“LA SPERANZA HA POSTO LA SUA TENDA TRA NOI” Lettera Pastorale Avvento – Natale 2022 di S.E. Mons. Francesco Savino

LA SPERANZA HA POSTO LA SUA TENDA TRA NOI

 

Egli sarà giudice fra le genti

e arbitro fra molti popoli.

Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,

delle loro lance faranno falci;

una nazione non alzerà più la spada

contro un’altra nazione,

non impareranno più l’arte della guerra.

Casa di Giacobbe, venite,

camminiamo nella luce del Signore

(Is 2,4-5; 1a Domenica di Avvento / A)

 

 

Carissime e carissimi,

Il tempo di Avvento si apre per noi con queste parole di Isaia, che vengono lette nella prima domenica. Probabilmente questo oracolo, riportato con pochissime differenze anche dal profeta Michea, risale all’epoca in cui Israele aveva superato la dura e purificatrice esperienza dell’esilio in Babilonia, ma si trovava nell’incertezza di un difficile futuro da ricostruire.

Quel contesto storico, in cui il Signore entra e si manifesta con premura, propone non poche analogie con la nostra storia attuale e con la nostra difficoltà a leggere il presente e interpretare il nostro domani. Vi invito quindi a seguirmi brevemente nel tentativo di immedesimarci in quelle vicende così lontane, perché probabilmente ci sentiremo molto accomunati e solidali con quel popolo che le ha vissute.

Oggi come allora

Per circa settant’anni Israele aveva sognato la propria terra perduta. “Lungo i fiumi di Babilonia – canta con nostalgia il famoso Salmo 137, musicato anche da Verdi nel Nabucco –, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre”. Quel ricordo diventava speranza di libertà, nostalgia di terre di ulivi e di viti, rimpianto della città e del suo tempio, desiderio di ritornare a celebrare le feste del Dio di Israele, di ritrovarsi come popolo che si riunisce con giubilo attorno al suo Signore.

Il tempo che passava sembrava spegnere i cuori, e allora anche le mani e le ginocchia finivano per crollare nell’atrofia della rassegnazione. Ma poi, all’improvviso, la strada nel deserto si era riaperta, e i riscattati del Signore avevano iniziato la via del ritorno. «Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti. Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi”. Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto (…). Ci sarà un sentiero e una strada e la chiameranno via santa (…). Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con giubilo; felicità perenne splenderà sul loro capo; gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto» (Is 35,3-10 – 3a domenica di Avvento / A).

Si aprivano speranze di tempi nuovi, terre di nuovo lavorate con sudore e fiducia, il canto della sposa e dello sposo, la pace su tutto il paese, i giovani e gli anziani insieme a lodare il Signore.

Ma presto la realtà della storia aveva presentato altre delusioni e incertezze. La ripresa era molto ardua. Un lavoro titanico di restaurazione del paese era davanti a quei pochi e deboli rimpatriati, che restavano a lungo inermi e incapaci di mettersi all’opera. La speranza sembrava di nuovo allontanarsi.

Come seguire ancora quel grido di fiducia che pur aveva risvegliato gli esiliati dal lungo sonno? Come lasciarsi di nuovo guidare dalla speranza? In quel frangente, come in ogni situazione umanamente senza via d’uscita, ecco, ieri come oggi, come sempre per chi sa guardare e soprattutto ascoltare l’inedito di Dio e l’inatteso della storia, al di là delle proprie incapacità e delle condizioni ostili dell’ambiente e di ciò che sembra ineluttabile. Sì, ecco la voce di Dio irrompere dalle impossibilità umane. Per Israele allora, come per noi popolo di Dio oggi, Dio parla, rompendo ogni durezza e ostilità, come quando, trapassando le rocce granitiche di Massa e Meriba, aveva fatto irrompere l’acqua per un popolo destinato a morire di sete e di disperazione (Es 17,1-7).

Spesso la sua voce, pur sommersa dal chiacchiericcio umano, emerge dalla bocca dei profeti, come era successo al momento della sfiducia totale dopo il ritorno dall’esilio.  Allora come oggi, se il popolo restava smarrito, il profeta, gridava ancora di più il lieto annuncio della salvezza: quella terra desolata e spaurita – è l’annuncio di Isaia – attirerà a sé le nazioni, sarà il cuore di una nuova pace per tutta la terra e per tutti i popoli: «Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: “Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri”. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore» (Is 2,1-3; 1a Domenica di Avvento).

Il Signore si fa presente nella storia e la rimette in cammino. Anche oggi!

Alcuni tratti tipici di quella crisi storica, in cui gli spiragli di speranza sembravano richiudersi dietro pesanti coltri di nubi, li possiamo riconoscere anche ai nostri giorni. È paradigmatico il periodo, ancora non del tutto decifrato, del post-pandemia: l’uscita dal tunnel della fase emergenziale, dei lockdown e delle restrizioni, delle ansie per la salute e per l’economia, non è avvenuta forse come avremmo immaginato. In effetti, nel periodo in cui il virus diffondeva una nuova forma di angoscia collettiva, sembrava, di rimando, emergere una certa propensione sociale alla solidarietà, che apriva anche a una speranza condivisa di ripartenza. Ma quella forma un po’ effimera di speranza sembra che si sia gradualmente sfumata. Non solo è mancato uno spartiacque tra il buio e la luce, una sorta di Independence day da festeggiare, ma soprattutto la crisi pandemica si è quasi fusa con le altri gravi minacce che hanno annerito il nostro orizzonte. Una guerra nel cuore dell’Europa, accanto a tutte le altre dimenticate, perché più lontane geograficamente da noi,  ci ha risvegliato dall’illusione di aver lasciato, almeno noi, ogni guerra ormai alla storia; le preoccupanti tensioni sui prezzi e sulle tariffe, che gravano con effetti pesanti e immediati sulle capacità delle famiglie e delle imprese; le minacce sul presente e sul futuro del fragile equilibrio ecologico del nostro pianeta; il conseguente acuirsi delle pressioni sociali, con interi popoli spinti alla ricerca di una parvenza di futuro al di là dei deserti, dei lager e dei mari: tutto questo ha intorbidito quella tenue aurora che sembrava finalmente riemergere per tutti.

Ancora una volta la storia ci provoca e ci inquieta: quale speranza ci può guidare, verso dove andiamo, cosa dobbiamo fare?

Vegliate perché il Signore viene sui suoi sentieri

A questo nostro mondo inquieto, il Signore guarda con compassione e parla, oggi: «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri! Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!» (Lc 3,4.6, 2a Domenica di Avvento/A: canto al Vangelo).

Il Signore viene nei suoi sentieri che attraversano la nostra terra, la sua salvezza si fa vedere tramite il Volto dei volti: è l’annuncio di una presenza, di una dimora tra noi, del suo farsi carne. La Speranza non è al di là del cielo: diventa carne da toccare e incontrare, amore da vivere e testimoniare, coraggio che invita a rischiare.

Carissime e carissimi, in questo tempo di Avvento e di Natale poniamoci in ascolto con cuore umile e grato alla Parola che risuona, accogliamo in essa l’annuncio della Speranza che si fa carne.

«Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà… Tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo» (Mt 24,42 – 1a domenica di Avvento/A).

L’annuncio di Gesù circa la sua venuta è presentato con i caratteri dell’urgenza, sprona a una preparazione immediata, sollecita. Non rinvia all’attesa indefinita di un vago destino lontano, ma chiama adesso, smuove il presente.

Se il Signore parla di un giorno e di un’ora, che sono irruzione della sua venuta e restano ignoti, l’attenzione dei discepoli non è indirizzata semplicemente al futuro, ma è tutta riportata al vegliare e al tenersi pronti oggi. La speranza non induce all’inerzia, ma mette in movimento il cuore, la mente e le braccia nel presente. È oggi il momento favorevole per ascoltare, per servire e per amare.

La nostra quotidianità, se è orientata dalla speranza, non si lascia narcotizzare dal mero attivismo ripetitivo e inconsapevole, come ai giorni di Noè, quando «mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito» e «non si accorsero di nulla». L’ordinarietà del quotidiano, se animata dalla Parola, si libera dall’alienazione del non senso e si lascia illuminare dalla speranza. La quotidianità del discepolo è pienamente “sensata”, proprio perché rivolta e orientata verso quel giorno e quell’ora.

L’annuncio della venuta del Signore, quindi, non è finalizzato a soddisfare qualche curiosità sul domani o sulla fine. Non ci fa conoscere l’oltre, ma ci rivela l’oggi. Spiega Enzo Bianchi: «Il credente è chiamato a conoscere l’oggi a partire dalla venuta del Signore e dalla sua dimensione di ignoto, descritta da Gesù con parole che si sono impresse nella mente dei suoi discepoli: “Se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa” (cf. 1Ts 5,2-4; 2Pt 3,10; Ap 3,3). Da esse discende l’ultimo sintetico avvertimento di Gesù: “Siate pronti, perché nell’ora che non pensate, il Figlio dell’uomo viene”».

Teniamo viva la speranza

«Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché, in virtù della perseveranza e della consolazione che provengono dalle Scritture, teniamo viva la speranza» (Rm 15,4 – 2a domenica di Avvento/A).

Se noi cristiani siamo i discepoli della speranza non possiamo rifugiarci in brevi momenti consolatori: la fede in Gesù, infatti, non può ridursi ad anestetico dei momenti tristi della vita. È molto di più! La fede in Gesù è forza che sprigiona nella storia, ma nasce in colui che è il principio di ogni storia. La speranza non possiamo autoprodurla ma soltanto accoglierla come dono del Risorto: «Non possiamo limitarci a sperare, dobbiamo organizzare la speranza» (don Tonino Bello).

È in questo senso che Paolo esorta i Romani. Egli parla anche a noi, cristiani di oggi, chiamati ad assumere la debolezza degli ultimi, non facendo caso, come Gesù, agli insulti e ad ogni altra avversità, ma piuttosto leggendo alla luce delle Scritture la storia che stiamo vivendo. È in esse che si svela il senso di speranza che attraversa la storia. È la Parola che interpreta il senso e la meta a cui la storia conduce in Cristo. Ben oltre ciò che ancora qualcuno pensa della Bibbia: una sorta di prontuario di vaghe e generiche sentenze adattabili a tutte le situazioni del presente e a tutte le congetture fantasiose sul domani. Questo compito narcotizzante e disincarnato se lo assumano pure gli oroscopi e i Nostradamus delle varie epoche. La Scrittura, invece, parla dalla prospettiva del Verbo che si è fatto carne, di Colui che mostra il Padre vivendo la storia dall’interno, da vero uomo, crocifisso e risorto. È la testimonianza fedele, normativa, compiuta, del Cristo che apre a noi il cammino del Regno. Porta a compimento la storia senza fuggire da essa, ma vivendola fino in fondo, assumendone anche il carico di insensatezza e contraddizione: soltanto così la salva cioè la conduce all’altezza della vita piena. Cristo ci invita alla fatica per il Regno, non all’evasione. In tal senso, vale il detto di don Lorenzo Milani: «fino a che c’è fatica c’è speranza».

«Teniamo viva la speranza», esorta San Paolo, e questo invito è quanto mai vero e attuale oggi. La speranza vive non “malgrado” le prove, ma proprio attraversandole con responsabilità, «in virtù della perseveranza e della consolazione che vengono dalle Scritture».

Ecco perché il Battista – come attesta il brano evangelico della seconda domenica di Avvento – annuncia la venuta del Regno concentrandosi proprio sull’invito alla conversione, e lo fa gridando nel deserto. La conversione è il cambiamento della storia dal suo interno, tra le sue pieghe, tra le persone che la vivono e che la fanno. È una speranza non come rivincita sulla storia, ma sua apertura all’azione salvifica di Dio. Noi non speriamo “contro” la realtà terrena e la sua dimensione temporale. Noi speriamo dall’interno della storia: assumendola senza riserve, ne viviamo la vocazione alla conversione, alla carità e alla salvezza, di cui, per volere di Dio, la storia stessa è portatrice, nonostante le contraddizioni che manifesta ogni giorno.

Irrobustitevi per resistere al disincanto

«Irrobustite le mani fiacche, rendete salde le ginocchia vacillanti. Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina. Egli viene a salvarvi”» (Is 35,3-4 -3a Domenica di Avvento).

Le antiche parole di Isaia non hanno perso fecondità e capacità di smuovere i nostri cuori sfiduciati forse oggi, come lo erano quelli degli israeliti di allora. Nella storia entra anche oggi la novità di Dio e l’annuncio della buona notizia fa rivivere la verità delle profezie.

Giovanni Battista fa da cerniera tra le attese del passato e il compimento inatteso. Lui che ha orientato i cuori e le speranze verso Gesù, ora gli chiede di esprimersi davanti ai discepoli e di essere egli stesso l’interprete ultimo e autorevole delle profezie: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». La domanda di Giovanni, carica di trepidazione, dà voce alla speranza inespressa dell’umanità. «La sua attesa – commenta Luciano Manicardi – diviene speranza per le folle che andavano a lui nel deserto e per i discepoli che andavano a trovarlo in prigione. L’attesa cristiana della venuta del Signore è dono di speranza per gli uomini».

Gesù risponde: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». Sono le parole annunciate da Isaia, che in Gesù sono opere concrete: fatti che cadono sotto la vista e l’udito dei presenti. Sono il compimento delle attese e l’attestazione che la carità di Dio è presente, abita tra noi, parla, agisce per noi.

L’annuncio sconvolgente racchiuso nella risposta di Gesù sta tutto in quei verbi coniugati al presente: vedono, camminano, sono purificati, odono, risuscitano… il Vangelo è annunciato. La salvezza non è tanto nei singoli doni di guarigione e di liberazione che sono compiuti, ma nella presenza tra noi di Colui che li compie. I doni di guarigione potrebbero avvenire in tanti modi, ma una volta compiuti ritornerebbero nel passato e non sarebbero più salvezza oggi. E invece il Vangelo annuncia che il Signore è presente, che egli ha posto la sua tenda tra noi, e che in questa tenda c’è posto per tutti, perché i suoi spazi sono sempre da allargare.

Questo è il messaggio per noi, oggi, per tutti: Egli è il Vivente, è Colui che è presente, che abita la nostra storia, dimora fra noi.

Le cecità, le paralisi, le forme di lebbra, le sordità, le esperienze di morte, tutto questo fa parte della storia e in modi diversi queste contraddizioni continuano a manifestarsi finché c’è la caducità del tempo. E tuttavia tra i diversi motivi di angoscia che segnano ogni epoca, e particolarmente il nostro tempo, il Signore non abbandona la nostra condizione umana.

Chiesa di Cassano, non temere di diventare tenda di Dio!

«“Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele”, che significa “Dio con noi”» (Mt 1,22-23 – 4a Domenica di Avvento).

Colui che viene a porre tra noi la sua dimora, ha bisogno Lui per primo di una dimora che lo accolga. Sceglie la via dell’incarnazione con tutte le sue esigenze da cui non si può sfuggire. La prima esigenza è fare appello ad un sì, chiedere permesso per entrare nella storia: il Dio Altissimo si consegna al sì di Maria e di Giuseppe.

Insieme a Maria, anche Giuseppe è invitato ad allargare lo spazio della propria tenda, per fare posto al Salvatore, di cui prendersi cura. La tenda che Giuseppe deve allargare è quella della sua volontà, dei suoi progetti, della sua vita. E non è invitato solo a fare un po’ di spazio a Gesù, ma a dargli tutto lo spazio, a cedergli tutta la tenda! Perché il sì che Giuseppe darà, sarà totale: non i progetti di Dio “accanto” ai suoi progetti umani, ma “al posto” di essi.

Come Maria, Giuseppe non teme di dare a Dio tutto lo spazio di cui dispone. La sua tenda, sarà la tenda di Dio. Egli non avrà altri progetti che quelli che Dio è venuto a offrirgli.

Per il sì di Giuseppe, unito al sì di Maria, ora il Figlio dell’Altissimo ha la sua dimora tra noi. Ma quella dimora deve estendersi. Deve essere la dimora di Dio con gli uomini, con tutti gli uomini. C’è spazio anche nella nostra vita? Diamo anche noi all’Emmanuele il nostro spazio, perché lui venga a dimorare? Lo dà la nostra comunità diocesana in tutte le sue componenti?

La tenda che il Signore ha posto in mezzo a noi si allarga, sì, per fare posto a chiunque voglia trovare in lui riparo. Ma non si allarga aumentando i posti disponibili al proprio interno… La tenda del Signore non è un servizio dove ognuno possa trovare un po’ di ristoro quando ne ha voglia. Piuttosto la tenda del Signore si allarga tramite gli spazi concreti delle nostre storie e delle nostre esistenze che cedono a Lui il posto senza smarrirne l’unicità ma raggiungendola realmente. Cresce, quando noi mettiamo la nostra vita a disposizione dei progetti del Signore, come hanno fatto Maria e Giuseppe. È il Signore che viene ad abitare nella nostra tenda, nella nostra chiesa locale, perché la tenda del Signore «è uno spazio di comunione, un luogo di partecipazione, e una base per la missione», come spiega il recente Documento di lavoro per la tappa continentale del Sinodo (ottobre 2022).

Allarghiamo la tenda del Signore, quando la nostra vita si fa spazio di misericordia per il misero e lo sfiduciato; e prima ancora, quando le nostre mani, la nostra testa, i nostri piedi praticano il dovere di giustizia a cui sono attesi, senza far mancare al mondo il contributo del proprio lavoro onesto e corretto.

Allarghiamo la tenda del Signore quando facciamo spazio al perdono e lo togliamo alla mormorazione e al giudizio; quando ci adoperiamo per estendere un’opera di pace tra i rancori e le guerre.

Siamo tenda del Signore che si allarga al prossimo, quando spezziamo le catene dei pregiudizi e degli interessi che opprimono la dignità dei poveri e dei forestieri; quando ci facciamo presenza di conforto accanto agli infermi e ai deboli.

Siamo tenda del Signore quando cerchiamo di stendere ponti di dialogo tra e generazioni, tra le culture, tra gli ambienti sociali, tra i centri e le periferie, tra le mura delle chiese e le case e le strade che le circondano.

Allarghiamo la tenda del Signore anche quando ci facciamo carico della nostra responsabilità per la custodia del creato, la nostra casa comune, le cui risorse provvidenziali sono a servizio di tutti e da ciascuno devono essere protette, coltivate, amate. Siamo ormai in otto miliardi, noi gli abitanti di questo pianeta; diciamo meglio, otto miliardi di fratelli e sorelle che abitano la stessa e unica casa, quella che il Padre ci ha dato. Da questo punto di vista, sembra che lo spazio diminuisca e che la casa si restringa, invece che allargarsi. Ma quando, per la carità dei suoi figli, si allarga la tenda del Signore, anche lo spazio del creato si moltiplica, perché cresce la cura e la sollecitudine fraterna di coloro che lo abitano e si prendono cura gli uni degli altri.

Nel mondo c’è tanto spazio per la tenda del Signore, anche se forse il mondo stesso non lo sa o non lo chiede. Forse il mondo non sa che il Signore è qui, e non sa cedergli spazio. Eppure il mondo invoca ancora speranza, sempre di più. Anzi il mondo sa ancora sperare – forse in modo confuso e distorto – ma a modo suo spera. La speranza del mondo è essa stessa una richiesta silenziosa di spazio nella tenda del Signore: lì dove desidera trovare forza, sollievo, perdono, forza per continuare il cammino.

Il tempo di Avvento è il rinnovo di una chiamata pressante da parte della generosità di Dio, chiamati a diventare ciò che siamo: tenda della sua speranza. Sotto questa tenda possiamo accogliere i delusi e fasciare le ferite dei poveri: siamo tenda del Signore, non lasciamo deluse le speranze del mondo.

 

Cassano all’Jonio, 27 Novembre 2022

         I Domenica di Avvento

   Francesco

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28-11-2022
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