Ora così dice il Signore che ti ha creato, o Giacobbe,
che ti ha plasmato, o Israele:
“Non temere, perché io ti ho riscattato,
ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni.
Se dovrai attraversare le acque, sarò con te,
i fiumi non ti sommergeranno;
se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai,
la fiamma non ti potrà bruciare,
poiché io sono il Signore, tuo Dio,
il Santo d’Israele, il tuo salvatore.
Io do l’Egitto come prezzo per il tuo riscatto,
l’Etiopia e Seba al tuo posto.
Perché tu sei prezioso ai miei occhi,
perché sei degno di stima e io ti amo (Is 43,1-4ab)
Carissimi/e,
quante volte ci capita di chiederci quale sia il vero senso della nostra vita?
È una domanda molto umana, ordinaria e profonda, pervasiva ma spesso latente, pronta a riemergere con potenza quando si vivono certe esperienze particolarmente fascinose o duramente sofferte.
Qualunque sia il contesto in cui si riaffaccia nella nostra coscienza, la domanda sul senso della vita esplora la profondità dell’anima così come l’estensione immensa del mondo, l’orizzonte del presente e la successione incontrollabile del tempo, e si spinge fino a interrogare l’Infinito e l’Eterno.
Sì, è una domanda tipicamente umana, perché rivela che siamo soggetti, siamo coscienza, siamo spirito, non solo materia inerte e non solo strutture biologiche. E in questo, ci distinguiamo radicalmente da ogni altro essere terreno.
Eppure, questa domanda rimarrebbe frustrante, angosciosa, se scoprissimo che solo l’essere umano può interrogarsi, senza nessun altro che la possa accogliere, che possa corrispondere, porsi in dialogo. Se fosse una domanda lanciata nel vuoto cosmico, senza ritorno.
L’esperienza biblica ci dice che non è così, non siamo soli. Il nostro bisogno di interrogarci sul senso della vita è un bisogno di relazione, di reciprocità, di sapere che siamo fatti per un fine e che questo fine non è una cosa ma un Soggetto. Ebbene, l’esperienza del popolo di Dio ci fa scoprire Colui che non solo raggiungiamo come termine delle nostre domande, ma Colui che ci precede, ci pensa, ci desidera, ci accompagna, ci attende. Colui che stabilisce la sua relazione con noi, una relazione di amore incondizionato. Colui che dà senso ai nostri sforzi e offre una meta che colma le nostre aspirazioni. Il Dio di Israele, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo, è Lui che ci chiama. È Lui che dona senso alla nostra vita. Fa della nostra vita una vocazione. Una vocazione all’Amore.
Vorrei fare di questa esperienza umana condivisa il punto di partenza per una mia semplice riflessione pastorale e spirituale, offerta a voi in forma di lettera, a partire dalla quale avremo modo di interagire durante l’anno. Sono convinto della necessità, per tutti noi battezzati, di riscoprire il senso della vita umana come vocazione e di riconsegnare questa certezza a tutti i fratelli e sorelle in Cristo. E non solo a loro, ma a tutta l’umanità. L’esperienza biblica e cristiana della vita intesa come vocazione è anche un contributo di inestimabile valore umano, da condividere con tutte le culture.

Vorrò quindi proporre queste mie riflessioni in quattro passaggi, come quattro anelli concentrici che si condensano progressivamente: la vita come vocazione, le diverse forme di vocazione, la vocazione particolare al matrimonio e alla famiglia, la vocazione particolare all’ordine sacro e alla vita consacrata.
- La vita come vocazione
«Noi siamo stati creati per amare ed essere amati. Dio, che è Amore, ci ha creati per renderci partecipi della sua vita, per essere amati da Lui e per amarlo, e per amare con Lui tutte le altre persone. Questo è il “sogno” di Dio per l’uomo. E per realizzarlo abbiamo bisogno della sua grazia, abbiamo bisogno di ricevere in noi la capacità di amare che proviene da Dio stesso». Lo diceva papa Francesco commentando il brano evangelico del comandamento dell’amore (Angelus, 29 ottobre 2017). Ma sono parole che condensano la profonda coscienza radicata nella tradizione cristiana: non siamo frutto del caso, la nostra vita è sensata perché è direttamente pensata e voluta da Dio, e ha un fine, una vocazione, quella di essere amati ed amare. «Dio ci ama – aveva detto Benedetto XVI ai giovani durante la GMG 2011 –. Questa è la grande verità della nostra vita e che dà senso a tutto il resto. Non siamo frutto del caso o dell’irrazionalità, ma all’origine della nostra esistenza c’è un progetto d’amore di Dio».
Interpretare la nostra esistenza solo come frutto di caso e necessità (secondo il pensiero di J. Monod, che ha interpretato un certo evoluzionismo materialista), ci impedirebbe di riconoscerle un fine, una meta, una pienezza. Quando l’evoluzionismo è assunto non solo come riconosciuta teoria scientifica, ma come visione filosofico-antropologica totalizzante, costringe a soffocare l’intima necessità di sapere che la nostra vita ha un valore ed è una libertà da realizzare, impone di abbassare le attese e le speranze di una vocazione umana all’amore.
La fede cristiana vede invece l’uomo radicato nel cuore del Padre, nel pensiero eterno della Santissima Trinità. Vede la creazione dell’uomo come il frutto di un desiderio di Dio, il quale per sua natura, in modo libero e non necessitato, ama uscire da se stesso, chiamare all’esistenza la creatura per renderla partecipe del suo amore. Una creatura che sia dotata anch’essa di coscienza e libertà, capace di comunicare e di agire, di relazionarsi e di amare. La creatura umana nasce perché Dio ad essa vuole donarsi. E perché anche ad essa sia data la grazia di potersi donare, liberamente, pienamente.
Siamo tutti chiamati, “vocati”. Lo siamo in quanto creature umane, già prima di essere battezzati e di essere raggiunti dal Vangelo. Portiamo nelle fibre del nostro essere un’apertura a Dio e agli altri che attende solo di essere percorsa, portiamo una capacità di bene che attende solo di essere riconosciuta e attuata[1].
La stessa condizione terrena e storica dell’uomo richiede l’apertura di ciascuno agli altri, che cioè ogni singola persona impegni e diriga la propria libertà verso ciò che giova alla vita e alla crescita di tutti, mettendo a frutto le proprie doti e peculiarità. La terra, un giardino da custodire e coltivare, richiede una complessa e infinita varietà di competenze, energie, conoscenze, e ognuno apporta le proprie abilità particolari, ognuno è chiamato a esprimere i propri talenti. La società stessa, comunione di persone, intreccia e mette in circolo le sensibilità e le intelligenze, i cuori e le forze di ciascuno, così che ognuno nel dare possa molto più ricevere.
L’idea di poter solo sfruttare la terra e la società, a beneficio dell’individuo e del suo benessere particolare, si fa indubbiamente strada ogni giorno, nelle culture diffuse così come nelle mentalità personali. Eppure, questa idea – la vita intesa come ricerca edonistica del bene per sé – è una radicale contraddizione rispetto alla stessa natura umana. Solo la vita intesa come vocazione, come chiamata al dono e alla corresponsabilità, corrisponde al senso più pieno del nostro essere uomini e donne. «Proprio questa è l’originalità della vocazione cristiana: far coincidere il compimento della persona con la realizzazione della comunità» (Pontificia Opera per le Vocazioni Ecclesiastiche, Nuove vocazioni per una nuova Europa, Roma 1997, 18d). Perché solo se possiamo metterla a frutto come dono e missione, sentiamo che la nostra vita non è sprecata, non è gettata via, ma è significativa, è valorizzata, realizzata. «La vocazione – afferma Enzo Bianchi – è ciò che fa l’uomo e lo umanizza, perciò è vocazione umana singolare e universale al contempo, vocazione dalla quale nessuno è escluso, anche se nella propria libertà chiunque si può rifiutare di ascoltarla e di accoglierla. Ogni umano, in quanto tale, sente in sé, nelle sue profondità più segrete, nel santuario della sua coscienza accessibile a lui solo, una chiamata, un impulso, un desiderio a uscire da se stesso per essere capace di responsabilità, dunque di rispondere alla chiamata rivoltagli dalla vita. Solo così si può cogliere che la propria vita è unica, che non ve ne sarà un’altra a disposizione, e che per questo va vissuta in una forma ‘sensata’, una forma che acconsenta alla salvezza» (Prolusione al XXVII Convegno di spiritualità ortodossa, Bose 2019).
Gli stessi racconti biblici della creazione racchiudono l’idea che già all’origine c’è un fine, fin dal suo sorgere l’uomo è chiamato a guardare negli occhi una meta da raggiungere, e questa meta è Dio stesso, Colui che fa la creatura da guardare negli occhi, da amare, perché essa stessa possa guardarlo negli occhi ed amare.
Anche la più celebre iconografia artistica ispirata alla nascita di Adamo esprime in modo evidente che la creazione è una chiamata, una relazione. Il celebre affresco di Michelangelo, nella cappella Sistina, mostra lo sguardo potente di Dio e lo sguardo nascente di Adamo che si congiungono in quel punto di incontro, fra le dita che si sfiorano, dove la forza del Creatore solleva dalla polvere quel corpo che comincia ad animarsi.

Ancora più evidente è l’incrocio di occhi raffigurato da Jacopo della Quercia, nel bassorilievo che si può ammirare sulla porta della basilica di San Petronio a Bologna. Lo sguardo grato e stupito di un Adamo che sta ancora adagiato sulla terra è attratto dagli occhi e dal gesto del Creatore, che esprimono già un linguaggio, una prima parola, di benedizione e di chiamata alla vita.
- Le diverse vocazioni cristiane
«Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti. A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo» (Ef 4,4-7).
Lo sguardo benedicente che Dio Creatore e Padre rivolge ad Adamo abbraccia in unità tutti i suoi figli, radunandoli in un unico progetto di comunione e di vita. San Paolo parla della vocazione come speranza, una speranza che abbraccia tutti coloro che in Cristo formano un solo corpo e un solo spirito. La speranza che non delude è fondata sulla certezza che viene dal Battesimo, dalla riscoperta della voce dello Spirito che dal profondo del cuore (Rm 5,5) attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio (Rm 8,16). Questa è la speranza non privata, individualistica, ma comune, unica, perché uno è il Signore da cui proviene, una la fede che la nutre, uno il battesimo che la dona. Parlando ai cristiani di Efeso, San Paolo identifica questa unica vocazione come la scelta e la chiamata universale, da parte di Dio Padre, ad essere «santi e immacolati di fronte a lui nella carità» (1,4). Sarebbe interessante riscoprire la dimensione battesimale dell’annuncio della vita cristiana, sia in occasione del battesimo dei bambini e degli adulti come anche nell’accompagnamento alla vita spirituale, della fede che nasce dall’ascolto della Parola di Dio (Rm 10,17). Anche il Cammino Sinodale delle Chiese d’Italia lascia emergere questa priorità (Parte II, 8 volte su 8 gruppi: Formare gli adulti alla maturità della fede attraverso la Parola di Dio https://camminosinodale.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/2025/04/SecondaAssemblea-Sinodale_Priorita.pdf).
È la vocazione universale alla santità – come disse la Lumen Gentium con un’espressione sempre attuale e ben radicata nel Vangelo. Papa Francesco più volte ci ha tenuto a spiegare con tanta semplicità che questa vocazione è universale, ma non astratta, non disincarnata. Anzi, proprio perché universale, è concreta, accessibile a tutti, non riservata a categorie privilegiate di persone. Già prima di dedicare alla santità cristiana l’esortazione apostolica Gaudete et exsultate, gli era molto caro far comprendere che la vocazione alla santità si declina in tante e multiformi esperienze di vita, secondo i ruoli e i doni di ciascuno: «È proprio vivendo con amore e offrendo la propria testimonianza cristiana nelle occupazioni di ogni giorno che siamo chiamati a diventare santi. E ciascuno nelle condizioni e nello stato di vita in cui si trova. Ma tu sei consacrato, sei consacrata? Sii santo vivendo con gioia la tua donazione e il tuo ministero. Sei sposato? Sii santo amando e prendendoti cura di tuo marito o di tua moglie, come Cristo ha fatto con la Chiesa. Sei un battezzato non sposato? Sii santo compiendo con onestà e competenza il tuo lavoro e offrendo del tempo al servizio dei fratelli. (…) Sei genitore o nonno? Sii santo insegnando con passione ai figli o ai nipoti a conoscere e a seguire Gesù. E ci vuole tanta pazienza per questo, per essere un buon genitore, un buon nonno, una buona madre, una buona nonna, ci vuole tanta pazienza e in questa pazienza viene la santità: esercitando la pazienza. Sei catechista, educatore o volontario? Sii santo diventando segno visibile dell’amore di Dio e della sua presenza accanto a noi. Ecco: ogni stato di vita porta alla santità, sempre! A casa tua, sulla strada, al lavoro, in Chiesa, in quel momento e nel tuo stato di vita è stata aperta la strada verso la santità. Non scoraggiatevi di andare su questa strada» (Udienza generale, 19.11.2014).
Ecco, la vocazione cristiana è alla santità, ed è declinata al plurale, anzi alla pluralità. A ciascuno è data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. La vocazione universale alla santità si realizza così nelle vocazioni particolari. Ne è la fonte e, al tempo stesso, la meta.
Il carattere intrinsecamente “vocazionale” della vita cristiana si concilia con la sua perenne incompiutezza. Noi non nasciamo già compiuti nel nostro essere. Realizzare la propria specifica vocazione non significa solo svolgere un compito, una funzione, ma significa portare a maturazione il nostro stesso essere. «Cristiani non si nasce, lo si diventa» già Tertulliano marcava nel suo Apologetico la dimensione dinamica della vocazione: essa non è un possesso ma un cammino costante di conformazione a Cristo perché l’immagine ricevuta nel Battesimo – la figliolanza – possa risplendere nella somiglianza – la vita in Cristo. «Secondo la concezione biblica l’uomo “non ha la vocazione” come se fosse un bene di possesso, bensì deve “maturare la propria vocazione” come una graduale scoperta da compiere in relazione […] a Dio, origine e sorgente di ogni vocazione» (G. De Virgilio, «Vocazione/Chiamata», Dizionario Biblico della Vocazione, 987-1005). Non abbiamo una vocazione, noi piuttosto siamo la nostra vocazione.
L’incompiutezza del nostro essere, illuminata dallo sguardo paterno di Dio, diventa così una grazia, ovvero la condizione in cui possiamo contribuire con il nostro cuore e la nostra mente, con la nostra anima e la nostra libertà, a scegliere ciò che il Padre ha pensato per noi. E questa libertà che ci è data, è quella che ci permette di fare della nostra vita un dono, un cammino di amore, di santificazione.
Ma anche la bellezza della Chiesa, e dell’umanità intera, è incompiuta ed è affidata alla vocazione personale di ognuno. Poiché il corpo è uno, la bellezza e la pienezza di ogni membro contribuisce alla bellezza di tutta la Chiesa, così come l’inerzia e il fallimento del singolo privano tutto il corpo di un dono che lo arricchirebbe di grazia.
Anche la nostra chiesa diocesana dobbiamo pensarla così: resa più bella, più compiuta, dal contributo delle vocazioni di ognuno di noi, ciascuno con il suo ministero e i suoi doni. Accogliere la propria vita come vocazione e seguirne il progetto, infatti, non significa puntare solo a un proprio perfezionamento individuale, ma inserire la propria vita in un respiro ampio e armonioso, nella rete di relazioni e di comunione che lo Spirito di Dio desidera intessere per fare di ognuno di noi un membro vivo della sua Chiesa. È lo Spirito che fa giovane la Chiesa e la vivifica, e per questo ha bisogno che ognuno di noi gli offra la ricchezza che Egli stesso ci ha affidato personalmente. La chiesa diocesana è luogo concreto in cui l’armonia dei carismi e delle vocazioni di tutti può realizzarsi ed esprimersi in modo visibile e storicamente concreto.
È qui che trova la sua più bella ragione la preghiera per le vocazioni. Non chiediamo al Signore che mandi vocazioni come un’azienda a corto di personale ma come membra del suo stesso corpo che desiderano rendere la Sposa ancora più bella per le nozze eterne (Ap 21).
Abbiamo bisogno di vocazioni (cf. G.Puglisi https://rivistavocazioni.chiesacattolica.it/2019/11/02/abbiamo-bisogno-di-vocazioni/) perché risplenda la bellezza della nostra Chiesa Diocesana resa ricca da tutte le vocazioni: «La Chiesa ne ha tanto bisogno»[2] (Leone XIV, Regina coeli, 12 maggio 2025).
Anche la famiglia, le relazioni lavorative, le amicizie, gli scambi solidali sono reti in cui le vocazioni di ciascuno si esprimono e si rendono efficaci. Non c’è vocazione che non sia chiamata a servire gli altri e a edificare il Regno di Dio. Possiamo dire che vocazione e servizio sono due facce della stessa medaglia: la chiamata, l’invito che il Signore rivolge è sempre destinato a una missione da svolgere nella comunità e nella vita sociale. Anche le vocazioni contemplative sono espressione piena di un altissimo servizio di offerta, intercessione e carità, reso a beneficio della Chiesa e al mondo.
Allo stesso modo la preghiera anima e sostiene le vocazioni, non solo quelle contemplative. Tutte le vocazioni richiedono una vita di preghiera per poter discernere e realizzare la volontà di Dio con la fecondità dello Spirito. La preghiera fa della vita una risposta alla vocazione e la fedeltà alla vocazione fa della vita una preghiera e un’offerta di sé.
In questo, invito, propongo, suggerisco ai presbiteri, ai consacrati e alle consacrate di approfondire le dinamiche dell’accompagnamento spirituale: la confessione sacramentale, la catechesi, le diverse attività pastorali nei confronti degli adolescenti e dei giovani non possono dimenticare la loro direzione di crescita e maturazione: «I giovani hanno bisogno di essere rispettati nella loro libertà, ma hanno bisogno anche di essere accompagnati» (Vedi Francesco, Christus vivit, 242-247).
La preghiera è determinante, perché ogni battezzato, pur se si lascia guidare dall’esempio di testimoni credibili di vita cristiana, non troverà mai un modello preciso da replicare. Nessuno può limitarsi a emulare la vocazione di un altro, per il semplice fatto che la vocazione personale è legata a tutta quella specificità di elementi personali, spirituali, storici, caratteriali, ambientali, culturali, che definiscono l’identità del singolo e dei suoi carismi. Molto più che le impronte digitali o le sfumature dell’iride, la specificità irripetibile dei doni di Dio identifica ognuno dei suoi figli rispetto agli altri. L’esempio dei testimoni resta un dono impareggiabile, ma solo nella preghiera personale si può accogliere dallo Spirito la luce e la grazia necessarie per portare a frutto la propria vocazione irripetibile.
Possiamo certamente parlare di vocazioni comuni, o di modelli di vocazione, ma sempre tenendo presente che ogni modello vocazionale non è un protocollo da eseguire, ma solo un riferimento per discernere e concretizzare il proprio personale percorso nella comunità. Con questa precisazione previa, possiamo certamente identificare le specificità della vocazione laicale rispetto alla vocazione di speciale consacrazione, della vocazione al matrimonio o al ministero ordinato.
- La vocazione al matrimonio

Sono convinto che non ci sia termine più bello e completo per parlare del matrimonio cristiano: vocazione.
Vocazione, perché il matrimonio nasce dalla fonte dell’amore di Dio e vive come soffio della sua voce, che continua ogni giorno a fare appello alla vita degli sposi, chiamandoli al dono di sé. Lo so che questa concezione del matrimonio può apparire troppo idealistica e comprendo bene che nella realtà concreta di ogni coppia e di ogni famiglia essa fa i conti con tutti i limiti, le fragilità e le chiusure che, in un modo o nell’altro, condizionano ogni essere umano. Ma non possiamo permettere che le asperità della realtà quotidiana ci impediscano di guardare alto, di lasciarsi ispirare dalla bellezza degli ideali, quelli creati per noi dall’amore di Dio.
E allora continuiamo a contemplare, e a toccare, l’ideale del matrimonio come vocazione, a lasciarci guidare dalla sua forza, senza timore di apparire in qualche modo illusi o disincarnati. Se il matrimonio come vocazione è un sogno, allora è un sogno di Dio. Sono i sogni di Dio che danno forza alla profezia, e la profezia è forza che incide nel mondo, lo attraversa e lo cambia, anche quando attira su di sé derisioni e opposizioni.
Dio affida il suo sogno a delle creature, così come sono, limitate, anche peccatrici. Ma non per questo rinuncia al suo sogno: che quelle creature, con la sua Grazia, possano dire sì e possano realizzare un progetto che sia segno del suo amore per l’umanità. Che possano essere fedeli, unite, dedite l’una all’altra, consacrate nell’amore. Una sola carne (Gn 2,18-24), ma anche un solo soffio vitale (cfr. Mal 2,14-16).
Recuperare la dimensione vocazionale del matrimonio permette di accompagnare le coppie e le famiglie nell’approfondire la loro spiritualità coniugale: la preghiera in coppia (o in famiglia), l’ascolto della Parola che chiarisce le scelte, la possibilità di riconoscere che insieme all’ordine anche il matrimonio è sacramento per la comunione a edificazione della Chiesa (Due altri sacramenti, l’Ordine e il Matrimonio, sono ordinati alla salvezza altrui. Se contribuiscono anche alla salvezza personale, questo avviene attraverso il servizio degli altri. Essi conferiscono una missione particolare nella Chiesa e servono all’edificazione del popolo di Dio (CCC1534). Trovare seri e pensati spazi di sinergia tra queste due vocazioni è un orizzonte pastorale ancora tutto da studiare (non so se opportuno per la tua diocesi ma altrove esistono esperienze di collaborazione tra famiglie e presbiteri sia nell’accompagnamento dei giovani e degli adolescenti, sia a servizio della comunità parrocchiale).
Nel matrimonio – così come nella vita consacrata e nel ministero ordinato – la dimensione vocazionale della vita dà respiro all’amore e alla libertà di chi l’accoglie. Il progetto di Dio infatti, sostenuto dalla Grazia che Egli stesso affida agli sposi, non si impone con la forza della legge, né tanto meno con la mera autorità del Creatore, ma è un appello, un sogno appunto, che il Signore ama confidare alle sue creature. Esse restano libere, perché solo nella libertà si può amare, si può dare se stessi.
Certo, la cultura della libertà individuale e dei diritti che vi sono connessi – frutto conquistato dalle società contemporanee anche grazie al contributo del cristianesimo che ha esaltato il valore e la dignità della persona – si ripiega troppo spesso su se stessa, finendo per assolutizzare il diritto al benessere personale, quasi fosse l’idolo al quale ogni libertà umana debba votarsi. L’amore di Dio per l’umanità, l’amore di Cristo per la sua Sposa, non è così. Non è finalizzato al “benessere” dell’Amante. L’amore di Dio cerca solo di donarsi, senza riserve. L’amore di Dio non cerca il proprio interesse, non mira alla propria soddisfazione e al proprio benessere. Piuttosto si svuota, si annienta, per l’Amata. Per l’umanità sua sposa, per la Chiesa, per ogni anima. Questa è la libertà di Dio, quella di amare, di donarsi.
E il dono di sé non conduce propriamente al benessere, almeno secondo i nostri parametri culturali. Il dono di sé comporta sempre sacrificio, anche pazienza, fatica, dolore. Non è strano riconoscere questo, basti pensare all’esempio umano più tipico, l’amore ideale di una madre o di un padre verso i propri figli: quale genitore non fa esperienza dei sacrifici di amore, della pazienza, della fatica e anche del dolore che scaturiscono dall’amore verso i figli? Forse questo aspetto “sacrificale”, oblativo, è un limite dell’amore? O non ne è proprio l’espressione più autentica e vera? Non porta con sé un senso di gioia, quella che corrisponde alla coscienza che i propri sacrifici sono frutto dell’amore e che l’amore è ricompensa e gioia in se stesso?
E allora perché non riconoscere che anche il matrimonio, immagine dell’amore di Dio per l’umanità, è vero, è libero, è pieno non tanto quando porta a un utopico benessere personale, ma quando alimenta il dono di sé per la persona amata? E di entrambi gli amanti verso i loro figli?
Anche le caratteristiche proprie del matrimonio, la fedeltà e l’indissolubilità, sono forse proposti da Dio Creatore come un limite, o non piuttosto come una pienezza? Quando l’amore è pieno ed è vero? Quando è sottoposto alla condizione dello “stare bene insieme”, o quando è dono senza condizioni?
Certo, davanti a questa domanda apparentemente retorica può tornare l’obiezione: l’amore vero è senza condizioni, sì, ma questo è un sogno. Eppure, il Signore non teme di sognare e di affidarci un sogno da realizzare. Perché lui non pretende che gli sposi siano perfetti. Neanche che lo siano i consacrati e i ministri ordinati. Non pretende che il suo sogno sia realizzato senza macchie. Lui soltanto chiede agli sposi di essere così come sono, ma di essere l’uno per l’altro. Non ognuno per il suo bene. E sulla sua Grazia, sulla sua Parola, questo sogno può essere davvero portato avanti, nel sì di ogni giorno.
E già, il “sì di ogni giorno”. Quando si parla di vocazione, si immagina spesso un momento solenne, nel quale si risponde un grande “sì” a una chiamata superiore. Non per nulla, tra una certa ironia e un po’ di stereotipo, si usa l’espressione “il fatidico sì”. Ecco, quel momento solenne, in cui gli sposi sono chiamati a dire con coscienza, amore e libertà il loro “sì”, deve essere sempre liberato dalla retorica, ma deve anche poter risaltare come modello credibile, attuale, attraente. Una grande sfida per noi come Chiesa. Ma al tempo stesso è necessario, anche da un punto di vista pastorale, riproporre con coraggio e semplicità che la risposta alla vocazione non avviene solo nel momento solenne e sacramentale. Il sussurro potente della voce di Dio continua a essere ispirato al cuore degli sposi ogni giorno, ogni giorno apparentemente banale, ordinario, senza storia. E’ nella normalità della vita che si realizza la propria vocazione. E allora il vero sì che il Signore attende è “il sì di ogni giorno”. Lo attende il Signore, ma anche la tua sposa, il tuo sposo. Il sì “spettinato”, “disordinato”, un po’ stanco dopo una giornata di lavoro e di routine, il sì che non ha per sottofondo una musichetta dolce ma il pianto dei bambini, il sì che a volte non ha fiato per uscire dalla bocca, ma resta depositato in fondo all’anima, forse dimenticato o dato per scontato.
L’amore concreto e quotidiano illumina in questo senso anche la vocazione celibataria insegnando la concretezza dell’amore nella fecondità del quotidiano. Approfondire la spiritualità famigliare e la sinergia tra le vocazioni potrebbe essere un bel laboratorio pastorale per la formazione permanente del clero.
Ebbene, non dimentichiamo di far uscire allo scoperto il sì di ogni giorno! Di saperlo dire a Dio e a chi ti sta accanto. Il sì detto con la voce, ma anche con la pazienza, con il sorriso, con il servizio. Il sì senza solennità, il sì ordinario, è quello che il Signore ama. E accoglie. Perché Lui per primo ha detto il suo sì al Padre in modo “solenne” ed eterno, certo, ma poi l’ha detto da vero ogni uomo in ogni giorno “normale” del suo cammino terreno. Proprio come la Madre sua, che dopo aver detto il suo “amen”, continuò nel suo sì anche dopo che «l’angelo si allontanò da lei» (cf Lc 1,38)
- Le vocazioni al ministero ordinato e alla vita consacrata
Dire “vocazione” significa aprire la prospettiva della vita umana all’orizzonte sconfinato dell’amore di Dio, che si offre come principio e fine, fondamento e verità della persona chiamata. Dio ha dato alla creatura la possibilità di autodeterminarsi, di scegliere cosa fare di sé e della propria vita, a chi appartenere e per cosa esistere. E questa libertà di scelta, per essere vera, non ha condizioni, tanto che le rimane affidata la possibilità estrema di salvarsi o perdersi, nel tempo e nell’eternità.
Una volta che Dio ha dato all’uomo il libero arbitrio e il possesso di sé, Egli non ritira il suo dono. Per poter entrare nella vita della sua creatura, da quel momento Dio bussa alla porta, chiede permesso. Una delle parole più forti usate da Gesù in un dialogo vocazionale è “Se vuoi”: “Se vuoi entrare nella vita…” – egli dice al giovane ricco -, “Se vuoi essere perfetto…” (cf Mt 19,17.21). Anche l’invito forte della grazia di Dio, espresso con autorità – “Seguimi” –, resta sempre un appello, un dono che attrae ma che può essere rifiutato, oggi o nel domani.
Chiamando la sua creatura a seguirlo, il Signore chiede all’eletto se vuole restituirgli il possesso della vita, la disponibilità della propria libertà. È questo il più grande atto di libertà, quello di rinunciare ad esserne il padrone. Un atto che può essere compiuto solo per l’Amore più grande.
La vita consacrata e presbiterale è chiamata in fondo ad essere segno tangibile di questa radicalità del dono di sé, che in realtà caratterizza ogni vocazione battesimale. La speciale consacrazione è intrinsecamente una riconsegna a Dio della propria libertà, un dono di amore incondizionato, che a sua volta rende piena quella stessa libertà che è stata messa nelle mani del Padre. E allo stesso tempo, la consacrazione è disponibilità a non possedersi, per possedere soltanto Dio: «Dio è la sola ricchezza che, in definitiva, gli uomini desiderano trovare in un sacerdote» – disse Benedetto XVI riferendosi al Santo Curato d’Ars (Discorso alla Congregazione del Clero, 16 marzo 2009).
Del resto, la più forte prova a cui la vocazione è sottoposta, non è immediatamente quella della rinuncia, del ritorno alle reti da pesca che erano state abbandonate; ma quella del riappropriarsi delle scelte normali e quotidiane della vita, riprendersi il dono di sé fatto a Dio per decidere nell’oggi scelte e priorità stabilite semplicemente secondo il proprio interesse o secondo ordini di priorità falsificati, o secondo intensità di passione e di amore che eccedono verso le banalità e scarseggiano verso ciò che è essenziale. Potente, nella sua schiettezza, è questo passaggio della Imitazione di Cristo, che può essere accostato alla nostra riflessione: «Il mondo promette cose temporali, meschine e lo si serve con grande fervore. Io prometto le cose più alte, le cose eterne e i cuori degli uomini stan lì intorpiditi. Chi serve me con tanta cura, chi obbedisce a me in tutto, come si serve al mondo e ai suoi padroni? Arrossisci dunque, servo pigro e querulo, al vedere che si trovano più pronti loro alla perdizione che non tu alla vita. Godono più loro della vanità, che non tu della verità» (3,3). Sì, accogliere la vocazione, specialmente da consacrati, significa rinnovare ogni giorno, con la Grazia di Dio, il desiderio di mantenere alte le aspirazioni del proprio cuore, di superare le inerzie, rinnovare lo zelo per servire Dio e il prossimo con ardore e passione.
C’è una meta altissima a cui siamo chiamati. Una meta per tutte le vocazioni battesimali, ma di cui i consacrati sono chiamati in modo particolare ad essere segno. Una meta non raggiungibile con le sole forze umane, ma resa possibile dall’azione dello Spirito nei servitori fedeli e umili. Questa meta è la totalità del dono di sé, perché il Signore possa prendere pienamente posto nel cuore che lo accoglie. Diceva Santa Faustina Kowalska, testimone prediletta della misericordia divina: “ormai in me non c’è più nulla di mio” (n. 644).
Non possedersi, ma fare dono a Dio della propria libertà: che questo dono di amore sia la sostanza di ogni vocazione. È una meta inarrivabile nella sua perfezione, certo, ma è tutt’altro che una meta ideale e disincarnata: pur se la totalità del dono di sé è una condizione mai del tutto raggiunta, è anche un orizzonte nel quale ci si può inoltrare sempre più, nell’umile disponibilità alla Grazia divina. Sono spesso le prove e le fatiche, insieme alle esperienze dei propri peccati e dei propri limiti, le condizioni che permettono a un’anima di crescere nella totalità del dono di sé. In certi casi, diventa salvifica l’esperienza limite di trovarsi privi di tutto se non della propria volontà, che rimane l’unico bene disponibile da poter trattenere o donare a Dio. È questa, in fondo, l’esperienza dei martiri: la scelta tra la spoliazione di tutto, anche della propria vita fisica, e il riappropriarsi della propria volontà, per poter salvare se stessi. Ecco, anche quando non si è costretti a una scelta così estrema e radicale, l’autenticità della propria vocazione è in misura della disponibilità a dare tutto di sé alla volontà di Dio.
Vorrei richiamare a tal proposito la schietta testimonianza che un seminarista nigeriano ha offerto in occasione della celebrazione giubilare dei seminaristi. Durante il suo periodo formativo, Pius Tabat viene rapito insieme ad altri compagni da guerriglieri islamisti. Sperimenta prove durissime, un inferno di stenti e umiliazioni, vede perfino il martirio di un suo giovane compagno. Ma, ripensando a quel periodo, testimonia: «Questo evento mi ha reso più fermo e convinto che il sacerdozio è ciò a cui sono chiamato, il progetto per cui Dio mi ha ridato la vita, ciò per cui Micheal è morto, il motivo per cui devo continuare a proclamare la bontà di Dio e la Buona Novella con le parole e la vita, a qualunque costo» (https://www.collegiourbano.org/2025/06/30/seguire-gesu-a-qualunque-costo/). La sua vocazione è la sua vita; la totalità del suo desiderio è il desiderio che Dio ha su di lui. Il Signore conceda a tutti noi suoi ministri e a tutti i religiosi di ravvivare la nostra vocazione, riconsegnandogli ogni giorno la nostra volontà.
Testimonianze semplici e autentiche come questa ci richiamano alla coscienza il fatto che la vocazione non è un’aggiunta al nostro essere, una sorta di optional o di upgrade rispetto alla sostanza della nostro essere personale. Pius Tabat in fondo ha capito che per lui il sacerdozio coincide con la sua persona, che il progetto di Dio costituisce la sostanza della sua esistenza. L’essersi trovato di fronte alla morte per il Cristo, gli ha fatto comprendere che la sua vita era ormai persa e, se gli è stata ridata, la sua vita non è più sua, ma di Dio che gliel’ha affidata di nuovo. E per questo lui riconosce che la sua vocazione e la sua vita sono indissociabili. Far assopire, anestetizzare la sua vocazione significherebbe far sonnecchiare la vita, renderla insignificante e infruttuosa.
Allo stesso tempo la vicenda personale di Pius Tabat testimonia bene che la vocazione è anche definita e vivificata dalle stesse esperienze di vita nelle quali essa viene scoperta e modellata. La sua fonte è sempre da Dio, ma non necessariamente giunge all’anima come un progetto estraneo al suo vissuto. Molte volte quelle stesse esperienze che plasmano la persona sono le stesse che definiscono il progetto di Dio su di essa. Tra le pieghe di una storia personale, Dio stesso si fa conoscere e rivela ciò per cui siamo fatti. E così la vocazione è insita nella persona e allo stesso tempo la eleva e la porta a compimento.
Davvero non c’è niente di nostro che non sia di Dio. Essere fedeli alla propria vocazione significa in fondo vivere tutto – desideri, opere, progetti, relazioni umane, possesso di beni, talenti, scelte banali e impegnative – con la consapevolezza che in realtà niente di tutto ciò è davvero nostro. La vera libertà è lasciare che il cuore di Dio sia l’unica regola di ogni nostra determinazione.
Nella vera libertà del dono di noi stessi a Dio, si apre l’immenso campo della vocazione missionaria a cui tutti i ministri ordinati siamo chiamati. Perché – non fa male ricordarlo – ogni vocazione non è finalizzata puramente alla santificazione personale, ma al lavoro nella vigna del Signore, affinché il suo amore sia testimoniato e diffuso a tutti. La vocazione presbiterale è un particolare appello, che Cristo buon pastore rivolge al chiamato, ad amare come lui ama, a desiderare ciò che lui desidera. «È un invito – ci ha detto papa Leone XIV – a vivere la carità pastorale con lo stesso animo grande del Padre, coltivando in noi il suo desiderio: che nessuno vada perduto (cfr Gv 6,39), ma che tutti, anche attraverso di noi, conoscano Cristo e abbiano in Lui la vita eterna (cfr Gv 6,40). È un invito a farci intimamente uniti a Gesù (cfr Presbyterorum ordinis, 14), seme di concordia in mezzo ai fratelli, caricandoci sulle spalle chi si è perduto, donando il perdono a chi ha sbagliato, andando a cercare chi si è allontanato o è rimasto escluso, curando chi soffre nel corpo e nello spirito, in un grande scambio d’amore che, nascendo dal fianco trafitto del Crocifisso, avvolge tutti gli uomini e riempie il mondo» (Omelia nel giubileo dei sacerdoti, 27 giugno 2025).
Forse oggi abbiamo bisogno di recuperare l’annuncio vocazionale anche per le vocazioni al ministero ordinato e la vita consacrata. Riprendere la parola ‘vocazione’ è occasione per un rinnovato annuncio. Si tratta di ricreare una cultura vocazionale: pellegrinaggi, momenti di preghiera, adorazioni eucaristiche non solo per i giovani, scuole della Parola, itinerari di fede per i giovani e farei un accenno all’importanza del Centro Diocesano Vocazioni come spazio per l’approfondimento e il discernimento vocazionale). Formare i formatori. Qui un mio articolo su vocazioni: https://rivistavocazioni.chiesacattolica.it/2025/02/18/con-piena-fiducia/ sul tema ‘proporre le vocazioni nella Chiesa locale.
Carissimi, rinnoviamo in noi e nelle nostre comunità la preghiera per le vocazioni. Non tanto a motivo della evidente mancanza di ministri ordinati, di consacrati, di matrimoni cristiani, quasi che le nostre preghiere fossero ispirate solo da bisogni funzionali o da “crisi di organico”. Ma soprattutto a motivo del desiderio che la ricchezza della misericordia di Dio possa esprimersi e agire attraverso i cuori che lo amano. E la Vergine Maria, Madre delle vocazioni, interceda per tutti noi, affinché le nostre comunità e le nostre famiglie tornino ad essere ambienti in cui accogliere e far fiorire i desideri di Dio per il suo popolo.
Cassano allo Ionio, 20 Settembre 2025
[1] Nuove Vocazioni per una Nuova Europa (secondo me un testo ancora molto valido pur essendo del 1997) «La vocazione è il pensiero provvidente del Creatore sulla singola creatura, è la sua idea-progetto, come un sogno che sta a cuore a Dio perché gli sta a cuore la creatura. Dio-Padre lo vuole diverso e specifico per ogni vivente. L’essere umano, infatti, è «chiamato» alla vita, e come viene alla vita porta e ritrova in sé l’immagine di Colui che l’ha chiamato. Vocazione è la proposta divina di realizzarsi secondo quest’immagine, ed è unica-singola irripetibile proprio perché tale immagine è inesauribile. Ogni creatura dice ed è chiamata a esprimere un aspetto particolare del pensiero di Dio. Lì trova il suo nome e la sua identità; afferma e mette al sicuro la sua libertà e originalità.
[2] Oggi, dunque, fratelli e sorelle, ho la gioia di pregare con voi e con tutto il Popolo di Dio per le vocazioni, specialmente per quelle al sacerdozio e alla vita religiosa. La Chiesa ne ha tanto bisogno! Ed è importante che i giovani e le giovani trovino, nelle nostre comunità, accoglienza, ascolto, incoraggiamento nel loro cammino vocazionale, e che possano contare su modelli credibili di dedizione generosa a Dio e ai fratelli» (Leone XIV, Regina caeli, 11 maggio 2025)