Lettera di Mons. Francesco Savino ai presbiteri

Essere presbiteri oggi, con il coraggio del nostro Dio

Messa crismale

2022

 “Abbiamo avuto il coraggio nel nostro Dio di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte” (1Ts 2,2)

Carissimi fratelli presbiteri,

abbiamo la gioia di ritrovarci radunati tutti insieme nella Messa crismale. Rivolgendoci verso il diacono che proclama il Vangelo, riascoltiamo le parole di Gesù che ci vengono trasmesse da questa liturgia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me… Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato…”.

Credo che non ci rendiamo mai conto abbastanza della forza disarmante di questa Parola, che ci raggiunge al presente. Al presente: lo Spirito del Signore è sopra di me… oggi… Certo, la Parola è sempre presente, viva tra noi, e intellettualmente questo non ci sorprende. Eppure, la consapevolezza del sapere non può sminuire il senso dello stupore e del tremore davanti a un mistero che non “si ripete”, ma è sempre nuovo. Oggi la Parola di Dio giunge a noi non semplicemente come parola ridetta, sempre uguale a se stessa, ma come voce viva, attuale, che sa aprire nuove brecce nella nostra anima e illuminare nuove vie per i nostri passi.

Se ci trovassimo insieme solo per riproporre delle usanze rituali e per riascoltare quanto già altre volte fu annunziato alle nostre orecchie, allora la nostra presenza sarebbe solo un reiterare il passato, una replica di prassi, rassicurante quanto sterile. E, in una mera liturgia “rievocativa” del passato, anche la Parola risulterebbe “innocua”, incapace di scomodare i pensieri, le scelte, le azioni del nostro presente.

E invece la Parola di Dio ci incontra proprio oggi, con la sua forza di risvegliare i cuori, di animare, convocare, esortare, correggere, purificare, inviare. Lasciamoci interpellare, come singoli presbiteri e come comunità di presbiterio; presentiamoci fiduciosi, liberi e senza barriere davanti al suo appello; usciamo da ogni possibile forma di riparo che ci acquieta e lasciamoci condurre nel campo aperto della missione quotidiana, dove la nostra coscienza si espone senza riserve al confronto con la realtà e il nostro ministero si inoltra su percorsi in parte già noti, ma anche su terreni inesplorati. Questo comporta che la nostra fedeltà non possa mai adagiarsi sulla mera “normalità” o nell’abitudinarietà delle rive su cui riassettiamo le reti. Proprio poche settimane fa, parlando dei presbiteri, il Santo Padre ci ha incoraggiati in tal senso: «Sento che Gesù, in questo momento storico, ci invita ancora una volta a “prendere il largo” (cfr Lc 5,4) con la fiducia che Lui è il Signore della storia e che, guidati da Lui, potremo discernere l’orizzonte da percorrere» (Discorso al Simposio “Per una teologia fondamentale del sacerdozio”, 17 febbraio 2022).

Oggi, le esigenze e le urgenze che la Parola di Dio ci fa discernere possono essere senz’altro diverse rispetto a ieri. Lo Spirito non solo può spingerci in terreni finora non battuti, ma anche mantenerci negli spazi già noti chiedendoci però attenzioni, azioni, linguaggi, modalità incompatibili con una pastorale di “conservazione”, o anche solo di “routine”.

Vorrei allora riflettere insieme a voi sulla fiducia rinnovata che oggi ci è chiesta proprio come presbiteri, in un contesto in cui a volte tutto sembra mutare ed esporci fuori da ripari rassicuranti, ma con la certezza che, se perseveriamo nella fedeltà, la nostra vita è custodita nel Cuore del Buon Pastore.

Ebbene, il nostro cuore di pastori deve essere pronto alla perenne novità dello Spirito, al mandato sempre attuale che il Signore oggi ci fa pervenire nella sua Chiesa. E se il nostro cuore è recettivo, orante, pronto, allora ci spinge ad agire con docilità e fiducia secondo le novità dell’ora presente. Vorrei notassimo queste due parole chiamate a corrispondersi, per costruire la nostra fedeltà nell’oggi: cuore e agire, cor e agere. Dalla loro interazione, nasce una qualità del cristiano – e tanto più del pastore – che non sempre consideriamo a sufficienza in chiave spirituale: cor e agere, nel loro richiamarsi, definiscono infatti il coraggio.

Ecco, con questo spirito, mi vorrei concentrare insieme a voi su questa parola, su questa esigenza, da riscoprire con fiducia e umiltà, se vogliamo aprirci senza riserve all’appello che il Signore ci rivolge oggi: cari confratelli, riscopriamo insieme il coraggio di essere presbiteri.

Cosa significa per noi oggi la parola “coraggio”

Forse non è usuale interrogarsi sul coraggio. Probabilmente, potrebbe sembrare una virtù di altri tempi, sia in ambito laico che religioso. Magari oggi sono più di moda altre qualità, almeno come ideali riconoscibili teoricamente: la tolleranza, la coerenza, il rispetto dei diritti, la giustizia, la libertà di scelta. La lode del coraggio sembrerebbe appartenere invece a culture piuttosto marziali, o identitarie, come se fosse intrinsecamente legata all’esaltazione della forza dell’individuo che affronta l’altro o le alterità in un atteggiamento di contrapposizione. Se il punto di vista fosse questo, l’enfasi sul coraggio, seppur riconosciuto come qualità preziosa in determinate circostanze, non apparterrebbe direttamente alla cultura cristiana o alla spiritualità sacerdotale.

Ma una simile caratterizzazione aggressiva è in realtà una riduzione del concetto di coraggio, limitata al senso di temerarietà o di fierezza. In senso antropologicamente più ricco, il coraggio è inteso meglio a partire dalla sua etimologia che, appunto, sembra unire cor e agere, suggerendo la disponibilità a un agire che attinge dal cuore, cioè dalla pienezza della coscienza e della volontà.

Questa profonda radice semantica del coraggio meglio si addice all’uso del termine che trova riscontro nella Sacra Scrittura. In senso biblico, il coraggio non è mai ripiegato nella spavalderia o nell’avventatezza. Di solito esprime piuttosto la fiducia di chi, in quanto animato dalla fede, non teme di esporsi davanti alle insidie e ai pericoli che ostacolano il compimento del proprio dovere o la propria missione di salvezza.

Il Signore stesso, Dio di Israele, più volte invita al coraggio: quando affida a Israele il mandato di entrare nella terra alla quale Egli stesso li conduce (cfr. Dt 20,8); quando richiama il suo popolo a uscire dallo sgomento e a rialzarsi, per riconoscere e servire le opere della salvezza che Egli compie nella storia: «Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi”» (Is 35,4); quando sprona all’arduo compito di ricostruire il tempio di Gerusalemme: «Ora, coraggio, Zorobabele – oracolo del Signore -, coraggio, Giosuè, figlio di Iosadàk, sommo sacerdote; coraggio, popolo tutto del paese – oracolo del Signore – e al lavoro, perché io sono con voi – oracolo del Signore degli eserciti» (Ag 2,4).

Nel Nuovo Testamento, l’esortazione al coraggio è spesso legata alla fiducia nella presenza di Cristo, che si fa prossimo di chi è nella prova a causa delle tribolazioni umane o delle difficoltà della missione: «Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati» (Mt 9,2); «Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata» (Mt 9,22); «Coraggio, sono io, non abbiate paura!» (Mt 14,27; Mc 6,50); «Coraggio! Àlzati, ti chiama!» (Mc 10,49); «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33); «Coraggio! Come hai testimoniato a Gerusalemme le cose che mi riguardano, così è necessario che tu dia testimonianza anche a Roma» (At 23,11).

In queste ricorrenze neotestamentarie, l’esortazione al coraggio è espressa in forma attiva da un verbo, tharséō, che letteralmente richiama l’idea di essere “irradiato, riscaldato” dalla fiducia. Viene evocata l’azione irraggiante della presenza e della parola di Cristo sull’animo del credente che, nella prova, ne accoglie il sostegno, da Lui si lascia rianimare, rendendosi disponibile ad affrontare le inevitabili tribolazioni.

Torna alla mente in questo senso il paradigmatico discorso del card. Federigo Borromeo a don Abbondio, ne I Promessi sposi. Concediamoci il gusto di rileggerne un brano, perché il linguaggio e certe categorie ottocentesche non ne offuscano la suggestiva attualità:

“Torno a dire, monsignore,” rispose dunque, “che avrò torto io… Il coraggio, uno non se lo può dare.”

“E perchè dunque, potrei dirvi, vi siete voi impegnato in un ministero che v’impone di stare in guerra con le passioni del secolo? Ma come, vi dirò piuttosto, come non pensate che, se in codesto ministero, comunque vi ci siate messo, v’è necessario il coraggio, per adempir le vostre obbligazioni, c’è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti què milioni di martiri avessero naturalmente coraggio? che non facessero naturalmente nessun conto della vita? tanti giovinetti che cominciavano a gustarla, tanti vecchi avvezzi a rammaricarsi che fosse già vicina a finire, tante donzelle, tante spose, tante madri? Tutti hanno avuto coraggio; perchè il coraggio era necessario, ed essi confidavano. Conoscendo la vostra debolezza e i vostri doveri, avete voi pensato a prepararvi ai passi difficili a cui potevate trovarvi, a cui vi siete trovato in effetto? Ah! se per tant’anni d’uffizio pastorale, avete (e come non avreste?) amato il vostro gregge, se avete riposto in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre delizie, il coraggio non doveva mancarvi al bisogno: l’amore è intrepido. Ebbene, se voi gli amavate, quelli che sono affidati alle vostre cure spirituali, quelli che voi chiamate figliuoli; quando vedeste due di loro minacciati insieme con voi, ah certo! come la debolezza della carne v’ha fatto tremar per voi, così la carità v’avrà fatto tremar per loro. Vi sarete umiliato di quel primo timore, perchè era un effetto della vostra miseria; avrete implorato la forza per vincerlo, per discacciarlo, perchè era una tentazione: ma il timor santo e nobile per gli altri, per i vostri figliuoli, quello l’avrete ascoltato, quello non v’avrà dato pace, quello v’avrà eccitato, costretto, a pensare, a fare ciò che si potesse, per riparare al pericolo che lor sovrastava… Cosa v’ha ispirato il timore, l’amore? Cosa avete fatto per loro? Cosa avete pensato?” (Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, cap. 25).

Mentre don Abbondio non riesce a vedere altra ragione e altro sentimento che la sua paura verso il tiranno che lo minaccia (sacrificandogli il bene delle anime e la sua stessa dignità di pastore), il cardinale apre davanti al curato altri territori, che il suo cuore non aveva forse mai esplorato: non la paura del tiranno potente, ma il timore per le sorti dei deboli affidati alle sue cure spirituali; quel timore paterno che è frutto dell’amore. Il Borromeo rimprovera a don Abbondio non la paura, ma la mancanza d’amore, e quindi anche di preghiera. È questa povertà di amore e di preghiera che gli ha fatto perdere il coraggio, non la paura in sé.

Cos’è, allora, il coraggio di un pastore? È l’atteggiamento che nasce dalla preghiera quando l’amore spinge verso quelle esigenze, individuate nell’ascolto di Dio e della coscienza, che abitano tuttavia nel terreno della fatica o della paura. Il coraggio è necessario quando la coscienza, illuminata dalla sapienza, sostenuta dalla preghiera e animata dalla carità, impone di agire oltre le resistenze poste da ciò che incute soggezione o minaccia o semplice inerzia.

In tal senso il coraggio sembra coincidere in parte con la virtù della fortezza, così identificata da Sant’Agostino in mezzo alle virtù cardinali: la fortezza è l’amore che tollera tutto agevolmente per ciò che si ama («Fortitudo amor facile tolerans omnia propter quod amatur»: I costumi della chiesa cattolica e i costumi dei manichei, 1,15,25).

Dunque, nell’ambito dell’identità e del ministero del presbitero, il coraggio risulta una qualità non stravagante, anzi desiderabile, doverosa e preziosa. Inquadrando il coraggio tra le virtù del ministero, don Domenico Marrone lo declina significativamente in quattro contesti (http://www.settimananews.it/ministeri-carismi/le-virtu-del-ministero-2-coraggio/): il coraggio di aprirsi pastoralmente a ciò che ignoto (“il coraggio del vino nuovo”, lo definisce, per indicare un atteggiamento proattivo piuttosto che reattivo); il coraggio di affidarsi (la capacità di mettersi nelle mani degli altri, accettando di impegnare la propria persona in valutazioni e decisioni che sfuggono dal proprio diretto controllo); il coraggio di parlare (la parresia, costruttiva, anche quando espone a conseguenze sulla propria persona); il coraggio di amare (donare e donarsi senza condizioni e senza contraccambi).

Ci fa sicuramente bene confrontarci seriamente con questi spunti di discernimento (potremmo forse aggiungerne anche altri), applicandoli intimamente alla nostra coscienza e ai nostri atteggiamenti. Quali sono i possibili segnali di crisi del coraggio che, pur accanto alle comprensibili fragilità e incertezze, possono rivelare in noi una crisi di preghiera e una tiepidezza della carità? O, in positivo, in quali situazioni già ci è particolarmente richiesto un atteggiamento di coraggio animato e sorretto dalla carità?

Il coraggio di uscire

Vorrei ci soffermassimo su una prima chiamata comune: Il coraggio di aprirci pastoralmente a ciò che è ignoto. In altri termini, per usare il linguaggio di papa Francesco, potremmo dire il coraggio di uscire. Nella Evangelii Gaudium, ci viene prospettato l’oggi del mandato missionario affidato da Gesù ai discepoli: «Oggi, in questo “andate” di Gesù, sono presenti gli scenari e le sfide sempre nuovi della missione evangelizzatrice della Chiesa, e tutti siamo chiamati a questa nuova “uscita” missionaria. Ogni cristiano e ogni comunità discernerà quale sia il cammino che il Signore chiede, però tutti siamo invitati ad accettare questa chiamata: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo» (EG 20, il corsivo è mio).

In termini attuali, il Papa ci rinnova la spinta propulsiva che lo Spirito ha suscitato nella Chiesa del post-Concilio, già ben colta e rilanciata dalla Evangelii Nuntiandi. Paolo VI esortava già a superare «da un lato, la tentazione, da parte degli stessi evangelizzatori, di limitare con differenti pretesti il loro campo di azione missionaria» e, dall’altro, «le resistenze, spesso umanamente insuperabili, di coloro ai quali si indirizza l’evangelizzatore» (EV 50). Oltre queste resistenze, l’Enciclica incoraggiava la Chiesa uscita dal Concilio a percorrere gli orizzonti universali della missione, aperti da Cristo.  Potremmo sentirci più protetti e rassicurati, in una pastorale di conservazione, a «limitare il campo di azione missionaria», accontentandoci di curare e proteggere le comunità esistenti, cercando in qualche modo di non fare raffreddare troppo in esse il già tiepido senso di appartenenza alla Chiesa. E invece, aprire le porte e uscire richiede, appunto, coraggio, il coraggio evangelico assicurato da Cristo ai suoi discepoli.

Si tratta del coraggio di uscire verso gli ambienti periferici, certo, considerando come periferie certi luoghi geografici, ma anche e soprattutto ambientali, sociali, culturali. Quei luoghi che forse, in modo inespresso, abbiamo preferito considerare pregiudizialmente come estranei alla proposta del Vangelo e alla manifestazione della nostra vicinanza. Affacciarsi nelle periferie, entrare in dialogo e in confronto con mondi “nuovi”, può forse provocare incertezza e timore, per mancanza di “protocolli” già sperimentati, per il disagio di cambiare certe nostre categorie di pensiero e di linguaggio, per la fatica di pensare e sperimentare forme nuove di missione nella fedeltà all’unico Vangelo. Ecco, rinnoviamo in noi il desiderio e l’esperienza di questo coraggio, confrontandoci a vicenda e invocando sempre il sostegno dello Spirito.

Impegnarci soltanto nei nostri recinti tradizionali può significare effettivamente non prudenza, ma pavidità, inerzia, mancanza di preoccupazione e di cura per il bene integrale delle persone. In una parola, mancanza di amore. Uscire può esporre a fallimenti, certo, a delusioni, a resistenze, ma la consapevolezza di percorrere con fatica e coraggio gli spazi a cui Cristo stesso ci invia ci farà sempre tornare carichi della consolazione e della gioia di muoverci sotto la spinta della sua carità.

 

Il coraggio di fare sinodo

Il coraggio di affidarci. Potremmo ben dire, il coraggio di fare sinodo. Anche il concetto e la dinamica della sinodalità ci richiedono lo sforzo e il coraggio di uscire da certi schemi, forse più rassicuranti perché comodi e abitudinari, in cui l’autorevolezza del pastore limita il discernimento, la responsabilità, le capacità che spettano ai laici e alle comunità. Anche l’attitudine all’ascolto e all’incontro verso coloro che abitualmente non si identificano con la Chiesa e con le categorie della fede è una qualità da incentivare con una certa dose di coraggio.

Il problema del coraggio di fare sinodo si pone quindi con stretta urgenza. Tutta l’evoluzione dell’attuale sinodo e la stessa assimilazione permanente del valore della sinodalità devono fronteggiare il rischio che, nei fatti, la tendenza a conservare per inerzia le categorie dell’individualismo e, in certa misura, del clericalismo, alla fine abbiano la meglio.

Fare sinodo significa in buona misura riuscire a fidarsi del discernimento e dell’opera di tutti, anche di coloro che solitamente non sono stati coinvolti da protagonisti nella vita delle comunità, perché lo Spirito può servirsi di chiunque. Al contempo, ci vuole il coraggio di non rinunciare alle responsabilità specifiche del ministero dei pastori, che a volte possono anche richiedere di riequilibrare idee, entusiasmi, progetti emersi in contesto sinodale ma non per questo autentici o pronti ad essere recepiti e attuati con saggezza. In contesto sinodale, ai pastori è chiesto il coraggio di far parlare e agire tutti, di lasciarsi anche correggere o ravvivare dal confronto con le comunità e le singole persone, ma senza cedere alla tentazione di un facile e conveniente compromesso. Ai pastori è richiesto infatti anche il coraggio di assumere in coscienza posizioni critiche o persino contrastanti, sempre con la capacità di dare le proprie ragioni con franchezza, coerenza e rispetto. Entrare autenticamente in sinodo significa anche disporsi a risolvere possibili incomprensioni, magari tensioni, e assumere la fatica di far prevalere il senso della comunione pur nella diversità di vedute, il senso della ricerca della verità al di sopra delle opinioni, l’obiettivo dell’ascolto dello Spirito al di sopra della formazione di maggioranze.

Ecco perché fare sinodo richiede anche coraggio: perché certo, senza sinodo, queste possibili asperità sarebbero soffocate in partenza, e questo potrebbe apparire più comodo. Ma a grave danno della perdita di persone, talenti, intuizioni, attraverso cui lo Spirito può spingerci lungo il processo della conversione: «Per “camminare insieme” è necessario che ci lasciamo educare dallo Spirito a una mentalità veramente sinodale, entrando con coraggio e libertà di cuore in un processo di conversione senza il quale non sarà possibile quella “continua riforma di cui essa [la Chiesa], in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno”» (Sinodo dei Vescovi, Documento preparatorio Per una chiesa sinodale. Comunione, partecipazione, missione, n. 9).

Il coraggio della parresia

Il coraggio di parlare, o più biblicamente, il coraggio della parresia. È frequente il richiamo alla franchezza nel parlare da parte di Pietro degli altri apostoli, nonostante le minacce delle autorità del popolo. Un contesto tipico è At 4, dove il termine parresia ricorre tre volte: «Capi del popolo e anziani, (…) Sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato. Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati. Vedendo la franchezza di Pietro e di Giovanni e rendendosi conto che erano persone semplici e senza istruzione, rimanevano stupiti e li riconoscevano come quelli che erano stati con Gesù» (At 4,8-13; cfr. 4,29.31).

Tradurre il termine parresia, di per sé non è difficile. Molto efficacemente, essa è stata definita come «il dire il vero con semplicità e retta intenzione» (https://www.monasterodibose.it/comunita/fondatore/articoli/articoli-su-riviste/12286-le-tre-porte-della-parola). Da questa definizione così immediata, si deduce subito che il coraggio della parresia non è il semplice coraggio di “parlare sinceramente”. Portiamo l’attenzione su questi tre elementi che specificano il “dire”: verità, semplicità, rettitudine. Sono le condizioni circa l’oggetto del dire, la forma con cui si dice, il soggetto che parla.

Il coraggio di parlare con franchezza non sta nel dire ciò che è scomodo, ma ciò che è vero. Dobbiamo fare attenzione a quella sorta di gusto nel dire “ciò che è scomodo”, ma che in realtà ci aspettiamo incontri semplicemente il plauso pubblico. Molte volte il linguaggio “scomodo” non è altro che il linguaggio “populista”, il dire di chi alza la voce per apparire coraggioso o anticonformista, mentre in realtà è consapevole di esprimere istanze culturalmente o popolarmente alla moda e intercettare così un ritorno di immagine o di profitto.

La verità, invece, non è una mera conformazione alle attese di “chi sta in alto” o alle aspettative comuni. Nella filosofia della conoscenza di stampo realista, la verità è la conformità dell’intelletto all’essere. Nella Scrittura, piuttosto, la verità è Dio stesso, è Cristo: è vero, ciò che è conforme all’essere di Dio e all’essere che Dio pone nelle creature. La verità, in questo senso, non la si dice solamente, ma la si fa, la si realizza. È vero l’uomo che realizza se stesso secondo il progetto di Dio su di lui e parla e agisce perché ogni creatura possa conformarsi a questo progetto. E il riferimento al progetto di Dio pone la verità non solo nell’ordine della conoscenza, ma nell’ordine della salvezza. È vero ciò che è conforme al progetto divino di salvezza.

La parresia è allora il parlare (e l’agire conformemente) avendo come fine il bene delle anime. Molto spesso il bene delle anime costa la rinuncia alle convenienze e alle comodità. Per la salvezza delle anime, non di rado occorre anche rinnegare le attese dei potenti e le aspettative del mondo. Chi parla per la salvezza, cerca la chiarezza, la semplicità. Chi parla per il proprio interesse o per fini reconditi, trova più utile il parlare ambiguo, vago, ridondante.

Per un pastore, la parresia è anche questo coraggio: saper anteporre la salvezza delle anime a qualsiasi altro interesse, qualsiasi progetto o finalità, qualsiasi convenienza in rapporto a chi sta in alto o sta in basso. È anche questa la rettitudine.

Agli antipodi della parresia, si pongono le vie facili della doppiezza, dell’adulazione, di quell’ambiguità che consiste nel forzare parole, motivazioni e atteggiamenti, in modo da giustificare ad ogni costo le “ragioni” che più si adattano agli scopi di convenienza, di facile successo, di compromesso. Molte volte proprio i pastori sono tra i più esposti a questo genere di tentazione. La tentazione di don Abbondio, oggi, non insidia solo coloro che sono pavidi, ma anche coloro che sono ambiziosi; non solo coloro che hanno paura, ma ancor di più coloro che tutto finalizzano al proprio successo: per non aver fastidi e intoppi, per acquisire meriti e vantaggi, diventa preferibile allinearsi a un certo sistema di potere, piuttosto che assumere il coraggio di manifestare e seguire ciò che serve alla salvezza delle anime. 

Il coraggio di amare

Si potrebbe continuare a lungo nel tentativo di declinare il coraggio, specie nell’ambito del ministero. Il coraggio della comunione alternativa all’individualismo, il coraggio della gioia contro la rassegnazione, il coraggio della missione al di sopra della realizzazione di sé, il coraggio del dare che non si sofferma sul ricevere… Tutte queste infinite accezioni, riconducono a una sola, che le abbraccia tutte: il coraggio di amare.

Se il coraggio “uno non se lo può dare”, l’amore invece sì. È Dio stesso che ci comanda di amare, con un appello più che con un’ingiunzione. Un appello d’amore, simile a quello di una mamma che più che pretendere amore, ha la sua piena gioia nel sentire ripagato l’amore che ha per il figlio.

Se siamo “esistenzialmente attrezzati” per offrire amore, perché lo abbiamo ricevuto e continuiamo a riceverlo, non ci sarà impervio capire quello che leggiamo nel Deuteronomio: «Oggi, perciò, io ti comando di amare il Signore, tuo Dio, di camminare per le sue vie» (Dt 30,15).

In effetti il comando prima ancora che di amare è di essere recettivi e sensibili all’amore che ci viene profuso in abbondanza dal “Padre della luce”, che è Padre che ama, e diffondendo luce, diffonde anche amore intorno a sé. Sì, perché l’amore è diffusivo: per riceverlo basta non rinchiudersi in se stessi, come per ricevere la luce basta non rinchiudersi in un nascondiglio schermato interamente da essa.

Il coraggio di amare nasce dall’esperienza di sentire che Colui che ci ha chiamati e ci chiama è il nostro Re. È colui nel cui Regno lavoriamo ma è anche colui che ci ama. Poterne avvertire la presenza, oltre che la potenza, poter avvertire il suo amore è l’unica via per amarlo e per amarlo per sempre. Ne troviamo una bella conferma nel Salmo 44 (43),4-5: «Non fu il loro braccio [dei combattenti] a salvarli; ma il tuo braccio e la tua destra e la luce del tuo volto, perché tu li amavi. Sei tu il mio re, Dio mio, che decidi vittorie per Giacobbe». Le vittorie di Giacobbe sono per noi le vittorie che possiamo sempre avere, a partire appunto da oggi, come giorno in cui Dio ci pone davanti al suo amore. Sono le vittorie sulla nostra eventuale mediocrità e su tutte le nostre stanchezze.

Pertanto, il coraggio di amare: è un’espressione che suggerisce il dono di sé, la dedizione, da parte di chi offre, agisce, si protende, si consuma. Tutte disposizioni di attività, che richiamano il coraggio, appunto. Ma prima di tutto questo, l’amore è un’accoglienza, è un lasciarsi raggiungere dall’Amore, di Colui che ci ama per primo. L’iniziativa dell’amore è di Dio (cf 1Gv 4,7-21). Riferendosi a questo passaggio giovanneo, così commenta il Santo Padre nel recentissimo discorso già citato: «E questa è la fonte della speranza poiché, anche in mezzo alla crisi, il Signore non smette di amare e, perciò, di chiamare. E di questo ciascuno di noi è testimone: un giorno il Signore ci ha trovato lì dove eravamo e come eravamo, in ambienti contraddittori o con situazioni familiari complesse» (Discorso al Simposio “Per una teologia fondamentale del sacerdozio”, 17 febbraio 2022).

Il coraggio di amare è quindi prima di tutto il coraggio di un sì, al Dio della vita e della vocazione, a Colui che sempre ci precede. Ognuno di noi, in fondo, pur con tutti i propri limiti e le proprie contraddizioni, è stato chiamato a offrire il proprio sì, in risposta alla chiamata del Dio che è Amore. E anche questo, in fondo, è stato un atto in cui il coraggio ha avuto la sua parte. Magari non una parte preponderante, perché la risposta a una vocazione è prima di tutto grazia, attrazione, dono che si riceve; ma è certamente anche libertà, coscienza, accoglienza, disponibilità, e in queste attitudini il coraggio di dire sì è chiamato in causa. Il coraggio di mettere la propria vita interamente nelle mani dell’Altro che per primo ci ama. Marcello Semeraro parla a tal proposito del rischio della fede, che non ne contraddice la certezza: «L’espressione “io so in chi ho messo la mia fiducia” (2Tm 1,12), mostra che la certezza della fede è tutta interna al rischio della fede, al suo movimento estatico, ossia al suo (…) uscire da sé per affidarsi a Dio» (Il ministero generativo. Per una pastorale delle relazioni, Bologna 2016, 86).

Tuttavia, non possiamo racchiudere il coraggio dell’amore soltanto nel sì detto nel momento forte della nostra risposta vocazionale. O nel momento solenne del dono ricevuto nella nostra Ordinazione. C’è il coraggio del sì nel momento solenne, ma soprattutto il coraggio è richiesto nel sì di ogni giorno.

Il sì di ogni giorno richiede il coraggio della fedeltà, della perseveranza. Il coraggio di rialzarsi dalle cadute, di avanzare anche nelle salite, di mantenere la rotta nelle inevitabili ore di crisi o di solitudine. Questo non è un atto di eroismo personale, ma una grazia che si ottiene cercando lo sguardo di Gesù: «La vicinanza con Gesù ci invita a non temere alcuna di queste ore – non perché siamo forti, ma perché guardiamo a Lui, ci aggrappiamo a Lui e gli diciamo: “Signore, non permettere che io cada in tentazione! Fammi comprendere che sto vivendo un momento importante nella mia vita e che tu sei con me per provare la mia fede e il mio amore”» (Francesco, Discorso al Simposio “Per una teologia fondamentale del sacerdozio”, 17 febbraio 2022).

Ancora, il sì di ogni giorno richiede di lasciarsi sostenere, perdonare, incoraggiare, soprattutto nella comunione presbiterale con il vescovo e i confratelli. Di crescere, formarsi, rinnegarsi. Di cercare la comunione, il confronto, il rischio delle incomprensioni. Di accettare fallimenti e gratificazioni, gioie e delusioni, momenti estenuanti e soste benefiche. Di scoprire vie nuove, di mantenersi aperti alle sorprese della provvidenza e agli incogniti della storia (che a volte vanno insieme), di non chiudersi nelle mere abitudini e non perdersi nelle banalità. Soprattutto il coraggio di andare incontro alla gente, di saperla ascoltare, capire, condurre, aiutare; il coraggio di andare incontro al Signore, che sempre ci aspetta, per confidare in Lui, pregarlo, ascoltarlo, abbandonarsi nelle sue braccia; il coraggio anche di incontrare se stessi, saper dare un nome ai propri peccati e ai propri doni, lasciandosi anche guidare e accompagnare.

Proprio il sì di ogni giorno mette alla prova il coraggio e ce ne fa comprendere la giusta dimensione. Non basterebbe in nessun modo un coraggio fatto di spavalderia, di pura fiducia nei propri mezzi. Piuttosto il coraggio di cui abbiamo bisogno è intrecciato con l’umiltà, soprattutto perché poggia tutto sulla forza della preghiera. È un coraggio richiesto, ricevuto come grazia, ottenuto per abbandono confidente nelle mani del Padre. Un coraggio che si alimenta “in ginocchio”.

Signore, donaci il coraggio di amare, il coraggio del sì di ogni giorno…

Te lo chiediamo, fraternamente uniti tra di noi, per intercessione della Vergine Maria, Lei che è Madre e Maestra del coraggio umile e fedele. Per il suo sì di ogni giorno, per l’amen che Ella ti ha offerto dalla casa di Nazareth fino al Golgota, al Cenacolo e alla sua gloriosa Assunzione, aiuta anche noi, tuoi ministri, a non avere altro desiderio che mettere la nostra vita a servizio del tuo Amore, perché tutto avvenga per noi secondo la tua volontà.

Cassano all’Jonio, 13  Aprile  2022

      Mercoledì Santo

             Vostro

   Francesco Savino

13-04-2022
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