Omelie

Ascensione del Signore


At 1,1-11; Sal 46; Ef 1,17-23; Mt 28,16-20

 

Domenica  21  Maggio  2023

 

Celebriamo oggi la Solennità dell’Ascensione che è sempre memoria di una manifestazione del Cristo risorto, glorificato dal Padre nella potenza dello Spirito Santo.

L’Ascensione, o Assunzione di Gesù al cielo, è raccontata come uno staccarsi di Gesù dai suoi, un essere portato verso il cielo.

Questa narrazione la troviamo sia nella conclusione del Vangelo secondo Luca che all’inizio degli Atti degli Apostoli, mentre negli evangelisti Matteo, Marco e Giovanni si raccontano le apparizioni del Risorto ma non si parla espressamente di una sua partenza, di un lasciare la terra per il cielo.

È opportuno puntualizzare che quando parliamo di Pasqua, Ascensione e Pentecoste, parliamo di un unico mistero declinato nelle sue diverse peculiarità, nelle sue diverse sfaccettature.

Va anche detto, per una contemplazione profonda del mistero che celebriamo in questa Domenica, che l’Ascensione del Signore è un mistero cristologico, attinente la vicenda di Gesù di Nazareth e la sua identità, e il mistero antropologico ed ecclesiale che concerne la nostra condizione di uomini e di discepoli del Signore risorto.

Tutte le letture di questa Solennità, sia pure con immagini differenti, ce lo ricordano.

Negli Atti degli Apostoli, nell’imminenza di essere “elevato in alto”, le ultime parole del Risorto riguardano proprio la testimonianza che i discepoli gli dovranno rendere fino al confine della terra.

L’apostolo Paolo nella Seconda Lettura, scrivendo agli Efesini, ricorda che l’essersi seduto di Gesù alla destra del Padre lo costituisce Signore di tutte le cose e fa della Chiesa il Suo corpo e la Sua eredità, segno della speranza alla quale la Sua Resurrezione ha chiamato tutte le donne e tutti gli uomini.

È soprattutto, ad ogni modo, la conclusione del Vangelo di Matteo, proclamato in questa Domenica, che mette in evidenza la relazione comunionale in cui Gesù riceve la signoria dal Padre nella Sua Resurrezione.

Infatti leggiamo: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”, potere che ora viene trasmesso ai discepoli come dono da vivere.

Entriamo in una riflessione più approfondita con il Vangelo di Matteo: “Gli undici discepoli andarono in Galilea sul monte che Gesù aveva loro indicato”. Sono chiamati discepoli e non apostoli perché devono ancora essere iniziati da Gesù, e sono nuovamente in Galilea, la terra in cui sono stati chiamati e sono rimasti per anni alla sua sequela.

Per l’evangelista Matteo la Galilea non è tanto la terra dell’infanzia di Gesù, quanto la terra voluta da Dio come luogo dell’evangelizzazione, la “Galilea delle genti, dei pagani”, terra ritenuta impura, “da cui non poteva uscire nulla di buono” (cfr. Gv 1, 46), terra di mescolanza di popoli lontana dalla città santa di Gerusalemme.

La Galilea, allora, è una terra di missione e di evangelizzazione per definizione, e qui i discepoli sono richiamati per ricominciare sempre alla sequela di Gesù, abbandonato e tradito.

Il luogo dell’appuntamento è il monte, luogo teologico per definizione per l’evangelista Matteo, laddove Dio si rivela e vuol essere ricordato, luogo dove Gesù aveva proclamato le beatitudini, là dove Pietro, Giacomo e Giovanni avevano contemplato la sua Trasfigurazione.

I discepoli, che avevano visto l’ultima volta Gesù catturato dai suoi nemici, al vedere Gesù “si prostrarono” ma al tempo stesso furono presi dal dubbio. Gesù si avvicina loro, non li rimprovera, anzi, dopo aver comunicato che gli è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra, un potere che non è quello mondano, tipico dei potenti della terra, ma una exousia ricevuta da Dio, affida loro un compito, la missione di andare e di fare discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.

Opportunamente sostiene Enzo Bianchi: “Ormai tutti gli esseri umani sono destinatari del Vangelo, che va proposto non imposto, che va offerto come testimonianza, non propagandato a parole, che va vissuto per essere eventualmente annunciato. Infatti, non si può insegnare e trasmettere il Vangelo senza viverlo e senza viverne! Ecco il compito dei discepoli, che in quell’ora in Galilea sono veramente piccola comunità, “piccolo gregge” (Lc 12,32): un compito che non guarda alla pochezza di chi lo svolge ma alla promessa di chi ha chiesto di viverlo e annunciarlo”.

Viene ridefinita da Gesù l’identità del discepolo: è uno reso tale grazie all’ascolto di Gesù, stando con Lui; è uno che è immerso nella vita della comunione divina, tra Padre, Figlio e Spirito santo; è uno che, vivendo di questa vita donata, accoglie l’insegnamento degli inviati, degli apostoli, della Chiesa, per vivere ciò che Gesù ha chiesto, per vivere il Vangelo.

Gesù aggiunge la sua grande promessa, in cui credere e sperare: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Questa è l’ultima parola del Vangelo di Matteo, questa è la nostra fede: il Signore Gesù Cristo, il Risorto, è con noi sempre. La sua Ascensione non è assenza ma è presenza più vicina. Se Dio aveva detto a Mosè: “Io sarò con te” (Es 3, 12), Gesù Cristo il Risorto ora lo dice a ciascuno di noi, battezzato nel suo nome.

Che stupore deve abitarci! Che bellezza!

Nessuno è abbandonato alle forze del male, al suo destino di morte, ma il Risorto si lega all’umanità in maniera indissolubile. È una alleanza eterna.

A conclusione è bello ed è giusto ricordare che oggi celebriamo la 57ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali.

Come sempre il Papa ci consegna un messaggio dal titolo che è tutto uno stile per chiunque è addetto alla comunicazione: “Parlare col cuore. «Secondo verità nella carità» (Ef. 4, 15)”.

Tra le tante cose significative che Papa Francesco scrive mi piace estrapolare dal suo messaggio quanto segue: “A volte il parlare amabile apre una breccia perfino nei cuori più induriti. Ne abbiamo traccia anche nella letteratura. Penso a quella pagina memorabile del cap. XXI dei Promessi Sposi in cui Lucia parla con il cuore all’Innominato sino a che questi, disarmato e tormentato da una benefica crisi interiore, cede alla forza gentile dell’amore. Ne facciamo esperienza nella convivenza civica dove la gentilezza non è solo questione di “galateo”, ma un vero e proprio antidoto alla crudeltà, che purtroppo può avvelenare i cuori e intossicare le relazioni. Ne abbiamo bisogno nell’ambito dei media, perché la comunicazione non fomenti un livore che esaspera, genera rabbia e porta allo scontro, ma aiuti le persone a riflettere pacatamente, a decifrare, con spirito critico e sempre rispettoso, la realtà in cui vivono”.

E tutto questo diventa ancora più possibile se seguiamo con gioia l’invito di Francesco di Sales “Fate tutto per amore, nulla per forza”.

Buona Domenica.

   Francesco Savino

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