Messa Crismale

16-04-2025

Mercoledì  Santo  2025

– Messa Crismale –

Is 61,1-3.6.8b-9; Sal 88; Ap 1,5-8; Lc 4,16-21

 

16 Aprile 2025

 

Cari presbiteri, e popolo tutto di Dio, siamo ancora una volta sulla soglia del Triduo Pasquale.

Non è un anno qualsiasi. Non è mai un anno qualsiasi, ma ci interpellano questa volta una destabilizzazione planetaria senza precedenti, venti di guerra, leadership sempre più barbare, criminalizzazione dei poveri e delle vittime senza più freni alla violenza delle parole e delle politiche.

Crocifissi senza numero di cui vedere la passione e farci Cirenei. Per di più, celebrando un giubileo. Diciamocelo: mai tanto attuale nelle sue istanze di giustizia, restituzione, remissione dei debiti.

Il Vangelo che abbiamo appena sentito proclamare ci ha immersi nella proclamazione della vita di Gesù come giubileo. È Lui a imprimerle questo orientamento liberatore, di cui rimane intrisa per sempre la missione ecclesiale. In questo mondo, sulla terra devastata da poteri arroganti e diseguaglianze senza fondamento, siamo stati innestati sulla vita di Gesù e abbiamo aderito con tutto noi stessi alla sua missione trasformativa.

Questa è la nostra Pasqua, piena di implicazioni storiche. Una speranza oltre la morte, escatologica, che impegna questa vita, rimbocca le maniche, espone. Ecco il grande mistero. Eversivo. Affascinante.

Cari presbiteri, siamo chiamati all’audacia. Nella prudenza, nel discernimento, nella comunione, lo Spirito soffia per togliere la cenere e ravvivare la brace dell’amore.

Sì, perché la nostra capacità di osare nasce dall’amore. San Paolo direbbe: urge.

Riascoltiamo quale Spirito è stato riversato nei nostri cuori:

“Lo Spirito del Signore è sopra di me;

per questo mi ha consacrato con l’unzione

e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,

a proclamare ai prigionieri la liberazione

e ai ciechi la vista;

a rimettere in libertà gli oppressi

e proclamare l’anno di grazia del Signore”.

 

Gli oli che consacriamo sono tramite di questo Spirito, fratelli e sorelle carissimi. Ci ungono per guarire e rallegrare, per rialzare e consolare. Nel nostro nome – cristiani – riverbera l’unzione di Cristo, il crisma della karis, grazia sovrabbondante e rinnovatrice. In Cristo va ridiscussa e del tutto ricompresa l’idea di consacrazione: la nostra è una consacrazione che non separa, ma lega, è un’identità che non si contrappone, ma fa incontrare.

Come l’anima nel corpo, i cristiani sono e saranno una grazia nelle città e nei territori che abitano in forza della loro consacrazione che ha Gesù come forma e contenuto: il Dio con noi, che esce da sé, che si svuota di sé per fare spazio, per rendere liberi, per ospitare. Mai più una Chiesa che occupi gli spazi. Mai più cristiani affamati di posizioni e di potere. Mai più consacrazioni che generano élite separate e privilegiate. Mai più sopra gli altri, ma sotto, a sostenere, a collegare, a portare il peso di un mondo che dall’humus, dal basso, può rifiorire. Non schiavi, ma servi.

Differenza sottilissima tra l’idolatria e la libertà. Quanti faraoni cui inchinarci ancora. Quanti faraoni da cui aspettarci favori e protezione. Quanti faraoni da cui aspettarci mondano riconoscimento e qualche istante di notorietà. Liberi! Liberi! Dio non ha chiesto permesso al suo popolo: indignato della sua umiliazione lo ha liberato. È scomodo, forse, ma abbiamo un Dio che ci libera. Possiamo odiarlo per questo, sapete? Ma siamo qui a dirgli il contrario: che lo amiamo per questo.

L’Apocalisse ce lo ha ricordato: ha fatto di noi un popolo sacerdotale! Questo regno di sacerdoti non coincide col clero: non fraintendiamo la Scrittura. Insieme, solo insieme, medieremo nella storia il grande riscatto, il vero giubileo, il Regno di Dio. Il nostro sacerdozio ministeriale sia a servizio di questa avventura comunitaria. Un popolo sacerdotale. Un popolo ponte fra cielo e terra. Perché – e lo diciamo ogni giorno – «come in cielo così in terra». E se questa non è una rivoluzione che cos’è? Non «Come in terra così in cielo» – e quante volte abbiamo proiettato sul cielo i nostri deliri di onnipotenza, abusando del nome stesso di Dio. Ma «come in cielo così in terra». E in cielo è la comunione, l’uguaglianza, la libertà.

Cari fedeli, come sapete i presbiteri e il vescovo stanno quest’anno rileggendo, mese dopo mese, nel loro percorso formativo, il rito di ordinazione. Tra poco ne rinnoveremo le promesse qui, davanti a voi. Pregate perché Dio porti a compimento l’opera che in ciascuno di noi ha iniziato. Pregate per le vocazioni e perché non smettiamo mai, nella vita, di sentirci ancora chiamati, di conversione in conversione.

Amate e correggete, consigliate e consolate, vigilate e siate onesti coi vostri preti, come con dei fratelli. La loro vocazione appassisce senza il vostro amore. Chiedete loro cibo solido: non solo quel che fa comodo, non la conservazione di improbabili abitudini, di cui magari nemmeno riconosciamo il senso, ma nelle quali ci siamo seduti. «Si è sempre fatto così»: questo un prete né lo può dire, né lo può sentire. Dio ci chiama fuori dalle prigioni e dalle ripetizioni.

Chi non vuole uscire scandalizza, fa inciampare, è come una catena che prova a trattenere tutti nella schiavitù. Basta schiavitù, anche del «si è sempre fatto così». Sono ancora una volta questi oli, che rinnoviamo ogni anno, a ricordarci che l’olio vecchio va bruciato, se no diventa rancido. Ogni anno la Pasqua viene con olio nuovo. Lasciamoci guarire da questo Mistero di vertiginoso Amore. Cristo è il mai visto, il sempre nuovo, l’amore che ci è ancora sconosciuto.

Non ingessiamolo, non incappucciamolo, non incateniamolo. Dove c’è lo Spirito del Signore – non dimentichiamolo – c’è libertà. Liberi!

Come pregherò tra poco “sulle offerte”, a nome di tutti: «La potenza pasquale di questo sacrificio elimini, Signore, in noi le conseguenze del peccato e ci faccia crescere come nuove creature».

Gesù è infatti l’Alfa e l’Omega. La Buona notizia di questo giorno è che noi viviamo in Lui, siamo innestati in Lui, riceviamo la sua linfa, siamo tralci dell’unica vite.

Questo è la Chiesa. Non altro.

 

 

   Francesco Savino

condividi su