19 luglio 1992 – Strage di Via D’Amelio
In una Palermo ferita, percorsa dalla paura e dal senso d’impotenza, la mafia colpì con ferocia per tentare di seppellire non solo un uomo, ma l’idea stessa di giustizia; volle spegnere la voce limpida di chi, con coraggio e determinazione, aveva scelto di resistere. Lo fece indossando il volto codardo del tritolo, ma si servì anche del silenzio colpevole di quanti, per viltà o convenienza, scelsero di volgere altrove lo sguardo. Quella deflagrazione non portò via soltanto Paolo Borsellino e i suoi cinque agenti di scorta, ma infierì contro un’intera nazione che ancora credeva nello Stato di diritto, nella legge come argine al sopruso, nella coerenza come forma alta di fedeltà.
Paolo Borsellino era pienamente consapevole di camminare verso la morte. Sapeva che la sua determinazione a non arretrare, a non tradire la propria coscienza e il proprio giuramento, lo avrebbe condotto a pagare con la vita. Eppure non si sottrasse. Non cercò ripari sicuri né si rifugiò nell’ambiguità del compromesso. Scelse consapevolmente la via più stretta, quella più dolorosa, ma anche la più degna: la via della fedeltà alla verità, della coerenza portata fino all’estremo sacrificio.
È per questo che oggi, a trentatré anni di distanza, non può bastarci una memoria di circostanza. Non è sufficiente una cerimonia, un nome pronunciato, una corona di fiori. Occorre invece inchinarsi con rispetto e tremore dinanzi a un’eredità che continua a interrogare le nostre coscienze, un’eredità scomoda, pesante, ma necessaria. Perché ricordare senza cercare la verità è tradire la memoria, e commemorare senza agire è ridurre il sacrificio a vuota liturgia. Il silenzio di oggi, se disimpegnato e complice, è l’eco di quel boato che ancora ci scuote e ci interroga.
Non possiamo più permetterci l’indifferenza. Non possiamo accettare che il sangue dei giusti venga lentamente dimenticato, archiviato in fondo a una cronaca stanca, come se fosse parte di una storia lontana e ormai chiusa. Via D’Amelio non è soltanto un luogo della memoria: è una ferita che continua a sanguinare, una verità viva che chiede ascolto, un altare civile su cui è stato offerto il sacrificio di chi ha creduto che la giustizia valga più della vita stessa.
Di fronte a tutto questo, la nostra risposta non può che essere una: assumere il peso di ciò che abbiamo ricevuto. Farci carico, ciascuno per la propria parte, dell’eredità morale di uomini come Paolo Borsellino. Lasciarci contagiare dalla loro incorruttibilità, dal loro senso dello Stato, dalla loro sete di verità. E imparare finalmente che la giustizia non si onora con le parole, ma con le scelte. Con la fatica quotidiana di chi, anche nel buio, continua a credere che il bene non sia mai vano. Che la verità, se perseguita con coraggio, diventa luce. Che la memoria, quando è viva, diventa resistenza. E speranza.
✠ Francesco Savino