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Lettera pastorale Quaresima – Pasqua 2023


“Oggi sarai con me in Paradiso”

Quotidianità del morire e del risorgere

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Non affannatevi a cercare la morte con gli errori della vostra vita,

non attiratevi la rovina con le opere delle vostre mani,

perché Dio non ha creato la morte

e non gode per la rovina dei viventi.

Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano;

le creature del mondo sono portatrici di salvezza,

in esse non c’è veleno di morte,

né il regno dei morti è sulla terra.

La giustizia infatti è immortale.

Ma gli empi invocano su di sé la morte con le opere e con le parole;

ritenendola amica, si struggono per lei

e con essa stringono un patto,

perché sono degni di appartenerle.

 

Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità,

lo ha fatto immagine della propria natura.

Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo

e ne fanno esperienza coloro che le appartengono

(Sap 1,12-16; 2,23-24)

 

Siamo fatti per la vita, non per la morte. Il libro della Sapienza raccoglie l’esperienza di fede di Israele, riesce a dar voce all’ansia umana e instrada verso la pienezza ineffabile del mistero della morte e risurrezione di Cristo, in cui ogni uomo e ogni donna sono chiamati a risorgere.

Da queste righe del testo sacro emerge un sentimento di realismo e di fiducia, che si afferma sopra l’amarezza e la paura della morte. Sono parole che provengono da una radicata tradizione di fede, elaborata e pensata da una raffinata cultura.

Non ha soggezione l’autore sacro, quando con franchezza e speranza affronta la parola “morte”. Ne conosce il veleno mortale, è consapevole con rimpianto che l’uomo può lasciarsi afferrare dalle sue spire, ma al tempo stesso il sapiente sa alzare lo sguardo verso il Dio della vita. Avverte quindi che il veleno della morte non scaturisce dalle creature, perché la verità ultima delle cose create da Dio non è la morte, e l’uomo non le appartiene.

Di quale “morte” sta parlando, il libro della Sapienza? Pretende forse di illudere che  l’esperienza della morte non sia universale? O può davvero affermare che la morte non appartenga per natura all’essere umano? Cos’è per lui la incorruttibilità (“aphtharsia”)?

La parola “morte” non ha un solo significato. Dal testo della Sapienza affiora tutta la complessità sfaccettata che è indistricabile dal concetto di morte, in cui si stratificano millenni di esperienze e di culture, anche più recenti.

La prolixitas mortis

Mattia Preti, 1650
“Santa Veronica con il Velo”,
conservato oggi nel County
Museum of Art di Los Angeles

 

Per esempio, il nostro brano biblico può essere commentato facendo ricorso al tema della prolixitas mortis, cioè l’estensione, il prolungamento della morte. Questa espressione latina fu adoperata già da Gregorio Magno ed è stata presa in prestito da Karl Rahner, per spiegare come l’uomo muoia nella sua vita – la quale può sembrare per questo motivo uno sfibrante apparecchio alla morte –, ancor prima di giungere all’esaurimento biologico, ogni volta che attraversa la propria finitezza, ogni volta che subisce la propria debolezza fisica oltre che morale e spirituale[1].

La morte, di cui parla la Sapienza, è infatti un’esperienza che si può distendere lungo tutto il tempo terreno, attirata con gli errori della nostra vita e con le opere delle nostre mani. Non si tratta quindi solo del morire biologico, ma del quotidiano e drammatico separarsi dalla vita, dalla sua fonte, dalla sua bellezza. Questa morte è un atrofizzarsi della capacità umana di guardare le cose con saggezza, di realizzare il fine di salvezza di cui sono portatrici, di realizzare la giustizia, di amare.  Per questo, dice il testo, la morte è invocata “con le opere e le parole”, con essa gli empi “stringono un patto” e diventano “degni di appartenerle”.

È un tema che, teologicamente, ha a che fare con una matrice amartiologica (cioè riguardante il peccato): la morte, infatti, spiega nel suo epistolario san Paolo, è entrata nel mondo e nella storia comune degli esseri umani a causa del peccato di Adamo. Essa è il “salario” del peccato. La morte spirituale, la più radicale forma di morte, innanzitutto. Ma pure le altre tante forme manifestazioni della morte, fisica, morale, esistenziale. Non bisogna, infatti, misconoscere il fatto che anche il credente resta esposto alle tante “parole” che la morte dice a ogni essere umano fin dal momento del suo concepimento in poi, dall’estremo dell’aborto all’estremo dell’eutanasia o del suicidio. In effetti, malattia, fame, incomprensione, marginalizzazione, discriminazione, persecuzione, tradimento, sfruttamento, impoverimento, scoraggiamento, depressione,  risentimento, vendetta, rappresaglia, guerra, odio sono i termini di un lessico della morte, le parole che la promettono (e la minacciano) ad ogni piè sospinto, le parole persino che ne descrivono le premesse e i prodromi. In tutti questi frangenti, il cristiano sa che deve fare i conti con il retaggio di Adamo, sperimentando così – al pari di ogni altro figlio di Adamo – il destino fallimentare del progenitore che col peccato si staccò per primo da Dio, il Vivente Vivificatore, il Principio e la Pienezza della Vita. In una prospettiva non più cristiana, oggi, al tempo della secolarizzazione ormai divenuta regime totale, la vita – schiacciata tra la malattia e la morte, costretta a restare «senza qualità» – può diventare un tedio profondo, un disagio insopportabile, fino ad arrivare all’eutanasia. È la deriva nichilistica che l’uomo «gettato incontro alla morte», per dirla con Martin Heidegger, vede continuamente oggi slargarsi davanti al proprio sguardo angosciato.

 

L’esperienza quotidiana della risurrezione

Nella prospettiva del pensiero cristiano, tuttavia, la prolixitas mortis può far pensare anche alla notte oscura che il credente sperimenta non quando si stacca dalla memoria della Pasqua, ma proprio allorché la vive misticamente e personalmente, assieme a Chi muore sul Golgota. Come scriveva Karl Rahner, «[…] non si muore della morte di Adamo […], ma, lo si sappia o no, della morte di Cristo»[2]. È quella che fu già l’esperienza radicale del concrocifisso del Golgota che a Gesù chiede, secondo il racconto lucano: «Ricordati di me quando sarai nel tuo regno» (Lc 23,42). La risposta di Gesù illumina di senso la morte, ne trasfigura il volto, rivelando che essa – vissuta assieme a Lui e come Lui – è già un momento (cruciale sarebbe il caso di dire) della vita nuova, della risurrezione: «Oggi sarai con me in Paradiso». Non si tratta soltanto di una promessa, ma di una constatazione che segnala allo sguardo debole del concrocifisso il compimento ormai in corso della promessa stessa. Oggi. Con me. Come a dire: qui e ora. Il Paradiso, il Regno, non si disloca chissà in quale angolino dorato del Cielo, al di là delle nubi, ma piuttosto il rapporto col Cristo, la comunione con lui, il lasciarsi associare al suo destino. «L’evento della morte – commenta Luciano Manicardi – viene sottratto alla sua forza isolante, e diviene occasione di comunione. “Con me”: la salvezza trova il suo contenuto in queste due parole. (…) La morte di Gesù, proprio nella sua irripetibile unicità in quanto morte del Messia e del Figlio di Dio, si rivela decisiva e illuminante per aiutarci a vivere la nostra morte, per innestare la speranza cristiana proprio al cuore dell’evento ineluttabile della fine della vita: “Oggi sarai con me in paradiso”»[3].

Ma questa relazione salvifica avviene, appunto, sul Golgota, nel bel mezzo del dramma della crocifissione. Nell’atto del morire (che sottrae la morte a una definitività inappellabilmente statica e perciò irrecuperabile, oltre che inevitabile, c’è la risurrezione. Ciò avviene se si muore con Cristo e, se non proprio come lui, almeno guardando a lui e interloquendo con lui, chiamandolo per nome (“Gesù, Dio che salva”), come faceva il brigante che gli moriva accanto, nell’ora più decisiva, l’ora della verità della sua vita, in quell’appuntamento con il senso complessivo dell’esistenza. Lì il morente si confrontava con Cristo, misurava in quei pochi istanti il peso di tutte le sue azioni, comprendeva alla fine il suo errore madornale: l’aver cercato il regno di Dio nella violenza esercitata da lui e dai suoi compagni contro  gli invasori romani, di alcuni dei quali era stato omicida e per questo scontava la sua pena, secondo le sue parole rivolte all’altro condannato alla stessa pena (Lc 23,40). Gli era diventato chiaro che quel titolo della croce che pendeva su Gesù diceva la verità: era lui il Re dei giudei e quel Re egli invocava: «Ricordati di me quando verrai con il tuo Regno»[4].

Se per il brigante pentito quel Regno viene assicurato da Gesù come paradiso, che tale sarà perché si ritroverà oltre la morte con lui e in quello stesso giorno, per noi accade qualcosa di simile, se rivolgendoci a Gesù gli chiediamo già oggi di non dimenticarci, anzi di coinvolgerci nella venuta del suo Regno.

Quel Regno allora effettivamente viene, ma porta con sé anche la nostra risurrezione. Essa non è procrastinata a chissà quando, ma è già esperienza quotidiana, nel bel mezzo di tutti i nostri guai, di tutte le nostre fatiche, di tutte le nostre sofferenze, di tutti i nostri fallimenti. È nel cercare nel fallimento il regno di Dio e nella nostra fallacia la potenza dello Spirito del Risorto. Al tempo stesso, lo sappiamo, la risurrezione non ancora è esperienza immediata e beata della Vita. In questa tensione tra il già e il non ancora, noi siamo chiamati dalla Vita, per appartenere ad essa, ed esserne testimoni.

Ma rimaniamo ancora un po’ sul Golgota, su quest’altura in cui tutta l’umanità è invitata a lasciarsi associare alla morte di Cristo.

Siamo invitati nella persona del misero concrocifisso, al quale il Signore mostra la forza rinnovatrice del suo amore misericordioso ad affidarci a Colui che sta morendo al suo fianco. Come succede con quell’uomo accolto nel suo morire, anche noi rinasciamo. Si compie in lui, come si compie per l’umanità, una nuova creazione: il condannato dagli uomini diviene un cittadino del cielo, il reietto viene innalzato.

L’umanità è abbracciata dalla morte di Cristo anche nelle sue parole che intercedono il perdono e sono rivolte al Padre: «Perdona loro perché non sanno quello che fanno». Nel suo morire, il Crocifisso risana la separazione degli uomini da Dio, sconfigge le logiche diaboliche (letteralmente, “divisive”) che si alimentano di sospetto e di acredine, rinnova l’umanità nella relazione del perdono e della comunione, a cui sono accolti tutti coloro che si lasciano trafiggere dalla misericordia.

Anche nell’apostolo Giovanni, che Gesù consegna a sua Madre come figlio, è tutta l’umanità che rinasce sotto la croce nella condizione di figliolanza. Dal grembo della Madre del Figlio di Dio vengono generati come figli i suoi discepoli, coloro che si lasciano redimere da suo amore crocifisso, per entrare con lui nella risurrezione.

Non sono associati alla morte di Cristo solo coloro che già lo avevano conosciuto come discepoli. «Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15,39). Quel centurione rappresenta tutti gli uomini di tutte le genti, chiamati a divenire un solo popolo, ad essere «associati al mistero pasquale» (cfr. GS 22).

La morte del Dio fatto uomo redime, apre l’umanità alla risurrezione, non solo per la dimensione sacrificale della sofferenza estrema, ma per la definitività dell’amore con cui Gesù consegna al Padre la propria umanità e, in essa, unisce a sé a tutti gli uomini. Si compiono, oltre ogni possibile aspettativa, anche quelle parole del libro della Sapienza. Non bisogna più cercare l’incorruttibilità guardando indietro, allo stato primigenio della creazione, perché, come stabilisce San Paolo, l’incorruttibilità per cui l’uomo è stato creato è compiuta e superata dalla risurrezione e dalla vita (cfr. 1Cor 15). Non sarà più il danno della morte a dire l’ultima parola contro l’uomo che sembra comunque appartenerle. Non è più così. In realtà l’uomo appartiene ormai a Cristo e nella sua morte anche la sua morte riceve un senso e una direzione: ad ogni uomo è data la grazia di accogliere piuttosto la risurrezione e la vita, come ultima Parola, definitiva e compiuta, del proprio essere. Non apparterrà più alla “invidia del diavolo” il potere di determinare inesorabilmente l’esperienza di morte delle creature, ma ad ognuno è concessa la libertà di fare l’esperienza quotidiana della carità e della risurrezione.

Ne consegue che anche i concetti di morte e vita sono definitivamente trasformati e redenti. La verità della morte non è quella dell’empio, con il suo ineluttabile effetto di distruzione; ma quella del Figlio, che si consegna al Padre presentandogli l’umanità da far risorgere nel perdono. E la verità della vita non è quella della creatura incorruttibile, ma è il dono di Dio che perennemente discende dallo Spirito di Cristo. È un dono continuamente effuso dal Dio che non tradisce, e perennemente soffia la sua Grazia nei cuori delle sue creature.

Dal Golgota, scaturisce allora per l’umanità intera la quotidianità della vita e del risorgere, la perenne fonte dello Spirito che permette di amare, di servire, di offrire, di perdonare, di «riscoprire la grazia della quotidianità», come disse papa Francesco nell’omelia della Veglia Pasquale del 2021. La risurrezione sia sempre per noi un’esperienza quotidiana.

Testimoni “ordinari” della risurrezione

Invito pertanto tutti, sorelle e fratelli nel Signore, sorelle e fratelli destinati alla resurrezione, a ricordare le parole che Benedetto XVI pronunciò nel 2006 ai delegati della Chiesa italiana riuniti a Verona: «La risurrezione di Cristo è un fatto avvenuto nella storia, di cui gli Apostoli sono stati testimoni e non certo creatori. Nello stesso tempo essa non è affatto un semplice ritorno alla nostra vita terrena; è invece la più grande “mutazione” mai accaduta, il “salto” decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine decisamente diverso, che riguarda anzitutto Gesù di Nazareth, ma con Lui anche noi, tutta la famiglia umana, la storia e l’intero universo». Tutta la famiglia umana è condotta da Gesù in una dimensione della vita totalmente nuova: non un passaggio tale che nel prima siano del tutto insite le condizioni e le premesse del dopo, ma una trasformazione radicale, la creazione di un novum che scaturisce solo dall’agire di Dio. Quell’agire che ha fatto di un morente considerato maledetto, il primo dei risorti. Gesù nella sua risurrezione ha iniziato ad esercitare anche su di noi una forza che ci trascina con sé, che ci riporta alla vita, ben oltre la morte.

Sappiamo che la straordinarietà di questo evento assolutamente nuovo non è visibile immediatamente come mutamento della terra in cielo o della storia in eternità. E tuttavia è reale nell’ordinarietà della vita dei redenti: più che un fatto del Cielo, la risurrezione è un fatto che riguarda la terra. O ancora meglio: il Cielo ormai impasta d’eternità la nostra quotidianità, la nostra terra. La risurrezione di Cristo «è stata dunque come un’esplosione di luce, un’esplosione dell’amore che scioglie le catene del peccato e della morte. Essa ha inaugurato una nuova dimensione della vita e della realtà, dalla quale emerge un mondo nuovo, che penetra continuamente nel nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé» – proseguiva Benedetto XVI. Cogliamo per ora questo esito: la straordinarietà della risurrezione si realizza nell’ordinarietà dell’amore che i risorti possono vivere. L’evento della risurrezione non distrugge questo mondo, ma lo pervade  ogni giorno e lo attira a sé.

In questo senso noi attendiamo, realizzandola,  «la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà», pur andando verso risurrezione come compimento escatologico. Ciò significa che dobbiamo vivere da risorti, accogliendo la risurrezione qui e adesso, riconoscendola operante in questo mondo in tutti  coloro che si lasciano abbracciare dalla misericordia del Risorto. La casa della risurrezione se non è ancora nella definitività del Cielo è già nell’ordinarietà della vita terrena.

Com’è possibile tutto ciò e quale ne è la spiegazione ultima? Eccola: «La cifra di questo mistero è l’amore e soltanto nella logica dell’amore esso può essere accostato e in qualche modo compreso: Gesù Cristo risorge dai morti perché tutto il suo essere è perfetta e intima unione con Dio, che è l’amore davvero più forte della morte». Ogni testimonianza della carità – vorrei scandire: ogni quotidiana, ordinaria, normale testimonianza della carità – qui, oggi, è segno della risurrezione, della vittoria dell’amore sulla morte.

Riecheggia un commento del card. Martini: «L’eternità, la vita nuova, vera e definitiva è già entrata con la Pasqua di Cristo nella mia esperienza, è da me vissuta qui e adesso nella indistruttibilità dei gesti che io pongo – di fedeltà, di pace, di amore, di perdono, di amicizia, di onestà, di libertà responsabile. Sono gesti in cui, nel tempo, l’uomo supera il tempo raggiungendo l’eternità, nella misura in cui si affida alla vita e all’eternità del Crocifisso Risorto che ha vinto la morte»[5]. La fragilità e la precarietà della nostra condizione umana sono pertanto risanate e la nostra vulnerabilità è continuamente guarita dal germoglio nascosto e tuttavia invincibile che dimora in noi in forza della nostra partecipazione alla sofferenza, alla morte e alla risurrezione di Cristo. Per questo il card. Martini prosegue: «La Risurrezione di Gesù non è soltanto ciò che ci attende dopo la morte; è un fatto pasquale presente, che si attua giorno dopo giorno in colui che crede e che spera, che soffre e che ama, che si lascia guidare dalla Parola nel quotidiano per seguire Gesù il quale, mediante la passione e la morte, compie il passaggio da questo mondo al Padre».

Siamo forse troppo abituati a declinare le parole post-moderne della morte, per poterci accorgere di quante parole della risurrezione ci avvolgono, ci abbracciano, vivono con noi e chiedono di essere pronunciate, annunciate, operate. Al glossario della morte, che richiamavo all’inizio di queste mie riflessioni, ora possiamo offrire in cambio il lessico della carità. Possiamo fare tutti questo esercizio, cristiani e non, per la sola condizione di essere parte di questo mondo abitato, penetrato, dalla risurrezione.

Alla luce di tutto ciò riscopriamo il lessico della carità attraverso le voci verbali, dato che i sostantivi sono maggiormente associati alla staticità perché i verbi dicono uscita da sé, processi non sempre compiuti, cammini di vita ordinaria, accettazione della provvisorietà, che è caratteristica di questo mondo. Abbracciando il lessico della carità, abbracciamo i fratelli e le sorelle in esso coinvolti: curare, sfamare, comprendere, accogliere, integrare, proteggere, rispettare, promuovere, donare, incoraggiare, stimare, perdonare, ringraziare, rappacificare, amare.

Sono verbi che indicano cura dell’altro, degli altri, diventati carne della mia carne, sangue del mio sangue, storia della mia storia, pezzo determinante del mio mondo, quel mondo dove ci è dato di vivere.

Riconoscere, apprezzare e valorizzare luoghi e persone dove tali verbi sono già in atto significa per noi scorgere e indicare profeticamente le presenze della carità in opera, saperle incarnare e testimoniare: questa è missione da risorti.

Nel nostro mondo la carità non è certamente estinta, né si è ritirata in pensione, né ha paura di mostrarsi. È sempre lì, ma spesso non cerca riflettori artificiali, perché – lo sappiamo – essa non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non cerca il proprio interesse… Neanche il sale e il lievito si fanno vedere, eppure…

Ma proprio perché per sua natura la carità si cela nell’ordinario, aiutiamola a venire in piena luce. Non per darle gloria umana, ma per dare fiducia al mondo: la risurrezione è qui, la carità possiamo viverla anche noi, c’è vita anche per noi, noi tutti.

I germi di risurrezione nella nostra terra

Quando proclamiamo nella fede che il Signore è risorto per tutti, ci crediamo fino in fondo che quel “tutti” non è un concetto teorico, ma molto concreto? Lo riconosciamo che quel “tutti” significa anche questa umanità, questo tempo, questo mondo? Significa anche “noi”, “qui”, “ora”? Non si tratta di privatizzare l’evento della risurrezione, ma di incarnarlo. Accogliere, annunziare e diffondere la sua forza trasformatrice attraverso le nostre esistenze concrete, nei nostri contesti particolari.

Nella nostra terra, dobbiamo riconoscerlo, siamo a volte portati a chiuderci in una malinconica e sterile disamina dei padroni di morte e dei vincoli di oppressione che ci attanagliano. Ci lasciamo trasportare non di rado dal fatalismo e dalla rassegnazione, atteggiamenti forse anche comodi, più che dalla visione cristiana della costruzione del regno di Dio e dalle enormi risorse depositate in noi dalla forza rigenerante della risurrezione del Signore.

Allora chiediamoci: quanti germi di risurrezione ci sono nella nostra terra? Come possiamo aiutarli a venire alla scoperto e ad agire? La luce della Pasqua è anche questo risveglio della coscienza e dell’amore, che ci porta a saper riaprire uno sguardo di fiducia, anche di stupore, davanti al bene che ci precede e ci supera, e da cui si può sempre ripartire in modo costruttivo.

E allora, così come il tempo di Quaresima tradizionalmente richiama a volgere la nostra coscienza verso negatività da individuare e correggere con rinunce e sacrifici, così anche il tempo di Pasqua può e deve essere colto come il momento favorevole per volgere la coscienza verso il bello che c’è attorno a noi, per saperlo nominare, apprezzare con animo riconoscente, valorizzare. Ma anche questo sguardo verso il kalòs, verso la bellezza/bontà/verità, richiama a una dimensione di impegno/sacrificio/offerta: l’impegno a farci testimoni e servitori del bene della nostra terra.

Tenere lo sguardo aperto al kalòs, non vuole dire rifugiarsi vilmente in un vago ottimismo consolatorio, che finga di non vedere la realtà. Tutt’altro, significa volgersi costruttivamente ai semi della risurrezione che vivono e attendono di fruttificare; darsi da fare perché non siano soffocati dai rovi, non si nascondano tra i sassi, non si disperdano sulla strada. Occorre riscoprirli con gli occhi del “Piccolo Principe”: i germi della risurrezione si vedono solo con il cuore. Ma sono lì, vivi, pronti a trasformare questa terra.

Se convertiamo il cuore al Vangelo, la Grazia di Cristo ci aiuterà a scoprire, a vedere, a far germogliare in noi questi semi. Trasformerà il nostro malcelato e pervasivo malessere in cuori che compiono gesti di perdono, coscienze che spezzano le catene della cultura mafiosa, occhi che scovano i bisogni dell’altro, teste che studiano con fatica e non vagano nella vanità, braccia che lavorano con giustizia, reti di collaborazione, relazioni di onestà, valorizzazione del merito, comunità che accolgono, scelte virtuose di ecologia integrale, energie spese a servizio della casa comune. I germi di risurrezione sono accolti quando ognuno di noi almeno può incarnare o aiutare alcuni di questi valori, senza liquidarli subito come banali e scontati. Finché gli impegni “normali e quotidiani” saranno visti come “banali e scontati”, non aspettiamoci eventi straordinari ed epocali per poter risorgere.

Accettare invece la logica della risurrezione quotidiana, significa accettare responsabilmente e con amore la fatica del cammino lento, che non porta necessariamente a un inesorabile progresso verso il meglio, ma che sa dirigersi verso la giustizia e la carità. Finché camminiamo nella storia, né la nostra terra, né l’umanità intera potranno uscire dalle contraddizioni e dalle tensioni tra luce e tenebre, peccato e grazia, morte e vita. Ma la forza irresistibile del Risorto, anche qui e oggi, può orientare i nostri piccoli passi verso la luce, la grazia, la vita.

Ve lo auguro con tutto il cuore, nella fraternità di chi sa che deve accompagnare ed essere accompagnato, camminando accanto a Colui che ci ha tutti chiamati, “convocati” e ci dà ogni giorno la gioia di vivere e la gioia di continuare a migliorare questa nostra terra: il Cristo risorto e vivente, ieri oggi e sempre! A lui sia gloria e a lui vada tutto il nostro amore!

 

Cassano all’Jonio, 22 Febbraio 2022

          Mercoledì delle Ceneri

   Francesco Savino


[1]      Cfr. K. Rahner, Prolixitas mortis, in Aa.Vv., Mysterium salutis, a cura di J. Feiner e M. Löhrer, Queriniana, Brescia 1978, X, pp. 560-567 e Id., Il morire alla luce della morte, ibid., pp. 568-594, ora ripubblicati insieme: Il morire cristiano, Queriniana, Brescia 2009.

[2]     K. Rahner, K. Rahner, Digressione sul martirio, in Id., Sulla teologia della morte. Con una digressione sul martirio, Morcelliana, Brescia 1966 [orig. 1958], p. 81.

[3]     http://dimensionesperanza.it/aree/spiritualita/item/5713-la-morte-di-ges%C3%B9-nel-vangelo-secondo-luca-luciano-manicardi.html

[4]    Traduzione più attendibile di quella attuale. Cfr. G.Mazzillo, Da Gesù alla chiesa. Un approccio teologico al Gesù storico, San Paolo, Cinisello B.(MI), 214.

[5]     Carlo Maria Martini,  Ritrovare se stessi, Edizioni Terra Santa, Milano 2021, 278-279.