At 1,1-11; Sal 46; Eb 9,24-28; 10,19-23; Lc 24,46-53

Ascensione del Signore

nel X anniversario dell’ingresso in Diocesi di S.E.R. Mons. Francesco Savino

31-05-2025

Cari Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,

Fratelli e sorelle religiosi,

Fratelli diaconi e seminaristi,

Distinte Autorità,

Fratelli e sorelle nel Battesimo e in umanità,

grazie per la vostra presenza, che sostiene oggi il mio grazie in due modi fondamentali. In primo luogo, ne rivela la natura eucaristica: ciò che ognuno di noi è viene non tanto dalle sue forze, ma dal dono di Dio, che Gesù ha rivelato nell’ora decisiva della sua vita. Eucaristeo: il verbo della gratitudine per il dono sempre preveniente di Dio, in cui si dissolvono le nostre insufficienze e siamo fra noi riconciliati. Il secondo modo di ringraziare sostenuto dalla vostra presenza è conseguente: io canto il mio Magnificat nel popolo di Dio, con voi cristiano. In questo ultimo giorno di maggio in cui si è contemplato il mistero della Visitazione, confesso con gioia che in ognuno di voi Dio stesso mi ha visitato. Il tempo rivela pregi e difetti, punti di forza e di debolezza, ma nella fede siamo un dono l’uno all’altro. Camminiamo insieme. La sinodalità – parola che è venuta sempre più caratterizzando il cammino ecclesiale in questi miei dieci anni di episcopato – è il modo d’essere del popolo di Dio, in cui ancora il Signore rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili.

Il ministero episcopale è vocazione a rendere visibile, nella storia, la fedeltà che guida il popolo di Dio.

Il Concilio Vaticano II ha restituito alla Chiesa una visione dinamica e viva di sé stessa: non cittadella chiusa, ma popolo in cammino verso il Regno, animato dalla fede, dalla speranza e dalla carità. In tale orizzonte, il successore degli apostoli si comprende non come dominus, ma come servus communionis, principio di unità nella fede e promotore della carità pastorale. “I vescovi, succedendo agli apostoli per istituzione divina, reggono, ciascuno la propria porzione del gregge del Signore, sotto l’autorità del Romano Pontefice” (Concilio Vaticano II, Lumen Gentium. Costituzione dogmatica sulla chiesa, n.20.2).

Il Vescovo fa del Concilio la trama viva del suo ministero non per approfondirlo teoricamente, ma per incarnarlo nel vissuto ecclesiale, nell’odore delle pecore e nella polvere delle strade. Alla luce del suo insegnamento, il vescovo è chiamato ad abitare tre grandi tensioni evangeliche: la memoria e la profezia, la comunione e la missione, la speranza e la concretezza.

Veramente grazie di cuore a tutti, dunque.

Lasciandoci interrogare dalla Parola di Dio, vorrei riprendere una frase da ciascuna delle letture proclamate in questa Festa dell’Ascensione. La prima è una domanda, dal primo capitolo degli Atti degli Apostoli: «Perché state a guardare il cielo?». È il Risorto a rivolgersi così ai discepoli tentati di vivere il mistero pasquale come una perdita. Per loro, come per noi, collocarsi in un mondo nuovo non è semplice. Resistono, devono essere perdonati e presi per mano. Guardano il cielo perché Gesù sembra lasciarli e ancora non intendono che il Regno di Dio è presente. È il primo messaggio che Gesù aveva annunciato. E ancora temono di rimanere soli.

Questo ci interroga in due modi. Il primo: noi guardiamo ancora il cielo? Si può vivere senza cielo, soffocati da dinamiche che ci rendono mondani. È così quando crediamo che tutto dipenda da noi. Anche un vescovo può cadere in questa trappola. È il contrario della fede, che riconosce tra le cose di ogni giorno un mistero che ci supera da tutte le parti. «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?». Ebbene, lasciamoci pure rimproverare da Gesù, se stiamo troppo a guardare il cielo! Esiste, infatti, ed è non meno temibile, il rischio opposto, quello di dimenticare il cielo.

Secondo: è il cielo a indicarci la terra. La nostra terra, che si chiami Galilea, Puglia o Calabria. Là dove ci ha posti, Dio ci precede. «Fedeli alla terra»: Bonhoeffer non lasciò a Nietzsche questa bella espressione. Il Regno di Dio è la silenziosa forza che fa crescere il seme e lievitare la pasta. Non noi, ma Dio ha seminato e impastato la storia di cui siamo parte. Se ci appare un travaglio, è per la gioia di ciò che deve nascere. Distogliere lo sguardo dal cielo, come chiede Gesù, ci fa vedere le persone e i luoghi in cui siamo posti come mai troppo piccoli, mai troppo poveri. Sono il mondo che Dio ha tanto amato da dare il suo Figlio.

Prendo dal vangelo la seconda frase su cui vorrei condividere qualche risonanza. «Voi restate in città»: così raccomanda Gesù ai suoi la sera di Pasqua. Restare. Un verbo impossibile nel mondo impazzito. Tutti si va, tutti si corre, tutto cambia. Chi resta? Cosa resta?

«Voi restate»: senza successo, Gesù lo aveva chiesto a Pietro, Giacomo e Giovanni nell’ora della sua agonia. Non seppero restare. Ora ci riprova: «Restate». È la condizione per ricevere un dono: saranno «rivestiti di potenza dall’alto».

Cari fratelli e sorelle, sebbene il tempo della missione sia iniziato, l’invito di Gesù a restare – nel vangelo di Giovanni a “rimanere” – ci ricorda che senza di Lui non possiamo far nulla. Cercheremmo una potenza che non viene dall’alto, ma dal basso, da favori, compromessi, alleanze che imprigionano invece di liberare. Il compianto papa Francesco, cui devo la mia venuta fra voi, ci ha educato insistentemente a spogliarci degli appesantimenti che compromettono la missione. Meglio una Chiesa incidentata che autoreferenziale. Meglio la dolce forza dello Spirito, da cui sgorga inesauribilmente l’Evangelii gaudium, dell’amaro sentirsi parte di reti di influenza che oggi innalzano e domani precipitano.

La missione inizia con un restare. Allora il nostro fare diventa fecondo, generativo. Troppe persone ancora faticano a trovare nella nostra Chiesa un aiuto a coltivare la spiritualità. Un aiuto a ricevere quella potenza dall’alto che porti fuori dalla società della prestazione e della stanchezza, dalla società delle passioni tristi.

Ma ancora: «Restate in città». Non in un bosco, non sul monte, non nel silenzio del ritiro dal mondo. La spiritualità, cioè una vita nello Spirito Santo, deve maturare in città. Può, deve, vuole fecondare la convivenza politica, i luoghi del lavoro, dello scambio, della cultura. E soprattutto, la potenza dall’alto che ci fa rinascere si riceve restando insieme. Non separandosi, ognuno alla ricerca della propria pace, ma rimanendo città, diventando comunità. E questo sfida il senso comune.

Terza frase, che riprendo dalla Lettera agli Ebrei: «Fratelli, abbiamo piena libertà». Per l’autore, questo comporta che non ci sono più dogane fra Dio e noi. Gesù è la «via nuova e vivente» che abbatte tutti i muri. Quante dogane, quanti muri, quanti controlli abbiamo invece ripristinato. Sia nella vita ecclesiale, sia nella vita politica, abbiamo opposto e ancora opponiamo alla «via nuova e vivente» scritta da Gesù la barriera delle nostre paure. Ci illudiamo che sicurezza sia controllo, che governo sia dominio. E ascoltiamo poco, incontriamo poco, respingiamo molto. Così perdiamo tutti. E perdiamo non qualcosa, ma l’essenziale. «Abbiamo piena libertà».

Carissimi, «Dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà». Libertà di pensiero, libertà di movimento, libertà di espressione. E soprattutto libertà religiosa, cioè libertà di legarsi al Mistero che tutti ci unisce, in cui ogni uomo è fratello, ogni donna è sorella, ogni diversità è dono, ogni fragilità è tesoro. Non c’è sfida più attuale, più globale e più personale di questa.

È veramente significativo che Gesù “staccandosi” fisicamente benedica i discepoli. La benedizione è l’ultimo gesto di Gesù! Veniamo dalla benedizione e siamo chiamati ad essere nel mondo benedizione per tutti. Solo se benedetti possiamo attraversare con fiducia le vie del mondo, consapevoli di non essere soli ma accompagnati.

L’Ascensione apre il cuore alla speranza perché è la festa del nostro destino, del fine ultimo della nostra vita e introduce noi cristiani sulla scena del mondo e della storia e ci invita ad essere la continuazione nel tempo e nello spazio dell’azione salvifica di Cristo stesso, guardando chi ci precede e pregando intensamente lo Spirito.

«Rapisca, ti prego, o Signore,
l’ardente e dolce forza del tuo amore
la mente mia da tutte le cose che sono sotto il cielo,
perché io muoia per amore dell’amor tuo,
come tu ti sei degnato di morire
per amore dell’amor mio» (San Francesco)

 

Benedico Dio di essere con voi cristiano in questo tempo. Ringrazio Dio di essere per voi vescovo. Camminiamo insieme, in piena libertà.

Maria, Madre della Chiesa, interceda per noi.

 

   Francesco Savino

condividi su