Verso un umanesimo digitale della cura
Quando parliamo di umanesimo digitale siamo chiamati a chiederci: che cosa significa essere persona nell’epoca dei computer, delle reti e delle macchine intelligenti? La tecnologia corre veloce: diagnosi a distanza, referti automatizzati, macchinari sempre più precisi. Ma l’umano ha bisogno di tempo, di lentezza, di relazione. La parola sanità rimanda non solo a un corpo guarito, ma a un’esistenza riconosciuta nella sua interezza: corpo, psiche, relazioni e spirito.
Ecco perché propongo questa immagine: alleare l’algoritmo con il Samaritano. La scienza non deve staccarsi dalla compassione. La tecnica è buona quando diventa arte della cura e non sostituto della relazione.
- La tecnologia al servizio della cura, non al posto della cura
Oggi possiamo contare su strumenti che solo pochi anni fa sembravano fantascienza: visite mediche a distanza, cartelle cliniche elettroniche, programmi intelligenti che aiutano a interpretare esami complessi, robot che assistono negli interventi chirurgici, sensori nelle case che avvertono di un malessere. Tutto questo, se usato bene, può ridurre distanze, facilitare l’accesso alle cure, arrivare prima a una diagnosi. Nelle nostre regioni del Sud, dove non sempre ci sono ospedali vicini o medici in numero sufficiente, queste possibilità possono davvero fare la differenza.
Eppure dobbiamo vigilare. Se lo schermo prende il posto dello sguardo, se l’applicazione sostituisce l’ascolto, allora la medicina perde la sua anima. Guarire non significa soltanto eliminare un sintomo, ma restituire fiducia, senso, legami. È nella parola scambiata, nella mano che accompagna, che la cura trova compimento.
Potremmo dire che la buona sanità vive di una triade: scienza, coscienza e relazione.
- La scienza garantisce che gli strumenti siano affidabili e utili.
- La coscienza richiama il senso del limite e la responsabilità personale.
- La relazione custodisce la storia umana della cura.
La tecnologia è buona quando sostiene tutte e tre queste dimensioni, senza sostituirle.
Quali criteri, dunque, possiamo seguire?
- Usare la tecnologia quando porta un beneficio reale alla persona.
- Considerarla come un aiuto, non come un sostituto del medico o dell’infermiere.
- Personalizzare le soluzioni, perché non tutti hanno la stessa dimestichezza con i mezzi digitali.
- Valutare non solo i risultati clinici, ma anche quelli relazionali: quanto tempo resta per parlare con il paziente? Quanto si sente compreso e rispettato?
- Le sfide etiche della sanità tecnologizzata
Le nuove tecnologie portano con sé grandi opportunità, ma anche nuove domande di giustizia.
- Equità e divario digitale. Non tutti hanno la stessa possibilità di usare i servizi online: mancano i dispositivi, la connessione, le competenze. Se non stiamo attenti, rischiamo di creare una sanità a due velocità: per chi sa usare il digitale e per chi ne resta escluso.
- Pregiudizi nascosti nei programmi intelligenti. I sistemi che elaborano i dati imparano da ciò che ricevono. Se i dati sono incompleti o sbilanciati, le risposte rischiano di essere ingiuste, penalizzando per esempio alcune fasce d’età o persone con malattie rare. È necessario controllare e correggere questi programmi.
- Privacy e riservatezza. I dati sulla salute sono tra i beni più delicati che una persona possiede. Non sono semplici informazioni da archiviare: custodiscono la storia più intima, le fragilità e le speranze di ciascuno. Per questo occorre trattarli con rispetto quasi sacrale. La persona ha diritto di sapere con chiarezza chi entra in possesso delle sue informazioni, a quale scopo vengono utilizzate e per quanto tempo restano conservate. Non possiamo permettere che diventino merce da scambiare o terreno di speculazione.
Proteggere la privacy significa, in fondo, proteggere la dignità stessa della persona. È un atto di giustizia e di prossimità: il malato deve sentirsi al sicuro non solo nelle mani del medico, ma anche nel percorso invisibile che compiono i suoi dati. Una comunità che custodisce con fedeltà queste informazioni testimonia di riconoscere che ogni vita è sacra e non riducibile a un numero.
- Consenso realmente informato. Non basta firmare un modulo: il paziente deve capire bene a cosa acconsente, con un linguaggio semplice e possibilità di dire no senza perdere il diritto alle cure.
- Trasparenza. Se un programma suggerisce una cura, il medico e il paziente devono poter comprendere le motivazioni, almeno nelle linee essenziali. Non possiamo affidarci a “scatole nere” incomprensibili.
- Responsabilità umana. Le decisioni finali non possono essere lasciate a una macchina. Ci deve sempre essere una persona che se ne assume la responsabilità.
Sant’Agostino, nelle Confessioni, ci ricorda: «In interiore homine habitat veritas» – nell’interiorità dell’uomo abita la verità. Questa parola antica è di straordinaria attualità per la medicina digitale. Perché nessun algoritmo, per quanto sofisticato, potrà mai sostituire l’atto libero della coscienza, che nasce nel profondo dell’essere umano.
Il medico, quando sceglie una terapia o accompagna un paziente fragile, non si limita a eseguire calcoli: attinge a quella verità interiore che illumina la ragione e orienta l’azione. È lì che prende forma il discernimento, è lì che la tecnica incontra la sapienza. E la comunità cristiana è chiamata a custodire proprio questo: che ogni decisione sanitaria rimanga ancorata all’interiorità dell’uomo, luogo sacro in cui risuona la voce della coscienza e, per chi crede, la voce stessa di Dio.
- Liste d’attesa e priorità. Se programmi digitali aiutano a gestirle, i criteri devono essere chiari e giusti, soprattutto verso i pazienti più fragili. Non basta affidarsi alla velocità di un software: la scelta di chi deve essere curato prima tocca direttamente il principio di giustizia e la dignità della persona. Le liste d’attesa, già oggi, sono uno dei luoghi più dolorosi della sanità, dove si misura la distanza tra i diritti proclamati e i diritti realmente esigibili.
Una procedura automatizzata potrebbe ordinare i pazienti secondo parametri clinici, età, probabilità di successo delle cure. Ma chi decide quali criteri pesano di più? Se la logica è solo quella dell’efficienza, rischiano di restare indietro i più fragili: anziani, malati cronici, persone con disabilità. È necessario allora che i criteri siano pubblici, condivisi, sottoposti a revisione periodica, e soprattutto che prevedano sempre una corsia preferenziale per chi non ha voce.
La comunità cristiana, insieme alle istituzioni civili, deve vigilare perché la tecnologia non diventi un alibi che copre ingiustizie. Ogni lista d’attesa parla di volti concreti, di ansie quotidiane, di famiglie sospese. Dietro ogni numero c’è una persona che aspetta, spesso con angoscia. Per questo i sistemi digitali vanno orientati da una logica di equità e di compassione, ricordando che la vera priorità non si misura solo con le statistiche, ma con la capacità di non abbandonare nessuno.
- Lavoro del personale sanitario. il rischio è che i sistemi digitali, invece di alleggerire i compiti, finiscano per aumentare la burocrazia e moltiplicare schermate, moduli e passaggi. Così si sottrae tempo ed energie al rapporto diretto con i pazienti, che è invece la parte più preziosa della professione. Molti operatori sanitari già denunciano un senso di frustrazione: la tecnologia che doveva liberare diventa spesso un peso ulteriore, contribuendo al rischio di esaurimento e di burnout.
Per questo è fondamentale coinvolgere medici, infermieri e operatori socio‑sanitari fin dall’inizio, nella progettazione e nell’introduzione dei nuovi strumenti.
Solo chi vive quotidianamente i reparti e gli ambulatori sa quali funzioni sono davvero utili e quali invece complicano inutilmente il lavoro. La partecipazione attiva del personale consente di costruire tecnologie più semplici, intuitive, capaci di ridurre i tempi morti e restituire centralità alla relazione di cura.
Occorre inoltre pensare a percorsi di formazione continua, perché nessuno si senta escluso o impreparato di fronte a sistemi in rapido cambiamento. La formazione deve essere accompagnata da momenti di ascolto e di verifica, in cui gli operatori possano esprimere difficoltà e suggerimenti.
Una sanità digitale che non ascolta chi lavora ogni giorno con i malati rischia di fallire. Solo con il coinvolgimento reale del personale sanitario la tecnologia può diventare un alleato e non un ostacolo.
- Validazione e controlli. Oggi esistono migliaia di applicazioni scaricabili sui nostri telefoni che promettono di monitorare la salute, di misurare parametri vitali, perfino di suggerire terapie. Ma non tutto ciò che si presenta come strumento medico lo è davvero. Alcune di queste applicazioni non hanno alcuna garanzia scientifica, altre rischiano di fornire dati imprecisi che possono creare ansia o, peggio, condurre a decisioni sbagliate.
Per questo occorre un lavoro serio di validazione e certificazione: non basta la novità tecnologica per ispirare fiducia, serve la verifica rigorosa che uno strumento sia davvero utile, sicuro e orientato al bene del paziente. È questione non solo tecnica, ma profondamente etica: affidare la propria salute a un’app senza garanzie significa mettere in gioco la vita stessa.
Come pastore, sento l’urgenza di richiamare tutti, istituzioni, medici, aziende, comunità, a una vigilanza attenta. Non possiamo permettere che la ricerca di soluzioni rapide o a basso costo metta a rischio la salute delle persone. Il discernimento deve guidare anche in questo campo: il malato ha diritto a strumenti sicuri, validati, trasparenti. Custodire la serietà dei controlli significa, in fondo, custodire la sacralità della vita che ci è affidata.
- Cura o potenziamento? Alcune tecnologie spingono verso il miglioramento delle prestazioni oltre la malattia. Dobbiamo ribadire che la dignità della persona non coincide con l’efficienza del corpo.
- Fine vita e cure palliative. I sistemi digitali oggi sono in grado di analizzare grandi quantità di dati e di prevedere con una certa precisione l’andamento di una malattia. Possono indicare tempi di sopravvivenza, evoluzione dei sintomi, probabilità di complicazioni. Queste informazioni, se usate bene, possono essere utili per organizzare l’assistenza e per preparare le famiglie. Ma c’è un rischio grave: ridurre la persona malata a una semplice previsione numerica, dimenticando che ogni vita è unica e che la dignità non si misura con le statistiche.
Nel momento del fine vita, ciò che conta davvero non è la curva su un grafico, ma la qualità della presenza accanto al malato. Le cure palliative non sono un calcolo, ma un’arte di accompagnamento che unisce competenza clinica e prossimità umana. Significa alleviare il dolore fisico, ma anche dare ascolto alle paure, sostenere i familiari, custodire fino all’ultimo respiro la dignità della persona.
La tecnologia può avere un ruolo positivo se viene usata per segnalare con anticipo i bisogni, per monitorare sintomi a domicilio, per coordinare meglio gli interventi delle équipe. Ma non può sostituire la parola sussurrata, la mano stretta, il silenzio condiviso. In questo tempo fragile e sacro, l’accompagnamento spirituale diventa parte integrante della cura: la preghiera, i sacramenti, la vicinanza della comunità sono sostegni che nessun programma potrà mai offrire.
La parola ultima, dunque, spetta sempre alla relazione e all’accompagnamento, che rendono il fine vita un tratto di cammino umano e non una fredda conclusione prevista da un programma. Solo così il digitale può diventare strumento di supporto e non di riduzione dell’esperienza della malattia.
- Intelligenza artificiale. Tra tutte le innovazioni digitali, l’intelligenza artificiale è come un nuovo attore che irrompe sulla scena della sanità. È veloce, calcola, prevede, riconosce immagini e schemi con una precisione impressionante. Può aiutare il medico a leggere radiografie, a scegliere farmaci, a individuare rischi nascosti. Ma non dobbiamo lasciarci abbagliare: questa intelligenza resta fredda, incapace di compassione, muta davanti al dolore.
Il vero rischio è che l’IA prenda il posto dell’uomo invece di servirlo, che diventi arbitro cieco della vita, dimenticando che ogni biografia è unica e irripetibile. La comunità cristiana è chiamata a ricordarlo con forza: nessuna rete neurale potrà mai guardare negli occhi un malato, nessun programma potrà mai stringere la mano a chi ha paura.
L’IA potrà essere un aiuto prezioso solo se resterà al suo posto: strumento che libera tempo, che alleggerisce i pesi burocratici, che permette al medico e all’infermiere di dedicarsi di più alla relazione. È bene che la macchina calcoli, ma è indispensabile che l’uomo custodisca. La decisione ultima non spetta a un software, ma alla coscienza illuminata dall’intelligenza del cuore. Perché la cura non è mai solo tecnica: è sempre atto di amore, e l’amore non si programma.
Come ricordava Seneca, «Homo sacra res homini»: l’uomo è cosa sacra all’uomo. È questa la misura ultima che nessun calcolo impersonale potrà mai cancellare. Ogni vita custodisce un mistero, e la sacralità della persona non può essere compressa in un codice né ridotta a una previsione astratta. L’intelligenza artificiale può elaborare dati, ma non sa riconoscere la grandezza nascosta nell’essere umano. Solo una presenza che si fa vicinanza e responsabilità può onorarla fino in fondo.
III. Le sfide pastorali: una Chiesa che accompagna nell’era digitale
La Chiesa è chiamata a custodire la prossimità come un tesoro sacro. Nel tempo dei monitor e delle connessioni, resta insopprimibile il valore della presenza che si prende corpo nel gesto: nessuna tecnologia potrà mai sostituire il passo che varca una soglia, la visita che porta conforto, l’unzione che consola, la carezza che lenisce, la preghiera che si alza accanto al letto di chi soffre.
Aristotele, nell’Etica Nicomachea, afferma: “nessuno sceglierebbe di vivere senza amici”. Con queste parole il filosofo indica che l’essenza dell’umano non si esaurisce nell’autosufficienza, ma si radica nella relazione.
La vita, se privata del legame con l’altro, si impoverisce fino a perdere senso. Questo vale tanto più oggi, nell’epoca del digitale, quando la tentazione è ridurre l’esistenza a interazioni con macchine e algoritmi.
Nel campo della sanità, questa massima antica risuona con forza profetica: un ospedale che si limiti a macchine efficienti e protocolli impeccabili, ma dimentichi la dimensione relazionale, rischia di tradire la sua missione più profonda.
La cura, infatti, è sempre intreccio di competenza e di legame, di scienza e di amicizia sociale. Ed è proprio in questa prospettiva che il digitale deve essere collocato: non come sostituto del legame, ma come strumento che, se ben governato, può rendere più accessibile e umana la prossimità.
È vero, anche la pastorale può servirsi di strumenti digitali: un gruppo di sostegno a distanza, un messaggio che raggiunge chi è solo, una voce che si fa presente attraverso un telefono o uno schermo. Ma tutto questo resta preludio e sostegno alla vera esperienza della prossimità, che è presenza viva e condivisa, incontro di sguardi e di mani. La pastorale digitale, se ben vissuta, non sostituisce: prepara, accompagna, apre la strada a un incontro che resta insostituibile.
La comunità cristiana ha inoltre un compito educativo: aiutare i fedeli a non idolatrare la tecnologia né a respingerla in blocco, ma a farne un uso consapevole e umano. Si tratta di un discernimento continuo: la tecnica non è mai neutrale, ma assume il volto di chi la utilizza. Per questo serve educare al senso critico, evitando sia l’entusiasmo acritico sia la paura che paralizza. La tecnologia può essere strumento di comunione o di esclusione: dipende da come viene accompagnata e integrata nella vita quotidiana.
I cappellani e i volontari devono essere formati a comprendere, almeno a grandi linee, il funzionamento delle nuove tecnologie sanitarie: non perché debbano diventare esperti, ma perché possano dialogare con operatori e pazienti senza sentirsi estranei o subordinati. Una minima alfabetizzazione digitale permette loro di cogliere meglio le domande di senso e di sostenere spiritualmente chi vive la fatica di un percorso sanitario tecnologico.
Infine, la Chiesa ha un compito profetico di difesa e di denuncia. Quando il digitale rischia di erigere nuovi muri e di relegare nell’ombra i più deboli, essa non può tacere. La sua voce deve levarsi alta e limpida, come una campana che rompe il silenzio, come una tromba che risveglia le coscienze assopite. Non si tratta di un grido sterile, ma di un annuncio che ricorda a tutti che la dignità non è negoziabile, che nessuno può essere scartato o lasciato indietro.
Ogni innovazione, per essere davvero tale, deve farsi strumento di comunione e non di esclusione. La Chiesa non difende un principio astratto, ma la concretezza delle vite ferite: l’anziano che non sa usare uno smartphone, il povero che non ha accesso alla rete, il malato psichico che non trova canali adeguati, il migrante che non ha documenti. Per tutti costoro essa diventa voce che interpella le istituzioni e coscienza critica della società.
Denunciare le nuove forme di ingiustizia non basta: occorre anche testimoniare percorsi di inclusione, promuovere figure di accompagnamento, creare reti di solidarietà. Solo così la profezia non si riduce a parola, ma diventa seme di futuro. Perché ogni vita merita di essere custodita, onorata, accompagnata fino in fondo, con la stessa tenerezza con cui Dio accompagna i suoi figli. Le persone anziane, i poveri, i migranti, i malati psichici rischiano di essere i più penalizzati: non hanno accesso alle piattaforme, non possiedono dispositivi, non sanno usare le applicazioni, oppure non possono permettersi una connessione stabile. In questi casi la Chiesa è chiamata a farsi voce profetica, chiedendo con forza che il diritto alla cura non venga subordinato alla competenza digitale.
Per rispondere a queste fragilità sono necessarie figure di accompagnamento, veri e propri “facilitatori digitali” inseriti anche nelle Caritas e nelle comunità parrocchiali. Il loro compito non è solo tecnico, ma pastorale: aiutare la persona a orientarsi tra codici, schermi e procedure, restituendole la libertà di essere parte attiva del proprio percorso di cura. In questo modo la comunità cristiana si fa garante di una salute inclusiva, dove il digitale non diventa barriera ma strumento di fraternità.
- Verso un nuovo umanesimo digitale della sanità
Il cammino che ci attende è chiaro e può essere descritto come un orizzonte di valori che orientano ogni scelta. Anzitutto, la persona deve rimanere al centro: ogni innovazione, ogni investimento, ogni scelta organizzativa deve partire dall’esistenza concreta del malato, con la sua dignità e la sua storia. Accanto a questo, la relazione resta il cuore della cura: senza un legame umano autentico, la medicina si riduce a prestazione tecnica.
Non possiamo dimenticare la giustizia, che ci chiede di riservare un’attenzione preferenziale ai più fragili, a chi rischia di restare indietro.
Ogni decisione deve essere presa con responsabilità, sapendo che la tecnologia non è mai neutra e che porta conseguenze etiche e sociali.
Ci serve anche la sobrietà, che significa usare bene le risorse, senza sprechi e senza lasciarsi sedurre dal fascino del nuovo a tutti i costi.
Infine, la solidarietà: perché la salute non riguarda solo i singoli ma le comunità, e non può esserci benessere se rimangono territori o persone escluse.
La medicina del futuro non deve diventare una fabbrica di prestazioni, ma una comunità di cura. Ospedale, casa, scuola, parrocchia, associazioni: tutti luoghi da collegare in una rete che promuova salute e speranza.
Ogni malato, con il suo volto, ci ripete: non lasciarmi solo. La più grande innovazione che possiamo desiderare è questa: unire l’intelligenza delle macchine con la sapienza del cuore. Che la tecnologia renda più precisa la diagnosi, e che la comunità credente, con lo stile del Samaritano, restituisca dignità e speranza. Solo così la sanità tecnologica diventerà davvero umana.
E permettetemi, come pastore della Chiesa e come vicepresidente della CEI, una parola più sferzante. Non possiamo accontentarci di ospedali che funzionano come macchine perfette ma che dimenticano l’anima dei pazienti. Non possiamo tacere davanti a una politica che investe in apparecchiature costose e trascura i volti concreti di chi attende mesi una visita o non riesce ad accedere a un servizio di base. Non possiamo accettare che l’innovazione diventi privilegio per pochi, mentre intere comunità restano escluse.
Se la sanità digitale non diventa strumento di giustizia e di prossimità, tradisce la sua vocazione. Io sogno una Chiesa che non tema di alzare la voce, che sappia bussare con forza alle porte delle istituzioni, che si schieri senza esitazioni dalla parte degli ultimi. Perché la vera misura del progresso non è il numero delle macchine installate, ma la capacità di non lasciare indietro nessuno.
Questa è la nostra profezia, questa la nostra responsabilità davanti a Dio e alla storia.