PROLUSIONE
S.E. Mons. Francesco Savino
Vescovo di Cassano all’Jonio
Vicepresidente per l’Italia Meridionale della Conferenza Episcopale Italiana
presso
TRIBUNALE ECCLESIASTICO INTERDIOCESANO DI BASILICATA
in occasione
dell’Inaugurazione dell’Anno giudiziario 2025
dal titolo
Persone in Relazione.
Migranti: accoglienza e diritto per una pace nella giustizia
Prima di entrare nel tema che mi è stato affidato, desidero salutare S.E.R. Davide Carbonaro, O.M.D. , Arcivescovo Metropolita di Potenza Muro Lucano Marsico Nuovo, Moderatore del Tribunale Ecclesiastico Interdiocesano e Presidente della Conferenza Episcopale della Basilicata, gli Eccellentissimi Arcivescovi e Vescovi della stessa Conferenza Episcopale Regionale. Un saluto rispettoso desidero rivolgerlo, in particolare, alla Senatrice Maria Elisabetta Alberti Casellati, Ministra per le Riforme Istituzionali e la Semplificazione Normativa, come pure a tutte le autorità civili e militari qui presenti. Saluto, ancora, esprimendo gratitudine per il delicato servizio ecclesiale, il Vicario Giudiziale, Don Nicola Salvatore Balzano, i Vicari Giudiziali Aggiunti e tutti i Reverendissimi Giudici e gli operatori di questo Tribunale Interdiocesano.
- Integrare e ricucire relazioni nella legalità, nel diritto, nell’umanità…
Non vi nascondo che il focus precipuo di questo mio intervento presenta una certa difficoltà che è insita non tanto nella questione da affrontare (le persone che emigrano), quanto nel titolo della Prolusione che mi è stata affidata. Perché per coniugare accoglienza di chi emigra e diritto, declinati nell’orizzonte della giustizia sociale finalizzata alla pace, è richiesta una “sintesi prudenziale e sapienziale” attenta, ma coraggiosa e umanamente accettabile. E questo perché, considerato che la questione delle migrazioni è una «questione sociale mondiale» (cfr. Paolo VI, in Populorum progressio), dobbiamo affermare senza alcuna retorica che un’autentica pace nella giustizia non ci sarà, fintantoché questa “questione mondiale” non sarà incanalata nei sentieri dell’umana e reale accoglienza, del rispetto del diritto internazionale e di tutti i popoli, sia di quelli che emigrano sia di quelli che accolgono.
Sono tanti e diffusi i settori coinvolti (o sconvolti!) dal fenomeno delle migrazioni: tra questi, per citarne solo alcuni, l’economia, la politica, la cultura, la religione. Ciò conferma la complessità e la stratificazione della questione. A questo va aggiunto che l’emigrazione oggi è fortemente acuita dalla globalizzazione finanziaria feroce, per cui ormai non esiste nessun ambito geografico che sia immune dalle migrazioni e intere popolazioni sono letteralmente costrette a lasciare terre devastate dalla desertificazione, dalle guerre, dalle crisi ambientali, dalle condizioni sociali, civili e politiche che non consentono di realizzare una vita degna.
È comprensibile, allora, alla luce di questo combinato disposto (emigrazione-globalizzazione), che registrare che l’impegno per l’accoglienza risulta assai gravoso perché le migrazioni, oltre ad essere una questione socio-politica da gestire e governare, pur appartenenti da sempre alla condizione umana, oggi «sono anche l’espressione feroce delle disuguaglianze…[ragion per cui] il nostro impegno con i migranti deve essere a sua volta propiziatorio di una pedagogia della cura, del rispetto per il prossimo, in definitiva, di una proposta creativa e creatrice di una genuina cultura dell’incontro dove imparare a riconoscerci e a trattarci come fratelli» (Papa Francesco, Prefazione A Theology of Migration, D. G. Groody, 2002, Orbis Books).
E tuttavia c’è un secondo aspetto inscritto nel titolo della Prolusione, che rende ancora più complessa (ma altrettanto urgente) la suddetta “sintesi prudenziale e sapienziale”: la migrazione è questione “di persone e di relazioni”. Qui, a mio avviso, c’è tutta la novità, non tanto del tema, quanto del modo in cui mi chiedete di affrontarlo, perché, per rimanere nell’orizzonte del rispetto degli esseri umani, mai bisogna ridursi ad analizzare le migrazioni come se fossero soltanto intricati flussi di persone che si spostano alla ricerca di qualcosa (o di qualcuno, nel caso dei ricongiungimenti familiari). Alla base ci sono sempre storie di uomini e di donne, di giovani, di famiglie, alla ricerca di condizioni umane e lavorative più dignitose; storie di bambini e di anziani che cercano luoghi in cui i diritti sono rispettati e non più calpestati; storie di malati che cercano salute altrove; storie di rifugiati le cui vite nei paesi d’origine sono a rischio di morte o quanto meno di prigionia.
Il titolo della Prolusione allora ci invita a parlare di emigrazioni utilizzando il vocabolario e la grammatica delle relazioni. Ma chiediamoci: di quali relazioni stiamo parlando? La relazione di queste persone con il Paese di origine è recisa mentre la relazione con quello che sarà il paese di approdo è tutta da costruire, e questa costruzione non sarà esente da diffidenze reciproche, da costrutti sociali negativi dell’immagine del migrante, raffigurato come un “qualcuno” da tenere a distanza, soprattutto alla luce delle esasperazioni ideologiche e mediatiche, riferite ad alcuni episodi criminali commessi da alcuni delinquenti che vanno attenzionati con decisione e fermezza, ma che non possono mai essere generalizzati. Ci fa sempre bene ricordare che a queste persone «vanno riconosciuti pregi e difetti che appartengono a qualsiasi altro essere umano. Ma spesso la loro umanità è soffocata e a volte annichilita sotto il peso di pregiudizi e delle paure che esistono nelle società. Ed è proprio la dimensione umana di queste persone che occorre recuperare per ascoltare e conoscere la persona migrante» (cfr. Campese – Groody).
Si tratta, insomma, “di relazioni” fortemente compromesse: la partenza è in genere conseguenza di una “relazione compromessa” con il Paese di origine e questa compromissione, purtroppo, non si risolverà (almeno all’inizio) nemmeno nel Paese di destinazione, perché l’insicurezza per il futuro che caratterizza le persone che emigrano si mescolerà anche con l’incertezza delle persone e dei Paesi in cui approderanno.
E questo problema sarà maggiormente acuito, allorquando queste persone saranno costrette a “rifugiarsi” ai margini delle città, lontane dalla vita della comunità e così, una volta emarginati, aumenteranno i sospetti a loro sfavore. In tal modo si consumerà il triste risultato per cui, quel desiderio di emigrare in un luogo altro per trovare riscatto umano/sociale, quando non si infrange sui faraglioni durante la traversata in mare, si frantumerà sugli scogli della emarginazione e della marginalizzazione. In queste sacche urbane di degrado civile, poi, a causa dell’assenza del rispetto delle minime e basilari regole del vivere comune, l’amarezza si trasformerà in rabbia per il fatto di essere stati “rifiutati ancora una volta”, dopo essere stati rigettati dai Paesi di origine.
Purtroppo, questo è un dato reale e riguarda troppi migranti che purtroppo vivono (o sopravvivono) nelle piccole o grandi città dei Paesi sviluppati, con una triste consapevolezza interiore: che cioè non potranno mai più cambiare la loro condizione sociale, che ormai saranno costretti a vivere di stenti e sotterfugi, e che non ci sono orizzonti di miglioramento della condizione vitale per loro e per le loro famiglie. In questi interstizi della società abbandonata, in queste sacche di comunità espulse ed escluse, si alimenterà odio personale e vendetta sociale, e la criminalità troverà nuovi adepti cuciti perfettamente sull’abito dei loschi interessi del malaffare. Si costruisce un terreno di coltura per continuare a vivere nell’illegalità e nella violenza, motivo per cui queste persone, con le loro disillusioni, diventeranno facili prede della criminalità più o meno organizzata, alimentando un circuito malavitoso che non sarà facile spezzare e nemmeno solo arginare con le uniche soluzioni securitarie.
L’Italia non è esente da questo rischio e anche nel nostro Paese purtroppo sono tante le persone che vivono una stentata sopravvivenza, tra lavori precari, devianza predatoria e ribellismo senza sbocchi. Per questo occorre investire con fermezza anche nell’integrazione dell’istruzione giovanile, per sottrarre stranieri giovanissimi alla devianza e alla marginalità. Uno dei modi per provare a spezzare quel circolo vizioso che costringe queste persone a vivere al limite della legalità che poi alimenterà ancora di più il pericoloso retropensiero negativo relativo a queste persone emigrate, alimentando forme più o meno velate di razzismo, il solito fenomeno “senza tempo” che non è un retaggio di concezioni arcaiche dell’aristocrazia appartenenti al passato. In realtà, dovremmo chiederci se questo fenomeno non faccia parte anche, in maniera più o meno celata, della tradizione storica dell’umanesimo liberale e civico che, offrendo forme ideologiche alle aspirazioni nazionali, vede di buon occhio la globalizzazione delle merci, perché aumenta la ricchezza nelle mani di pochi oligarchi, mentre getta benzina sul fuoco per impedire una libera circolazione delle persone.
Ora, questo secondo elemento, per nulla secondario, ci consente di analizzare la questione delle migrazioni con “sano realismo”, perché purtroppo dietro le migrazioni non ci sono solo legittimi bisogni da accogliere e integrare, ma anche reti di sfruttamento delle persone, così come disegni di destabilizzazione internazionale, come accade quando alcuni Paesi sfruttano le migrazioni irregolari, come forma di ricatto per raggiungere altri obiettivi, per esempio economici.
Ad ogni modo, questa conflittualità (accoglienza-sicurezza interna) che, volenti o nolenti, si crea nei Paesi di arrivo, è uno dei motivi alla base della regolazione più ferrea dei flussi migratori. Per cui quella che è la realizzazione oggettiva e concreta dei diritti della persona umana di emigrare e stabilirsi dove prevede di trovare una migliore possibilità di realizzare aspirazioni e progetti, deve necessariamente bilanciarsi con il corrispondente diritto dello stato che accoglie di poter gestire la propria politica dell’immigrazione entro la cornice del bene comune e dell’ordine costituito.
Alla luce di questo si evince come, pur essendoci il “diritto ad emigrare”, non esiste un “diritto assoluto ad immigrare”, ossia ad entrare in ogni caso in un altro Paese e questo perché i Paesi di destinazione hanno il diritto di governare l’immigrazione attraverso l’accesso e l’integrazione, ma stabilendo regole umane che rispettano la dignità delle persone perché, come ricordò papa Francesco nel Discorso all’Assemblea dell’Onu nel 2015, è vero che “senza diritto non vi può essere giustizia” ma “la priorità del diritto prevede la limitazione del potere, che dunque non può essere assoluto”. Per queste ragioni, “anche il diritto non è totalmente sovrano” perché occorre riconoscere una legge morale inscritta nella stessa natura umana che dia sostegno e soprattutto verità al diritto, salvandolo così dall’aggressione dei falsi diritti. Per questo, in quella stessa occasione, Papa Francesco chiese un “grado superiore di saggezza” per riconoscere che “anche il diritto ha dei limiti etici naturali insormontabili” che nell’esercizio dell’accoglienza di persone umane, si evidenzia nella sua massima espressione.
Le difficoltà sono tante e non esistono soluzioni facili. Ma il bilanciamento tra diritto ad emigrare e necessità dei Paesi di regolarizzare i flussi e l’accoglienza, non può essere individuato “con soluzioni di pancia”, ma occorrono “soluzioni di testa”, con discernimento coscienzioso, analisi prudente e scelte sagge, evitando ogni forma di razzismo e di xenofobia e ogni violazione dei diritti umani fondamentali. Con un realismo pratico e concreto, senza sentimentalismi e romanticismi, perché, come ricordava Giovanni Paolo II nel Messaggio per la Giornata mondiale delle migrazioni del 1996, “l’immigrazione illegale va prevenuta, ma occorre anche combattere con energia le iniziative criminali che sfruttano l’espatrio dei clandestini. La scelta più appropriata, destinata a portare frutti consistenti e duraturi a lungo termine, è quella della cooperazione internazionale, che mira a promuovere la stabilità politica e a rimuovere il sottosviluppo”.
Dunque, servono necessariamente accordi bilaterali per formalizzare le intese cooperative sulla migrazione, per garantire che il flusso migratorio avvenga secondo regole stabilite perché è inaccettabile ignorare le tante povere persone (soprattutto donne e bambini) vittime della migrazione illegale. Secondo le stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), ogni anno, sono più di 1 milione le vittime del traffico soggette attualmente a condizioni di sfruttamento. Per questo, impegnarsi per una migrazione giusta e umana, chiede altresì di sottrarre terreno favorevole alle criminali manovre dei trafficanti: i potenziali migranti non devono essere costretti a rischiare la vita con partenze insicure. In tal senso, occorrono politiche di ammissione più razionali perché nella storia non ha mai funzionato erigere barriere per fermare i flussi di popoli in movimento. Persino le forme di deterrenza che un Paese sceglie di adottare, devono essere conformi alla dignità della persona, sulla base del principio di giustizia, del rispetto e di equità.
Una società che accoglie ha l’obbligo giuridico, politico e morale, di porre in atto una serie “di gesti, di procedure e di attenzioni”, finalizzati al riconoscimento e alla valorizzazione delle persone da accogliere. Gesti, attenzioni, procedure che, rientrando nell’orbita dell’integrazione, mirano progressivamente a sottrarre dalla terra dell’anonimato questi esseri umani che, dopo lo strappo dalla propria terra natia, dopo infinite traversate fortuite e distacchi relazionali e familiari, rischiano di perdere la bussola anche della propria più profonda identità. E ciò accade specialmente quando il territorio in cui l’emigrante approda, da ignoto rischia di trasformarsi anche in ostile, come sosteneva Hannah Arendt. E cioè che dopo aver perso lo stato (è un heimatlose/apolide), rischia di diventare anche uno che spaventa (unheimlich/che mette paura), e così perde anche lo statuto di persona: perde lo stato e perde lo statuto così da diventate istituzionalmente non-persona.
- … per evitare di passare dalla discriminazione alla degradazione
In questa “perdita dello statuto” l’operazione è compiuta e la discriminazione diventa una vera e propria degradazione dello straniero. Così ne parla Homi K. Bhabha quando afferma che in tutto il mondo stiamo assistendo alla “degradazione dello straniero” specie quando emergono visioni retrograde di grandezza nazionale che implicano la sottomissione dell’altro, spesso inteso come minoranza, migrante e dissidente. Perciò, sostiene l’autore «al posto di discriminazione, una parola intrisa del linguaggio dei diritti che presuppone l’intervento benevolo delle istituzioni, dovremmo parlare invece di degradazione, un termine più emotivo che consente di occuparsi anche di immagini, del linguaggio dell’abuso, delle tante forme di inciviltà che si manifestano. Mentre discriminazione definisce la violenza razziale come un bug nel sistema, la degradazione suggerisce che può diventare una caratteristica di tutti. Il punto vero è la crudeltà» (in Avvenire 10.01.2025).
È proprio questa crudeltà che bisogna combattere e arginare su tutti i fronti e ad ogni livello, per continuare a restare umani, affinché da questi interstizi di ingiustizia, si levi un appello provocatorio al pensiero e all’azione che siano forieri di più umanità. Bisogna impegnarsi affinché il migrante non venga considerato un “invisibile” e per questo occorre un surplus di pietà perché il migrante è una persona che sa «che deve arrivare in un posto ancora sconosciuto, che può non realizzarsi mai, come vagabondare in un luogo inospitale, e il cui futuro è una promessa non realizzata o un futile attesa, a meno che non incontri l’ospitalità e un benvenuto che sia la risposta a un originale bussare alla porta che deve essere ancora aperta» (cfr. Mike Purcell).
Ora, pur evitando ogni forma di “romanticizzazione” dell’esperienza di queste persone, non possiamo ignorare che in alcune sacche recondite e “primitive” di pezzi di società di alcuni Stati (non solo occidentali!), si nascondono (per poi esplodere al momento opportuno) tratti discriminatori verso le persone che emigrano, con alcune punte drammatiche di violazione dei diritti umani, persino giustificate per ragioni di Stato, ma che in realtà non possono appartenere in nessun modo a Stati che si definiscono democratici e di diritto. Perché accogliere chi emigra oltre ad essere un’opzione di carità, è anche una chiamata alla giustizia.
Per questo Hannah Arendt sostiene che, nel caso dei profughi la domanda chiave per uno Stato è come affronta una questione cruciale come questa, cruciale per una democrazia che possa continuare a rimanere umana che, non potendo più assumere i rimedi classici del rimpatrio e della naturalizzazione, spesso pone nuova enfasi sulla sicurezza dei confini e sulla creazione di barriere, per tenere a distanza gli estranei e i forestieri, nel tentativo di non mescolare, a loro avviso, l’identità di una nazione.
E invece, come ricorda Derrida, l’ospitalità è la cultura stessa, non è un’etica tra le altre, mentre Levinas andrà ancora oltre, sostenendo che l’ospitalità non è solo un criterio etico, ma è misura di umanità. Anzi a proposito dell’incontro fra Abramo (il migrante archetipo) e i tre uomini che lo raggiunsero sotto la quercia di Mamre, Levinas si chiede: “Abramo che riceve i tre visitatori riceve il Signore a motivo della Trinità che i tre visitatori prefigurano o li riceve a motivo della sua ospitalità?”. Risponderà così: “La risposta è: in ragione dell’ospitalità” (Id. in Persone o figure, in Difficile libertà).
- La profezia dell’impegno ecclesiale e la sfida delle nostre comunità
Questa breve analisi era doverosa perché non sarebbe corretto e onesto affrontare questa difficile realtà dell’emigrazione, ignorando che spesso si emigra da quelle che la Gaudium et spes al n. 27 definisce “condizioni di vita subumane”: «incarcerazioni arbitrarie, deportazioni, schiavitù, prostituzione, mercato delle donne e dei giovani, ignominiose condizioni di lavoro: tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose. Mentre guastano la civiltà umana, disonorano coloro che così si comportano più ancora che quelli che le subiscono e ledono grandemente l’onore del Creatore».
Alla luce di queste condizioni subumane che costringono ad emigrare, anche la comunità ecclesiale si sente interpellata, per una sollecitudine reale verso questa difficile realtà che nei nostri tempi ha delle coordinate moderne ben precise. Certamente la configurazione moderna delle emigrazioni, non è la stessa del passato, ma la Chiesa per secoli ha prestato assistenza e ha rivolto un’attenzione pastorale particolare alle persone coinvolte nella mobilità umana.
In modo specifico ad essere interrogati siamo noi cristiani che partecipiamo alla vita della comunità ecclesiale. Per questo faccio miei gli interrogativi della religiosa missionaria scalabriniana e specialista in missiologia, Carmen Lussi quando scrive: «Nell’attenzione ai soggetti migranti, qual è la posizione e la parola dei cristiani circa i fattori che a livello macrostrutturale causano, permettono o favoriscono forme di mobilità che non rappresentano soltanto il diritto di migrare, ma denotano violazioni, talvolta generalizzate, dei diritti umani e situazioni di minaccia alla vita e alla sua dignità? Nell’attenzione alle necessità dei/delle migranti, la comunità cristiana sa prendere posizione di fronte alla sfida della violenza, dello sfruttamento e di altre ingiustizie di cui chi migra porta i segni?» (in Concilium n.5/2008).
È vero, dunque, che questa realtà intercetta profondamente anche la sensibilità cristiana e cattolica dell’esperienza di fede ecclesiale che quindi non può defilarsi dinanzi a questo drammatico tema. Drammatico non perché esiste come realtà (essendo questo un fenomeno ineludibile, a maggior ragione nel tempo della globalizzazione), ma per la difficoltà insita nell’individuare giuste soluzioni, non egoiste e quindi umane e umanizzanti per governarle. Ma resta il fatto che per un credente, proprio per la sensibilità cristiana, «occuparsi dei migranti, per il credente, significa impegnarsi per assicurare a fratelli e sorelle giunti da lontano un posto all’interno delle singole comunità cristiane, lavorando perché ad ognuno siano riconosciuti i diritti propri di ogni essere umano. La Chiesa invita tutti gli uomini di buona volontà ad offrire il proprio contributo perché ogni persona sia rispettata e siano bandite le discriminazioni che umiliano la dignità umana» (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata mondiale dell’emigrazione, 1998, n. 2).
Ora, con questo genere di interrogativi la Chiesa, nella sua autoriflessione, si è sempre confrontata, solo che oggi è evidente che occorrono nuovi approcci, come afferma un testo importantissimo del Pontificio Consiglio Della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, che lo scorso anno ha compiuto venti anni, l’Istruzione Erga migrantes charitas Christi (2004): «è necessario pensare a nuove strutture che, da una parte, risultino più stabili, con una configurazione giuridica conseguente nelle chiese particolari e dell’altra, rimangano flessibili e aperte a una immigrazione mobile o temporanea. Non è cosa facile, ma sembra essere questa la sfida del futuro» (n. 90b).
La difficoltà interna alla Chiesa, risiede nel fatto che occorre far dialogare diversi saperi: migrazione, ecumenismo, dialogo interreligioso nella direzione di un pensiero profetico e di un processo di costruzione di rielaborazione identitaria, senza annullare violentemente il passato e l’origine di queste persone, ma che sappia tenere insieme la diakonia della cultura e la diakonia della koinonia: «La prima, perché permette ai migranti di continuare a costruire le loro identità come migranti, un’identità che è sintesi delle loro culture d’origine e della nuova cultura… la seconda, perché è il contributo del servizio della koinonia, tendendo a costruire nuovi modelli di comunità dov’è possibile il dialogo tra membri di origini differenti» (Ivi, C. Lussi).
È evidente come le migrazioni attuali pongono ai cristiani nuovi impegni di evangelizzazione e di solidarietà «chiamandoli ad approfondire quei valori, pure condivisi da altri gruppi religiosi o laici, assolutamente indispensabili per assicurare una armonica convivenza» (Erga migrantes, n. 9), a favore di un modello di integrazione profetica che «tra gli estremi del rifiuto e dell’assimilazione, indica un cammino naturale… di reciproco arricchimento» (cfr. Tomasi).
Questa forma di mobilità umana, inoltre, interroga anche quella che è la “struttura della cattolicità della nostra Chiesa apostolica”. Infatti “tanto la cattolicità quanto la migrazione globalizzata, includono, ciascuna nel proprio ambito, il tratto della interconnessione”. Per questo, tra i motivi di questa sollecitudine ecclesiale alla questione delle migrazioni, occorre aggiungerne altri due: a. uno relativo all’essenza della costituzione transazionale della Chiesa (che appartiene da sempre all’autoriflessione ecclesiale), b. l’altro relativo alla dimensione sinodale che «permette [alla Chiesa] di riscoprire la propria natura itinerante, di popolo di Dio in cammino nella storia, peregrinante, diremmo “migrante” verso il Regno dei cieli (cfr. LG, n. 49)» (Papa Francesco, Dio cammina con il suo popolo, 110a Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, 29 settembre 2024).
Ora, alla luce di questa sollecitudine (cristiana e cattolica), quali sono le linee argomentative del magistero ecclesiale circa la questione della migrazione?
Il punto imprescindibile e originario da cui partire è l’essere umano: «l’uomo è la prima strada che la chiede deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima fondamentale via della chiesa, via tracciata da Cristo stesso… Essendo quindi quest’uomo la via della chiesa, via della quotidiana sua vita ed esperienza, della sua missione e fatica, la chiesa del nostro tempo deve essere, in modo sempre nuovo, consapevole della sua situazione» (G.P. II, Redemptor hominis, n.14). Il punto di partenza è quell’essere umano che già all’interno delle Scritture è costituzionalmente homo viator. Ancora di più, perché come ricorda Schreiter, «i racconti di migrazione nelle Scritture ebraiche sono spesso il luogo in cui si realizza la rivelazione di Dio e in cui si manifesta la sua grazia» (cfr. Concilium 2/2008).
Per queste ragioni il Santo Padre nel Messaggio di questo anno, si è servito dell’analogia dell’esodo biblico e di quello dei migranti, per affermare che «come il popolo di Israele al tempo di Mosè, i migranti spesso fuggono da situazioni di oppressione e sopruso, di insicurezza e discriminazione, di mancanza di prospettive di sviluppo…e come gli ebrei nel deserto, anche i migranti trovano molti ostacoli nel loro cammino: sono provati dalla sete e dalla fame; sono sfiniti dalle fatiche e dalle malattie; sono tentati dalla disperazione».
- L’inizio del corpus dottrinale magisteriale
Alla luce di questi due punti fermi, e cioè dell’essere umano homo viator e della mobilità umana intesa anche come luogo teologico, si è articolato il magistero ecclesiale relativo alla questione delle migrazioni.
Alcuni fanno risalire a Pio XII una riflessione magisteriale ormai matura e organica relativa alle migrazioni, ma i primi interventi della Chiesa nel campo della migrazione risalgono a Leone XIII quando nel 1888 con una lettera Quam aerumnosa invitava i vescovi americani ad accogliere nelle loro strutture ecclesiali gli emigrati italiani, rendendo noto che a Piacenza stava sorgendo un nuovo Istituto per la loro assistenza religiosa, sotto la direzione del vescovo Mons. G.B. Scalabrini, canonizzato da papa Francesco il 9 ottobre del 2022. A tal proposito, in occasione dell’Udienza ai pellegrini convenuti per la canonizzazione, Papa Francesco disse che «di grande rilevanza fu il suo apostolato a favore degli emigranti italiani. In quel tempo ne partivano a migliaia verso le Americhe. Mons. Scalabrini li guardava con lo sguardo di Cristo, di cui ci parla il Vangelo; ad esempio Matteo scrive così: «Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore» (9,36). E si preoccupò con grande carità ed intelligenza pastorale di assicurare ad essi un’adeguata assistenza materiale e spirituale… Anche oggi le migrazioni costituiscono una sfida molto importante. Esse mettono in evidenza l’impellente necessità di anteporre la fraternità al rifiuto, la solidarietà all’indifferenza. Oggi ogni battezzato è chiamato a riflettere lo sguardo di Dio verso i fratelli e le sorelle migranti e rifugiati – sono tanti –, a lasciare che il suo sguardo allarghi il nostro sguardo, grazie all’incontro con l’umanità in cammino, attraverso una prossimità concreta, secondo l’esempio del vescovo Scalabrini».
Successivamente, nel 1900, la Segreteria di Stato emanò una circolare E’ noto come l’emigrazione temporanea in cui si invitavano i vescovi italiani ad interessarsi dei numerosi migranti stagionali, sia nella fase di partenza che in quella di ritorno. Sarà questo l’anno in cui il vescovo di Cremona, mons. Geremia Bonomelli, costituirà l’Opera di assistenza agli operai italiani emigrati in Europa e che terminerà nel 1927. Dal pontificato di Pio X (1903-1914) a quello di Pio XI (1922-1939), passando per quello di Benedetto XV (1914-1922), l’attenzione ai migranti subirà una rimodulazione a causa dei conflitti mondiali che si stavano preparando e che si consumarono, motivo per cui le attenzioni erano per i prigionieri e per chi era in guerra.
Dopo la Prima guerra mondiale ci fu un netto cambiamento nelle politiche concernenti l’immigrazione. Infatti, se fino ad allora era prevalso (salvo che in parte dell’Asia), un orientamento favorevole secondo il quale bastava regolarla ma non contrastarla (addirittura non di rado era anche incentivata), dopo la Grande guerra si diffuse progressivamente l’orientamento opposto.
Ora, mentre l’apertura caratteristica del passato era legata all’idea che l’immigrazione fosse comunque vantaggiosa per il Paese ospite, dopo la Prima guerra mondiale si diffuse la convinzione che l’immigrazione fosse addirittura svantaggiosa. E da ciò ovviamente, scaturirono politiche sempre più restrittive. Fino a metà del Novecento perché, invero, il crimine della deportazione, pose particolari forma d’immigrazione sotto la tutela del diritto internazionale (cfr. Convenzione di Ginevra sui rifugiati).
In questo contesto mondiale si è sviluppato un corpus dottrinale del magistero ecclesiale sul governo dell’immigrazione che, come detto, ufficialmente parte dalla costituzione apostolica Exsul familia del 1952 e arriva fino alla recente enciclica di Papa Francesco, Fratelli tutti del 2020.
Infatti, una volta terminata la II guerra mondiale, Pio XII (1939-1954) promulgherà nel 1952 la Costituzione apostolica Exsul familia che rappresenta il primo vero grande documento ecclesiale che tratta in modo globale e organico la cura pastorale dei migranti. Non si dimentichi che Pio XII è stato il pontefice che usò una delle espressioni più brillanti a questo proposito, quando in un radiomessaggio di Pentecoste del 1941 disse che «va rispettato il diritto della famiglia ad uno spazio vitale». In tal modo, ratificava come purtroppo, tanti luoghi non potevano considerarsi “spazi vitali” per la crescita umana, sociale, civile, spirituale e politica delle persone, ma erano “spazi mortiferi” che costringevano a fuggire, per cercare altrove spazi vitali.
Gli anni 1960-70 sono caratterizzati dall’apertura del Concilio ecumenico Vaticano II e dal pontificato di Giovanni XXIII che nella lettera enciclica Pacem in terris, al n. 12 scrive che «ogni essere umano ha il diritto alla libertà di movimento e di dimora all’interno della comunità politica di cui è cittadino; ed ha pure il diritto, quando legittimi interessi lo consiglino, di immigrare in altre comunità politiche e stabilirsi in esse».
Paolo VI, con il motu proprio Pastoralis migratorum cura aggiorna Exsul familia e afferma quelli che sono i diritti inalienabili della persona umana e del migrante ovvero: il rispetto e la valorizzazione del patrimonio culturale e religioso originario, la giustizia, lo sviluppo e la pace, il concetto di bene comune, la necessità e il diritto di avere una pastorale specifica per i migranti in seno alla Chiesa diocesana.
Giovanni Paolo II avrà il merito di pronunciarsi sul binomio migrazione-lavoro e lo farà con l’enciclica del 1981, Laborem excercens dove al n. 23, sottolineerà che, pur trattandosi di un fenomeno antico, si ripete continuamente. E noi ne siamo testimoni, visto il problema criminale del “caporalato” dei nostri giorni.
- Migrazione e lavoro: la piaga del caporalato e del lavoro sottopagato
Il lavoro è uno tra i motivi predominanti per cui un emigrante (in questo caso non il profugo né il rifugiato), sente quasi il dovere morale di lasciare il proprio Paese d’origine, nella speranza di trovare migliori condizioni di vita altrove. Questo fatto, certamente, non è privo di difficoltà e per varie ragioni. Prima di tutto perché questo rappresenta una perdita per il Paese dal quale si emigra: si allontana un membro da una comunità che è unita dalla storia, dalla tradizione, dalla cultura, per iniziare una vita in mezzo ad un’altra società, connessa da altre culture e molto spesso anche da altre lingue. E tuttavia, afferma G.P. II nella Laborem excercens, anche se l’emigrazione è sotto certi aspetti un male, in determinate circostanze questo è, come si dice, un male necessario. Si deve far di tutto (e certamente molto si fa a questo scopo), perché questo male in senso materiale, non comporti maggiori danni in senso morale, anzi perché, in quanto possibile, esso porti perfino un bene nella vita personale, familiare e sociale dell’emigrato, per quanto riguarda sia il Paese nel quale arriva, sia la patria che lascia. In questo settore moltissimo dipende da una giusta legislazione, in particolare quando si tratta dei diritti dell’uomo del lavoro. E s’intende che un tale problema entra nel contesto delle presenti considerazioni, soprattutto da questo punto di vista. La cosa più importante è che l’uomo, il quale lavora fuori del suo Paese natìo tanto come emigrato permanente quanto come lavoratore stagionale, non sia svantaggiato nell’ambito dei diritti riguardanti il lavoro in confronto agli altri lavoratori di quella determinata società.
Già la Gaudium et spes al n. 66 dichiarava che «per quanto riguarda i lavoratori che, provenendo da altre nazioni o regioni, concorrono con il loro lavoro allo sviluppo economico di un popolo o di una zona, è da eliminare accuratamente ogni discriminazione nelle condizioni di rimunerazione o di lavoro. Inoltre tutti e in primo luogo i poteri pubblici, devono trattarli come persone, e non semplicemente come puri strumenti di produzione; devono aiutarli perché possano accogliere presso di sé le loro famiglie e procurarsi un alloggio decoroso, nonché favorire la loro integrazione nella vita sociale del popolo o della regione che li accoglie».
Questa endiadi lavoro-migrazione, ci consente di attenzionare uno dei crimini che si consuma nelle nostre regioni e cioè il problema del caporalato e del lavoro sottopagato, specialmente dei migranti. Occorrono leggi severe per tutelare il lavoro di tutti, specialmente dei migranti che sono i più indifesi e perché in nessun modo il loro status, può diventare occasione di sfruttamento. Pertanto, anche per quanto concerne il rapporto di impiego con il lavoratore immigrato, devono valere gli stessi criteri che valgono per ogni altro lavoratore in Italia. Il valore del lavoro deve essere misurato con lo stesso metro, e non con riguardo alla diversa nazionalità, religione o razza. Anzi, uno Stato democratico di diritto, deve vigilare affinché non venga sfruttata la situazione di costrizione nella quale si trova l’emigrato.
Per queste ragioni Benedetto XVI nel Messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato del 2007, scrisse che «la Chiesa incoraggia la ratifica degli strumenti internazionali legali tesi a difendere i diritti dei migranti, dei rifugiati e delle loro famiglie, ed offrire, in varie sue Istituzioni e Associazioni, quell’advocacy che si rende sempre più necessaria», facendo eco a quanto detto già da Giovanni Paolo nel 1991 quando affermò che «la Santa Sede ritiene quanto mai opportuna la nuova Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dei migranti e delle loro famiglie… auspicando che sempre più trovi spazio nel diritto internazionale la protezione delle persone forzatamente sradicate dalla loro terra e lontane dai loro cari» (Giovanni Paolo II, Alla plenaria del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, 11 aprile 1991).
Ma è nell’enciclica Caritas in veritate che Benedetto XVI esprimerà con forza l’altrettanto importante “diritto a poter restare nella propria terra” e lì avere il diritto di costruirsi un futuro, ribadendo il «diritto di non essere obbligati ad abbandonare la propria patria» per realizzare una vita dignitosa. Su questo anche Giovanni Paolo II era stato molto chiaro nel Discorso ai partecipanti al IV Congresso mondiale promosso dal Pontificio Consiglio della pastorale per i migrati e gli itineranti (9 ottobre 1998) quando scrisse che «diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria. Questo diritto, tuttavia, diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione. Essi sono, tra gli altri, i conflitti interne, le guerre, il sistema di governo, l’iniqua distribuzione delle risorse economiche, la politica agricola incoerente, l’industrializzazione irrazionale, la corruzione dilagante».
- Le rimesse economiche e il Debito pubblico dei Paesi in via di sviluppo
A questo punto dobbiamo necessariamente menzionare due problemi che intralciano il reale sviluppo di questi paesi in via di sviluppo.
- La prima riguarda gli introiti che i migranti, con il loro lavoro, riversano nelle casse dei Paesi d’origine (le cosiddette rimesse) e che potrebbero essere una risorsa, seppur piccola, ma comunque importante per iniziare un parziale risanamento dei conti pubblici per un migliore funzionamento del sistema paese di quelle nazioni. Infatti, ricorda Silvano Tomasi, «il ruolo dei migranti che lavorano all’estero mostra quale positivo contributo essi diano all’economia nazionale sia delle nazioni d’origine sia di quelle d’arrivo».
Alcuni sottovalutano la reale capienza monetaria di queste rimesse, ma secondo un’analisi effettuata nel 2006 dal Fondo Internazionale per lo Sviluppo dell’Agricoltura, i migranti filippini per esempio, hanno mandato in patria 14.651 milioni dollari americani, l’Asia ha ricevuto 114 milioni di dollari, l’America Latina ha ricevuto 68 miliardi di dollari, l’Europa dell’Est e i Balcani poco più di 50 miliardi, l’Africa 39 miliardi e il Medio Oriente 30 miliardi di dollari. Non di rado accade che in alcuni casi «il flusso di denaro proveniente dalle rimesse supere il volume complessivo proveniente dall’assistenza straniera per lo sviluppo e dall’investimento estero diretto nelle nazioni in via di sviluppo».
Ma come sono gestiti questi immensi flussi di denaro? Sono reinvestiti nella formazione, nella produzione, nel welfare? O invece foraggiano i soliti oligarchi e la criminalità del posto? Per questo occorre che questi paesi siano anche aiutati nella gestione delle finanze e si impegnino nel realizzare aggiustamenti burocratici statali per evitare malversazioni di denaro pubblico. Un modo efficace per governare le migrazioni è anche questo e gli Stati sviluppati devono maggiormente impegnarsi nel sostenere i governi dei paesi in via di sviluppo, a combattere corruzione e tribalismo, perché in certi paesi la corruzione è un cancro endemico.
Fondamentalmente questo significa in mettere in atto un approccio più coordinato, sistematico e strutturato per affrontare la pressione migratoria, perché alla luce della complessità delle situazioni e dell’ampiezza delle tragedie umanitarie, per giungere ad efficaci soluzioni, oltre a stabilire una giusta, umana e reale accoglienza nei Paesi di approdo, occorre adottare già nei Paesi di partenza, misure adeguate utili a fermare la violenza, a costruire la pace e lo sviluppo di quei popoli. Questo è quanto dichiarato già nella Gaudium et Spes al n. 66: «per rispondere alle esigenze della giustizia e dell’equità, occorre impegnarsi con ogni sforzo affinché, nel rispetto dei diritti personali e dell’indole propria di ciascun popolo, siano rimosse il più rapidamente possibile le ingenti disparità economiche che portano con sé discriminazioni nei diritti individuali e nelle condizioni sociali quali oggi si verificano e spesso si aggravano. La giustizia e l’equità richiedono similmente che la mobilità, assolutamente necessaria in una economia di sviluppo, sia regolata in modo da evitare che la vita dei singoli e delle loro famiglie si faccia incerta e precaria».
- In questa direzione si inserisce il secondo problema su cui occorre intervenire per costruire, a lungo andare, una migrazione giusta e umana: la riflessione sul Debito Pubblico che questi Paesi hanno contratto con i paesi più ricchi.
Ciò chiede di porre in atto tempestivi interventi correttivi dell’attuale sistema economico e finanziario internazionale, dominato e manipolato dai Paesi industrializzati a danno dei Paesi in via di sviluppo. Lungo questa direttrice si è mosso Papa Francesco consegnando il messaggio per la 58a Giornata Mondiale della Pace (Rimetti a noi i nostri debiti, concedici la tua pace, 2025), in cui si denuncia il debito estero come «uno strumento di controllo, attraverso il quale alcuni governi e istituzioni finanziarie private dei Paesi più ricchi non si fanno scrupolo di sfruttare in modo indiscriminato le risorse umane e naturali dei Paesi più poveri, pur di soddisfare le esigenze dei propri mercati». Alla luce di questo il Santo Padre arriva anche ad offrire alcune soluzioni quando auspica una architettura finanziaria che porti alla creazione di una Carta finanziaria globale che vada ad impegnare creditori e debitori in una nuova dinamica nelle relazioni internazionali, così come verso una migliore e più sana gestione fiscale dei Paesi poveri. Per i creditori, invece, ci sarebbe l’impegno a non usare il debito come meccanismo di dominio che mantiene alcuni Paesi vulnerabili in condizioni di povertà cronica, come una nuova forma di colonizzazione economica.
L’obiettivo, dunque, deve essere quello di spezzare il circolo vizioso di finanziamento-indebitamento, per superare quell’ingiusto e iniquo cortocircuito ora in atto, che vede milioni di dollari sborsati ai Paesi più ricchi e che invece avrebbero potuto essere utilizzati per la protezione sociale, la sanità e l’istruzione, da cui dipende la vita dei più poveri. E poi il debito impedisce di investire nello sviluppo di infrastrutture come strade e ponti e quando queste infrastrutture esistono, vanno a beneficio di tutti.
Queste correzioni politiche lungimiranti e potremmo dire profetiche che evidenziano come l’emigrazione non è solo un problema di pubblica sicurezza, devono essere coniugate con sistemi economici e finanziari davvero funzionanti perché il rischio è quello di condonare il debito, come già accaduto in qualche misura nel passato, e poi ritrovarsi l’indebitamento a causa della corruzione, del malaffare e della burocrazia malata, dei vecchi e inutili metodi di produzione. Per queste ragioni è bene rileggere quanto è scritto nella GS al n. 87: «La cooperazione internazionale è indispensabile soprattutto quando si tratta dei popoli che, fra le molte altre difficoltà, subiscono oggi in modo tutto speciale quelle derivanti da un rapido incremento demografico. È urgente e necessario ricercare come, con la cooperazione intera ed assidua di tutti, specie delle nazioni più favorite, si possa procurare e mettere a disposizione dell’intera comunità umana quei beni che sono necessari alla sussistenza e alla conveniente istruzione di ciascuno. Alcuni popoli potrebbero migliorare seriamente le loro condizioni di vita se, debitamente istruiti, passassero dai vecchi metodi di agricoltura ai nuovi procedimenti tecnici di produzione, applicandoli con la prudenza necessaria alla situazione propria e se instaurassero inoltre un migliore ordine sociale e attuassero una più giusta distribuzione della proprietà terriera».
- Conclusioni
Fondamentalmente la dottrina sociale della Chiesa nel suo insieme delle indicazioni relative al governo dell’immigrazione, chiede di superare gli orientamenti ideologici e individuare una sintesi feconda che eviti le polarizzazioni tra appartenenza comune dei beni e interessi nazionali, il diritto di immigrare e la libertà di governare i flussi, il considerare l’immigrazione come opportunità, come una possibile risorsa o come una grande minaccia, cercando invece di bilanciare il bene comune dell’intera famiglia umana e non solo l’interesse (a volte egoistico) di alcuni Stati più ricchi.
Il riferimento al bene comune dell’intera famiglia umana apre prospettive per politiche di apertura bilanciata orientate al massimo possibile soddisfacimento delle esigenze autenticamente umane in gioco in uno scenario che è decisamente drammatico come già scriveva Benedetto XVI nella Caritas in veritate al n. 62: “Possiamo dire che siamo di fronte a un fenomeno sociale di natura epocale, che richiede una forte e lungimirante politica di cooperazione internazionale per essere adeguatamente affrontato. Tale politica va sviluppata a partire da una stretta collaborazione tra i Paesi da cui partono i migranti e i Paesi in cui arrivano; va accompagnata da adeguate normative internazionali in grado di armonizzare i diversi assetti legislativi, nella prospettiva di salvaguardare le esigenze e i diritti delle persone e delle famiglie emigrate e, al tempo stesso, quelli delle società di approdo degli stessi emigrati. Nessun Paese da solo può ritenersi in grado di far fronte ai problemi migratori del nostro tempo. Tutti siamo testimoni del carico di sofferenza, di disagio e di aspirazioni che accompagna i flussi migratori. Il fenomeno, com’è noto, è di gestione complessa; resta tuttavia accertato che i lavoratori stranieri, nonostante le difficoltà connesse con la loro integrazione, recano un contributo significativo allo sviluppo economico del Paese ospite con il loro lavoro, oltre che a quello del Paese d’origine grazie alle rimesse finanziarie. Ovviamente, tali lavoratori non possono essere considerati come una merce o una mera forza lavoro. Non devono, quindi, essere trattati come qualsiasi altro fattore di produzione. Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale, possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione”.
A queste parole si collega Papa Francesco quando nella Fratelli tutti, al n. 133 scrive che “l’arrivo di persone diverse, che provengono da un contesto vitale e culturale differente, si trasforma in un dono, perché quelle dei migranti sono anche storie di incontro tra persone e tra culture: per le comunità e le società in cui arrivano sono una opportunità di arricchimento e di sviluppo umano integrale di tutti. Perciò chiedo in particolare ai giovani di non cadere nelle reti di coloro che vogliono metterli contro altri giovani che arrivano nei loro Paesi, descrivendoli come soggetti pericolosi e come se non avessero la stessa inalienabile dignità di ogni essere umano”.
Proprio in conformità con il magistero di Papa Francesco, potremmo individuare un percorso articolato attorno a quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Ciascun verbo indica un’attività e quindi rappresenta un invito all’azione, partendo da ciò che è attualmente possibile, per procedere verso l’obiettivo finale, quello cioè di costruire una casa comune, inclusiva e sostenibile per tutti.
Innanzitutto, il verbo accogliere che significa aprire canali umanitari legali e sicuri per i migranti e i rifugiati perché la decisione di emigrare dovrebbe essere volontaria e la migrazione stessa dovrebbe essere sicura, legale e ordinata. Per tali ragioni occorre esortare gli Stati e gli altri attori coinvolti ad ampliare il numero e le forme di vie legali alternative per una migrazione e un reinserimento sicuri e volontari. Esempi concreti di tali vie potrebbe essere dare maggiore spazio ai visti per studenti, intesi anche per programmi di apprendistato e tirocinio, così come per tutti i livelli dell’istruzione formale. Molto importanti devono essere i visti per i ricongiungimenti familiari. Inoltre un’accoglienza responsabile e degna dei migranti e rifugiati «comincia dalla loro prima sistemazione in spazi adeguati e decorosi. I grandi assembramenti di richiedenti asilo e rifugiati non hanno dato risultati positivi, generando piuttosto nuove situazioni di vulnerabilità e di disagio. I programmi di accoglienza diffusa, già avviati in diverse località, sembrano invece facilitare l’incontro personale, permettere una migliore qualità dei servizi e offrire maggiori garanzie di successo» (Francesco, Discorso ai partecipanti al Foro internazionale “Migrazioni e Pace”, 21 febbraio 2017).
L’altro verbo è proteggere nel senso di garantire i diritti e la dignità dei migranti e dei rifugiati e la Chiesa insiste sulla necessità di adottare un approccio integrale e integrato, che metta al centro la persona umana. L’approccio integrale resta, indubbiamente, il modo migliore per indentificare e superare stereotipi pericolosi, evitando così di stigmatizzare un individuo sulla base di pochi elementi specifici e prendendo invece in considerazione tutti gli aspetti e le dimensioni della persona intesa come un tutt’uno. La corretta attuazione dei diritti umani è veramente vantaggiosa sia per i migranti sia per i paesi d’origine e di destinazione. Le misure suggerite non sono mere concessioni ai migranti. Esse sono nell’interesse dei migranti, delle società che li ospitano e di tutta la comunità internazionale. La promozione e il rispetto dei diritti umani dei migranti e della loro dignità garantisce che i diritti e la dignità di tutti nella società siano totalmente rispettati.
I migranti, i richiedenti asilo e i rifugiati devono essere accolti come esseri umani, nel pieno rispetto della loro dignità e dei loro diritti umani, qualunque sia il loro status migratorio. Sebbene ogni Stato abbia diritto a gestire e controllare le proprie frontiere, i migranti e i rifugiati devono essere accolti in conformità agli obblighi specifici in virtù del diritto internazionale, incluse le leggi sui diritti umani e quelle internazionali sui rifugiati. E poi quanto più si apriranno vie alternative e legali per i migranti e i rifugiati, meno essi diventeranno preda di reti criminali e vittime della tratta o di sfruttamento e abuso nel contesto del traffico di migranti. Il diritto alla vita è la garanzia più fondamentale della libertà civile e politica.
Un altro verbo importante è promuovere cioè favorire lo sviluppo umano integrale dei migranti e dei rifugiati. Attualmente la durata media dell’esilio di coloro che sono fuggiti dai conflitti armati è di 17 anni. Anche per i lavoratori migranti il tempo trascorso lontano da casa può arrivare a diversi anni. Gli Stati di accoglienza, più che offrire una semplice risposta di emergenza e servizi di base, devono fornire strutture che consentano a coloro che rimangono a lungo termine di realizzarsi come persone, contribuendo così allo sviluppo del Paese che li ospita. Inoltre, posto che uno dei principi fondamentali degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile 2030 è quello di “non lasciare nessuno indietro”, la comunità internazionale deve aver cura di includere i rifugiati, richiedenti asilo e lavoratori migranti nei suoi piani di sviluppo.
Infine integrare ovvero arricchire le comunità grazie ad una maggiore partecipazione dei migranti e dei rifugiati. La presenza di migranti e di rifugiati è un’opportunità per creare una nuova comprensione e allargare gli orizzonti. Ciò si applica sia a coloro che vengono accolti, che hanno la responsabilità di rispettare i valori, le tradizioni e le leggi della comunità che li accoglie, sia alla popolazione autoctona, chiamata a riconoscere il contributo benefico che ogni migrante può apportare a tutta la comunità. Entrambe le parti si arricchiscono reciprocamente grazie alla loro interazione, mentre la comunità nel suo insieme si vede rafforzata da una maggiore partecipazione di tutti i suoi membri, sia autoctoni sia migranti. Ciò è vero anche quando i migranti o i rifugiati decidono di fare ritorno in patria.
Concludo con il numero 17 della Lettera Apostolica Octogesima adveniens di Paolo VI (1971):
È dovere di tutti, e specialmente dei cristiani, lavorare con energia per instaurare la fraternità universale, base indispensabile di una giustizia autentica e condizione di una pace duratura: “Non possiamo invocare Dio, Padre di tutti gli uomini, se rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati ad immagine di Dio. La relazione dell’uomo con Dio Padre e quella dell’uomo con gli altri uomini, suoi fratelli, sono tanto connesse che la Scrittura dice: “Chi non ama, non conosce Dio” (1Gv 4,8)”.
Perché, come osserva Papa Francesco in Fratelli tutti: “quando si accoglie di cuore la persona diversa, le si permette di continuare ad essere sé stessa, mentre le si dà la possibilità di un nuovo sviluppo… Non va ignorato il rischio di finire vittime di una sclerosi culturale. Perciò abbiamo bisogno di comunicare, di scoprire le ricchezze di ognuno, di valorizzare ciò che ci unisce e di guardare alle differenze come possibilità di crescita nel rispetto di tutti. È necessario un dialogo paziente e fiducioso, in modo che le persone, le famiglie e le comunità possano trasmettere i valori della propria cultura e accogliere il bene proveniente dalle esperienze altrui” (cfr. FT, n. 134).
Potenza, 7 Febbraio 2025
✠ Francesco Savino
Vescovo di Cassano all’Jonio
Vicepresidente Conferenza Episcopale Italiana