Es 12, 1-8. 11-14; Sal 115; 1Cor 11, 23-26; Gv 13, 1-15
6 Aprile 2023
Quanto è seducente la celebrazione della “Cena del Signore”! Quanto stupore genera! Le parole faticano, sono impotenti ad esprimere la bellezza, la grandezza e la profondità di ciò che viviamo in questa liturgia, con la quale entriamo nel mistero dei tre giorni del triduo pasquale. È la celebrazione di due prediche: quella espressa con le parole, come sempre, e quella fatta di gesti, la lavanda dei piedi. Le parole e i gesti si illuminano e si alimentano reciprocamente. Il dono dell’Eucaristia e il comandamento dell’amore, attestato dalla reciprocità del servizio, diventano un tutt’uno, due facce della stessa medaglia.
È commovente l’immagine della lavanda dei piedi, è potente: è la rivelazione assoluta della nostra chiamata a servire e non a servirci degli altri, ma anche al farci servire, come dirà Gesù al Pietro incredulo!
Queste diverse declinazioni del servizio hanno almeno due comuni denominatori: l’amore e la fiducia. La Chiesa è chiamata solo al servizio, mai al potere! Entriamo in dialogo con il racconto che ci consegna l’evangelista Giovanni ogni anno. Siamo al capitolo tredicesimo con il quale inizia la seconda parte del Vangelo dove vengono raccontati gli ultimi momenti della vita di Gesù, la sua morte e la sua risurrezione.
L’Evangelista così inizia: “Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine”. In questa breve introduzione due sono le parole chiave: “li amò sino alla fine” e l’altra è la parola Pasqua.
Il testo ci dà un riferimento temporale, ci suggerisce che sta giungendo la Pasqua ebraica che fa memoria del passaggio dalla schiavitù alla libertà e Gesù è consapevole interiormente che è giunta la sua ora di passare, di fare Pasqua, da questo mondo al Padre. La Pasqua che Gesù sa di dover vivere, con una fortissima consapevolezza, è un passaggio da un luogo, questo mondo, ad una persona, il Padre. Ed è un passaggio che si compie con una ulteriore certezza: l’amore che Gesù ha vissuto, ha sentito e continua a vivere e sentire per i suoi. Questo amore è, al tempo stesso, un amare fino alla fine della sua vita ma è anche un amare fino al suo stesso compimento, cioè alla pienezza dell’amore. Il gesto che Gesù sta per compiere va interpretato sullo sfondo di questo duplice senso: il sopraggiungere della sua morte e della sua risurrezione, del suo ritorno al Padre e il compimento del suo stesso amore.
L’Evangelista annota stranamente che il Diavolo, cioè colui che divide, “ha gettato semi” nel cuore di Giuda e nell’esprimere l’azione del divisore, annota anche che Gesù è consapevole che il Padre aveva consegnato tutto nelle Sue mani, che era venuto da Lui e adesso a Lui ritornava. Mentre vive questa consapevolezza “Si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse intorno la vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto”. Il gesto di lavare i piedi era il gesto dello schiavo non ebreo che veniva compiuto quando si voleva accogliere qualcuno in casa propria. È un gesto radicalmente umile, di servizio. Un testo molto antico scoperto, ci tramanda un altro senso di questo gesto e racconta di una moglie che, per manifestare tutto il suo amore al marito, gli lavava i piedi. Il servizio si rende amore e l’amore si fa servizio come intima fiducia e dedizione totalizzante.
Allora è proprio alla luce di questo amore, sostegno di tutta la vita di Gesù, che va interpretato il gesto della lavanda dei piedi. Gesù non è il servo, è l’amante, colui che ama fino al compimento della vita e dell’amore e la lavanda dei piedi, di quei piedi sporchi, feriti, diventa il modo in cui si fa testimone per i suoi discepoli, di quell’amare, che arriva fino al dono della vita.
Interessante e significativa è la reazione di Pietro al gesto del Maestro: “Signore, tu lavi i piedi a me?” Rispose Gesù: “Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo”. Gesù invita dunque Pietro a fidarsi anche se ora non può comprendere il senso di quel gesto per cui vede soltanto il suo Signore che si fa schiavo. Pietro non ha quella consapevolezza interiore che ha Gesù, per cui tutto è guidato dall’amore. Pietro capirà il senso dell’amore solo in seguito. “Tu non mi laverai i piedi in eterno”! Gli rispose Gesù: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”.
Il fine primo ed ultimo di questa lavanda dei piedi non è evidentemente avere i piedi puliti ma è entrare in una relazione molto profonda con Gesù, avere parte con lui, per compiere la pienezza dell’amore. Gli disse Simon Pietro: “Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo”! Soggiunse Gesù: “Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti”. Sapeva infatti chi lo avrebbe tradito; per questo disse: “Non tutti siete puri”. Gesù sottolinea ancora una volta che la lavanda non serve per lavare i piedi e la testa ma per attestare e rinsaldare la relazione tra Lui e i suoi.
Dopo aver lavato loro i piedi, Gesù riprende le sue vesti si siede di nuovo e dice loro: “Capite quello che ho fatto per voi? Se dunque io, il Signore e maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni degli gli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi”. È interessante notare che Giovanni non dice che Gesù si è tolto l’asciugamano a testimonianza che Lui è colui che non ci abbandona mai e ci custodisce in pienezza con il suo amore. È colui che ci laverà sempre i piedi. L’esempio di Gesù ci spinge a fare dell’amore il fondamento, la ragione e il fine della nostra vita. La credibilità del nostro essere Chiesa consiste proprio nel vivere quest’amore inclusivo senza escludere nessuno.
La “lavanda dei piedi” costituisce allora l’unico e vero distintivo del nostro essere cristiani.
Questa sera laverò i piedi a dodici fratelli e sorelle immigrati che fanno vita in comune presso il progetto di accoglienza SAI gestito dal CIDIS di Cassano, dei quali due sono sopravvissuti alla tragedia di Cutro.
Gli immigrati sono un segno dei tempi che deve interrogarci responsabilmente perché è proprio sulla loro accoglienza, positiva e dignitosa, che si gioca la democrazia reale inclusiva, nonchè la civiltà.
La mistica Madeleine Delbrel così scrive:
“Se dovessi scegliere una reliquia della tua Passione
prenderei proprio quel catino colmo d’acqua sporca.
Girare il mondo con quel recipiente
e ad ogni piede cingermi dell’asciugatoio
e curvarmi giù in basso,
non alzando mai la testa oltre il polpaccio
per non distinguere i nemici dagli amici
e lavare i piedi del vagabondo, dell’ateo, del drogato,
del carcerato, dell’omicida, di chi non mi saluta più,
di quel compagno per cui non prego mai,
in silenzio,
finché tutti abbiano capito nel mio
il tuo Amore”.
✠ Francesco Savino
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