvero a partire dall’altro e in vista dell’altro, ciascuno realizza la propria essenza comunionale. In questo senso, allora, l’unità che è designata in communio ha il proprio “opposto”, i molti, non all’infuori di sé, ma al proprio interno; la sua unità è appunto l’unità dei molti che rimangono diversi.

L’unità si realizza per il fatto che i molti partecipano dell’unica e medesima realtà; ne deriva allora che communio significa una feconda mediazione di identità e differenza: ciò che è distinto, diverso o alieno da sé, viene composto in unità mediante la partecipazione a qualcosa di comune, senza che con ciò vengano dissolte le differenze. Possiamo vedere tutto questo rispecchiarsi plasticamente con quanto avviene in seno al dialogo ecumenico, all’interno e in forza del quale, a partire dalla comune identità battesimale ed eucaristica, si realizza un’unità tra fratelli e sorelle, che mai tuttavia si risolve in una tetra e triste uniformità, ma anzi consente a ciascuno e a tutti di conservare la propria peculiare specificità. E questo potrebbe analogicamente verificarsi anche nel dialogo interreligioso tra tutti coloro che sono fratelli di quell’unico padre nelle fede monoteistica che è Abramo.

Risulta del tutto evidente che il concetto di communio non può comunque mai essere compreso come qualcosa di statico, ma descrive piuttosto una realtà dinamica, secondo un processo continuo di attuazione vitale di relazione amorosa. San Paolo per primo ha collegato infatti questo vocabolo, koinonia, all’immagine del “corpo di Cristo”, il quale non si presenta ai credenti come un mero individuo delimitato, bensì si offre a tutti gli uomini come “corpo” appunto, ovvero, secondo il linguaggio e la mentalità biblici, come mezzo di relazione e di comunicazione. Tutti sono pertanto invitati a prendere parte, in qualità di “membra” del suo corpo, alla sua vita, ad essere uno con lui, che è il capo, e tra di loro, essendo tutti compenetrati dalla medesima forza vitale del corpo, lo Spirito Santo, che, ricevuto come caparra, lascia sperare nella realizzazione della koinonia con Cristo e, in lui, con i molti fratelli e sorelle[15].

Il grande padre apostolico della Chiesa, Sant’Ignazio di Antiochia, scrisse nel secondo secolo, nella sua lettera agli Efesini, del potere dell’Eucaristia e della sua capacità di unirci a Cristo e di vivere per sempre, nell’eternità, consigliando di “ubbidire al vescovo e ai presbiteri in una concordia stabile, spezzando l’unico pane che è rimedio di immortalità, antidoto per non morire, ma per vivere sempre in Gesù Cristo”. L’Eucaristia, dunque, è il nostro “cibo per il viaggio”, che ci spinge alla visione beatifica di Dio, dove la morte non esisterà più. Si tratta di quel pane sceso dal cielo di cui nutrendoci non potremo che vivere in eterno, a differenza di chi mangiò la manna nel deserto e poi morì, pur avvolto dall’amore del nostro Dio (cf. Gv 6, 53-58). Se desideriamo l’immortalità vera e duratura, volgiamoci allora a Gesù nell’Eucaristia, perché solo così possiamo essere in “perfetta unione di pensiero e d’intenti”, senza perderci in sterili quanto puerili discordie per cui si comincia a dire “io sono di Paolo, io invece sono di Apollo, e io di Cefa” (cf. 1Cor 1, 10-11). Dato che la comunione dei credenti consiste invece nella partecipazione all’unico Signore, la divisione tra di loro significa una “lacerazione” dello stesso Cristo, mentre invece l’unanimità (cf. At 2,42) equivale all’accettazione dello stesso Signore e del suo Spirito.

Non sono mancati coloro che hanno osservato che il concetto di communio non abbraccerebbe l’insieme della fede cristiana, in quanto al suo interno non troverebbe posto l’evento decisivo della croce, e per tale motivo sarebbe invece più adatta la kenosis, intesa come dedizione che si spoglia di sé, a costituire l’idea centrale della fede. Eppure, nel concetto di communio, in realtà, è dato come strutturalmente previo e al contempo affermato l’elemento kenotico nel momento stesso della dedizione: se Dio Trinità è radicalmente communio e si rapporta come tale, in modo del tutto libero, anche in relazione alla creazione, allora nelle condizioni di una creazione che si sottrae alla communio, la stessa diviene necessariamente una communio kenotica.

 

Per non concludere… una Chiesa eucaristica di missione e comunione

Avviandoci alla conclusione, potremmo chiederci quale può essere il traguardo esistenziale verso cui può divinamente tendere la nostra identità umana, resa cristiforme e mirabilmente divinizzata “nel” e “dal” sacramento dell’Eucarestia, indefettibile rendimento di grazie? Continua a risponderci don Tonino Bello che tale meta è la pace, perché:

 

«La pace è convivialità. È mangiare il pane insieme con gli altri, senza separarsi. E l’altro è un volto da scoprire, da contemplare, da togliere dalle nebbie dell’omologazione, dell’appiattimento. Un volto da contemplare, da guardare e da accarezzare e la carezza è un dono. La carezza non è mai un prendere per portare a sé, è sempre un dare. E la pace cos’è? È convivialità delle differenze. È mettersi a sedere alla stessa tavola fra persone diverse, che noi siamo chiamati a servire»[16].

 

Se dunque il nostro itinerario eucaristico e di fede non può che giungere ad una pace “disarmata e disarmante, umile e perseverante”, quale quella che viene annunciata dal Risorto a tutti noi, ogni giorno, occorre al tempo stesso che la Chiesa si configuri realmente come quell’“ospedale da campo” capace di accogliere e curare le ferite provocate dalla guerre, chiamandoci a compiere continui gesti esodali per essere cristiani vigili, “in uscita”, alle soglie di tutte le periferie umane in missione permanente, sempre consapevoli dell’osmosi esistente tra sinodalità e missionarietà, in quanto la missione rappresenta il fine ultimo di ogni processo sinodale e la sinodalità costituisce quello stile ecclesiale con cui vivere la missione evangelizzatrice dentro e fuori la Chiesa.

Una visione cristocentrica ci permette di fondare un’ecclesiologia missionaria sulla categoria di Popolo di Dio, così da riscoprire quella vocazione universale alla missione evangelizzatrice, propria di ogni battezzato. Come emerge dalla costituzione Lumen Gentium del Concilio Vaticano II, sono tre in definitiva le tre caratteristiche fondanti il Popolo di Dio: la messianicità, perché esso si offre come strumento di salvezza e di redenzione per tutti gli uomini, testimoniando la speranza e annunciando la venuta della salvezza messianica; la profeticità, che implica la partecipazione di tutti i battezzati, ciascuno dotato del sensus fidei per il discernimento, alla funzione evangelizzatrice della Chiesa; la missionarietà, perché opera comune a tutti i cristiani e continuazione della missione salvifica stessa di Cristo.

Rifacendoci all’Evangelii Gaudium dell’amato papa Francesco, a ragione considerata da molti un testo sistematico e illuminante sull’evangelizzazione, siamo chiamati a concepire la missione della Chiesa in termini di “uscita” e, di conseguenza, a prendere coscienza della necessità di una pastorale in continua e permanente conversione missionaria per il rinnovamento non solo delle strutture, ma innanzitutto della missione della Chiesa, per obbedienza alla voce di Cristo che, nello Spirito Santo, conduce fuori ogni battezzato, affinché diventi testimone di misericordia e di vita nuova.

In tal modo, ci vengono restituite la bellezza e l’urgenza riformatrice di una Ecclesia tota missionaria (AG, n. 35), per riprendere la famosa espressione del decreto conciliare Ad Gentes, in cui ciascun cristiano possa riconoscersi oggetto e al tempo stesso soggetto dell’evangelizzazione.

 

     Napoli, 27 Agosto 2025

 

✠   Francesco Savino

Vescovo di Cassano all’Jonio

      Vicepresidente Conferenza Episcopale Italiana

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia:

 

Bello, Antonio, Convivialità delle differenze. Omelie crismali, Molfetta (Ba), Edizioni La Meridiana, coll. “Paginealtre… i libri di don Tonino Bello”, 2006.

 

____, Messaggio letto a Verona durante “Arena Golfo”, 27 gennaio 1991.

 

de Chardin, Pierre Teilhard, Inno dell’Universo, Brescia, Queriniana, coll. “Biblioteca di cultura” 5, 20222.

 

de Lubac, Henri, Meditazione sulla Chiesa, prefazione di Marcello Semeraro, Jaca Book/La civiltà cattolica/Corriere della sera, Milano-Roma, coll. “La biblioteca di papa Francesco” 7, 2014 [1952].

 

de Villeroché, Laurent, L’Eglise fait l’Eucharistie, l’eucharistie aussi fait l’Eglise. Un paradoxe en sacramentaire, Éd. du Cerf, Paris, coll. “Cogitatio Fidei” 313, 2021.

 

Dianich, Severino, Noceti, Serena, Trattato sulla Chiesa, Brescia, Queriniana, coll. “Nuovo corso di teologia sistematica” 5, 20052.

 

Francesco, Esortazione apostolica “Evangelii Gaudium” sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, Roma, 24 novembre 2013.

 

Francesco, XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione. Documento finale, Città del Vaticano, 26 ottobre 2024, testo online, URL: https://www.synod.va/content/dam/synod/news/2024-10-26_final-document/ITA—Documento-finale.pdf. Consultato il 24 giungo 2025.

 

Greshake, Gisbert, Il Dio unitrino. Teologia trinitaria, Brescia, Queriniana, coll. “Biblioteca di teologia contemporanea” 111, 20083.

 

Leone XIV, Discorso tenuto durante l’incontro con i Rappresentanti dei Media convenuti a Roma per il Conclave, Roma, 12 maggio 2025, testo online, URL: https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2025/05/12/0309/00533.html. Consultato il 24 giungo 2025.

 

____, Discorso ai Vescovi italiani, Roma, Aula della Benedizione, 17 giugno 2024, testo online, URL: https://www.vatican.va/content/leo-xiv/it/speeches/2025/june/documents/20250617-cei.html. Consultato il 24 giugno 2025.

 

Ratzinger, Joseph, Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2014.

[1] Leone XIV, Discorso tenuto durante l’incontro con i Rappresentanti dei Media convenuti a Roma per il Conclave, Roma, 12 maggio 2025, testo online, URL:https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2025/05/12/0309/00533.html. Consultato il 24 giugno 2025.

[2] Id., Discorso ai Vescovi italiani, Roma, Aula della Benedizione, 17 giugno 2024, testo online, URL: https://www.vatican.va/content/leoxiv/it/speeches/2025/june/documents/20250617-cei.html. Consultato il 24 giugno 2025.

[3] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis 14.

[4] Sacramentum Caritatis 66.

[5] Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2014, pp. 81-87.

[6] Severino Dianich-Serena Noceti, Trattato sulla Chiesa, Brescia, Queriniana, coll. “Nuovo corso di teologia sistematica” 5, 20052, pp. 91-93.

[7] «C’est l’Église qui fait l’Eucharistie, mais c’est aussi l’Eucharistie qui fait l’Église ». Henri de Lubac, Méditation sur l’Église, Paris, Aubier, 1953. Ed. it.: Henri de Lubac, Meditazione sulla Chiesa, prefazione di Marcello Semeraro, Jaca Book/La civiltà cattolica/Corriere della sera, Milano-Roma, coll. “La biblioteca di papa Francesco” 7, 2014, p. 123.

[8] Laurent de Villeroché, L’Eglise fait l’Eucharistie, l’eucharistie aussi fait l’Eglise. Un paradoxe en sacramentaire, Éd. du Cerf, Paris, coll. “Cogitatio Fidei” 313, 2021, p. 42.

[9] Ibidem, p. 539.

[10] Pierre Teilhard de Chardin, Inno dell’Universo, Brescia, Queriniana, coll. “Biblioteca di cultura” 5, 20222, testo on line, URL: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/misticacristiana/lamessasulmondo.pdf. Consultato il 26 giungo 2025.

[11] Ibidem.

[12] Giovanni Paolo II, Dominicae Cenae, 9.

[13] Antonio Bello, Convivialità delle differenze. Omelie crismali, Molfetta (Ba), Edizioni La Meridiana, coll. “Paginealtre… i libri di don Tonino Bello”, 2006, testo online, URL: https://dontoninobello.wordpress.com/2015/09/14/la-convivialita-delle-differenze-2/. Consultato il 26 giungo 2025.

[14] Id., Messaggio letto a Verona durante “Arena Golfo”, 27 gennaio 1991.

[15] cfr. Gisbert Greshake, Il Dio unitrino. Teologia trinitaria, Brescia, Queriniana, coll. “Biblioteca di teologia contemporanea” 111, 20083, pp. 196-197.

[16] Antonio Bello, Convivialità delle differenze. Omelie crismali, Molfetta (Ba), Edizioni La Meridiana, coll. “Paginealtre… i libri di don Tonino Bello”, 2006, testo online, URL: https://dontoninobello.wordpress.com/2015/09/14/la-convivialita-delle-differenze-2/. Consultato il 26 giungo 2025.

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