Assisi
Buonasera a tutti e a tutte.
Dovendo rivolgervi una pro-lusione, il “pro” di quanto sto per condividere con voi vuol significare sia un “prima”, sia un “per”. Vi rivolgo la “prima” e non l’ultima parola: come ogni volta che la comunicazione è autentica e il nostro intervenire tende non occupare uno spazio, ma avviare un processo. E poi “per voi”: non “in generale”, in assoluto, o per altri da voi, perché solo guardandoci negli occhi – nella parola, nel dialogo – coltiviamo la cultura dell’incontro.
Vi sarete accorti che ho appena evocato due pilastri di Evangelii gaudium e del Magistero di Papa Francesco: è perché credo profondamente che gli ideali che ci radunano – Diaconi profeti e seminatori di speranza – divengano più facilmente concreti, carne e sangue, storia, se ci situiamo nella comprensione della realtà che la Chiesa sta maturando. Il rapporto con la Rivelazione è dinamico e noi crediamo sia sempre anche comunitario.
La prima parola, nel titolo che mi è stato assegnato, ci aiuta entrare nel dinamismo dell’ascolto fraterno. È un aggettivo: “saldi”. Saldi nella speranza e nella diaconia. Ogni volta che diciamo “amen” – lo sapete – noi nominiamo questa saldezza. “Amen” significa “tiene”, “regge”, “è saldo” come il terreno su cui un popolo in cammino riconosceva di poter fissare le tende in modo sicuro. Saldi: come la casa sulla roccia di chi ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica. La meraviglia della fede biblica, la ragione per cui le Scritture non ci stancano mai, credo stia nel rapporto indissolubile tra stabilità e movimento, tra sicurezza e rischio, tra continuità e cambiamento. La questione non è di equilibrio (la giusta via di mezzo): la questione è di fede. Credere – che nella bibbia è “riconoscere saldo” – significa rispondere e rischiare. Credere – che è avere le fondamenta in Dio – chiama a partire e a ripartire. Saldezza, nella Rivelazione, non è rigidità. Al contrario: sono incertezza, paura, mancanza di fede a farci mancare la terra sotto i piedi. Non le sfide, ma la paura. La nostra saldezza ha il nome di Dio: Io sarò con te.
Vorrei approfondire questo orizzonte di “storia della salvezza” a partire da una piccola storia, che ci riguarda molto da vicino.
Il 22 gennaio 1969, a Vicenza, venivano ordinati i primi sette diaconi permanenti italiani, dopo il ripristino di questo ministero voluto – come sapete – dal Concilio Vaticano II. Erano tutti religiosi – non quindi diocesano – dell’allora neonata “Pia Società San Gaetano”. Il fondatore, don Ottorino Zanon, era cresciuto nel seminario diocesano ed era stato ordinato prete nel mezzo della Seconda guerra mondiale. A proposito di diaconato – e non solo – si doveva misurare col vescovo Carlo Zinato, figura allora di spicco del panorama ecclesiale, ma forte oppositore al ripristino del diaconato, di cui non percepiva la necessità in una Chiesa locale sovrabbondante di preti.
Ebbe a soffrire molto don Zanon per veder realizzarsi la sua intuizione profetica: affiancare una nuova figura di ministro ordinato ai sacerdoti impegnati nella pastorale ordinaria. Gli pareva un’urgenza veder scaturire la cura dei fedeli da una vita di condivisione fraterna, in cui il prete stesso riconfigurasse la propria identità nel rapporto con altri ministeri. Il suo non era un esercizio astratto di ecclesiologia: a don Ottorino premeva articolare in modo più ricco la vicinanza della Chiesa ai battezzati, che già allora vedeva immersi in contesti di lavoro e di cultura secolarizzati. La sua attenzione agli ultimi era iniziata – come molte altre nel dopoguerra – dai ragazzi orfani e abbandonati. Quella prima dedizione fece nascere in lui l’intuizione di un progetto pastorale missionario non riducibile nemmeno al binomio prete-diacono, perché ben presto fuso con la missione dei laici (amici e collaboratori). Ne è venuta una spiritualità fortemente ancorata ai valori della gente semplice, con cui siamo chiamati a vivere e a esercitare il ministero. Ecco perché, pur investendo sulla formazione alla preghiera e alla teologia, si riservava una certa cura nel proporre, nel corso della formazione religiosa, diverse esperienze dentro il mondo del lavoro, specialmente la pratica manuale.
Quanto ci fa bene e quanto ci è necessario rileggere, approfondire, ripensare la stagione conciliare, con i suoi esperimenti teologici e pastorali, di cui soltanto i rivoli sono giunti fino a noi! Dobbiamo riconoscere, infatti, che anche in Italia alla primavera ecclesiale del Concilio Vaticano II sono seguiti un raffreddamento dello slancio e talvolta la critica feroce alla creatività di quegli anni. Senza un vero esercizio di discernimento – Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono (1Ts 5, 19-21) – ha prevalso così la tendenza a chiudere nel passato una miriade di fenomeni di qualità diversa. Dobbiamo invece ricordare e sorprenderci. Siamo alla giusta distanza per maturare idee e interrogativi, specialmente per una nuova immaginazione dei ministeri nella Chiesa.
«Ma allora, perché non ti sei fatto prete e ti sei fermato a diacono?». Sarà capitato a molti di voi di sentirsi fare questa domanda. Nella sua ingenuità, il problema è posto. Riguarda l’immaginazione del popolo di Dio, la percezione della Chiesa che dagli ultimi secoli ha ereditato. Quale diaconato permanente, in una Chiesa tutta ministeriale, così almeno come il cammino sinodale delinea il futuro delle nostre comunità? La scommessa di don Zanon – che ho voluto ricordare – non fu il diacono in sé, ma la reciprocità tra vocazione diverse nel medesimo progetto pastorale missionario. Nella domanda condivisa fra ministeri, profili, vocazione diverse – una vera e propria inquietudine santa – su come servire il proprio popolo vedendo in esso il popolo di Dio. Possiamo nel Sinodo riconoscere il concretizzarsi di un cambio di prospettiva – allora profeticamente intuito, oggi resosi ovunque improrogabile – che pensa il ministero ordinato e la comunità cristiana a partire dalle loro relazioni: le relazioni fra diversi ministeri e la loro ricaduta positiva nell’intreccio complesso di rapporti di cui è intessuta la quotidianità di un quartiere, di un luogo di vita. Non «prima fra noi, poi con gli altri», ma contemporaneamente: il “corpo” ministeriale prevale così sul singolo individuo – come nel Nuovo Testamento, d’altronde – e soprattutto la Chiesa assume una connotazione familiare, di “domus ecclesiae”. Una domus è più di una canonica. Le Lettere apostoliche, cosiddette “pastorali”, la chiamano «casa». Ricordate Paolo a Timoteo: «Voglio che tu sappia come comportarti nella casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente» (1Tm 3,15). In quelle lettere, la buona vita familiare è indicata come requisito necessario al ministero, anzi l’una diventa criterio di discernimento dell’altro. S’instaura così un’analogia importantissima tra la vita familiare-matrimoniale e la vita ecclesiale, che avrebbe tanto da dire al ministero nelle nostre comunità, talvolta molto organizzate e ben poco domestiche. In questo va riconosciuto certamente un contributo specifico del diaconato permanente.
Ha sottolineato Alphonse Borras alcuni anni fa: «In connessione con il tema dell’inculturazione del ministero, il ripristino del diaconato rappresenta per la Chiesa latina un apprendistato di un clero sposato. Senza pregiudicare modalità future di accesso al presbiterato, la chiamata di persone sposate al diaconato implica gli sposi, invoca una riconfigurazione della dinamica della coppia e della vita di famiglia, interroga le condizioni da porre in atto per l’equilibrio affettivo della coppia e l’armonia delle relazioni familiari, in primo luogo con i bambini. Ciò pone la questione dell’incidenza che il ministero uxorato ha sulla vita dell’interessato e dei suoi congiunti, come pure l’influenza della coppia e della famiglia sull’esercizio del ministero».
Di familiarità – scopriamolo sempre di più! – vive la conduzione della cura pastorale da parte di preti, diaconi, laiche e laici, in uno scambio di doni secondo l’accento non solo caratteriale, ma ministeriale di ciascuno. Nessun ministero ecclesiale, infatti, compie l’intera mediazione di Cristo, che si esprime piuttosto in molteplici diaconie. In tal senso, il servizio del diacono accentua in modo considerevole la dimensione della carità e l’opzione preferenziale per i poveri, non in maniera esclusiva e settoriale, ma come prospettiva di fondo. Come leggiamo in Evangelii gaudium: «Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. Dio concede loro «la sua prima misericordia». […] Essi hanno molto da insegnarci» (EG 198). Anche le diaconie della Parola e della liturgia vengono così caratterizzate – grazie a diaconi veri (non a preti mancati!) – da una particolare attenzione alla realtà e alle problematiche sociali, da una costante attenzione a far dialogare l’annuncio del vangelo e il nutrimento sacramentale con i bisogni di senso, di pane e di vita, che gridano nella carne della gente. Specie nell’attuale “esplosione del periferico” e “implosione dell’urbano” ciò comporta una costante sollecitazione dell’intera comunità parrocchiale a vivere con sensibilità nuova la vicinanza ai problemi popolari, mettendo al centro la dimensione del reciproco servizio e facendo maturare “dal di dentro” l’unione tra fede e vita.
Per certi versi è vero: il diacono è ministro «senza potere», nel senso che apparentemente non acquisisce, in virtù della grazia sacramentale, funzioni e compiti “esclusivamente” a lui riservati. Tale realtà ha generato in passato non poche perplessità nel riconoscerne la sacramentalità, ma direi che oggi sembra esprimere la più significativa bellezza di un ministero rivoluzionario per la comunità cristiana e anche civile. Voglio dire che il diacono vive in sé, ancora più manifestamente, il paradosso di ogni ministro ordinato e di ogni cristiano: è consacrato da Dio per essere ultimo. Un’elezione tutta particolare, che riceve l’autorità (il potere) di servire e di educare a servire. Tale consapevolezza, sessant’anni dopo il Concilio, da un lato induce a verificare lo stato complessivo del diaconato permanente, dall’altra spinge a lasciar entrare nelle nostre comunità più libero che mai il soffio dello Spirito, così che la pastorale si liberi dalla tendenza a diventare burocratica e ripetitiva e la Chiesa anche in Italia divenga più ricca di vocazioni, più creativa, più missionaria. Non per se stessa, ma per la cultura.
Recentemente, ha giustamente rilevato Roberto Repole: «Tale ministero dovrebbe allora essere di aiuto a tessere quel tessuto sociale che è la base necessaria perché una realtà sociale diventi Chiesa. In tal senso, esso può ben essere visto come servizio di raccordo tra le persone, come vedeva già Rahner, che coinvolga anzitutto gli ultimi; e può essere visto come dimensione intermediaria della istituzione che svolge una mediazione sociale, secondo quanto propone più di recente McKnicht, sulla base del richiamo di Paolo VI. Pertanto, anche il possibile ruolo di guida della comunità cristiana dovrebbe in tal senso essere visto non come supplenza o sostituzione della presidenza del presbitero, quanto come servizio al mantenimento e alla creazione del tessuto inter-relazionale tra le persone come dimensione imprescindibile per il darsi della Chiesa presieduta però sempre dai presbiteri e dal vescovo. Ma in tal senso, tale servizio apostolico potrà avere una grande valenza in un tempo come il nostro, quale servizio che cala nella cultura dominante la memoria apostolica della Pasqua di Cristo, in quanto è proprio il forte individualismo narcisista e il relativismo imperante ciò che oggi maggiormente minaccia il mantenimento e il consolidamento di una comunità cristiana».
Le parole dell’Arcivescovo di Torino mi sembrano raccogliere una delle maggiori sfide con cui, ovunque nel mondo, il cristianesimo si confronta, soprattutto con l’espandersi delle realtà urbane. Oggi più di metà degli esseri umani vive nelle città. Ebbene, scrive papa Francesco in Evangelii Gaudium: «Nuove culture continuano a generarsi in queste enormi geografie umane dove il cristiano non suole più essere promotore o generatore di senso, ma riceve da esse altri linguaggi, simboli, messaggi e paradigmi che offrono nuovi orientamenti di vita, spesso in contrasto con il Vangelo di Gesù. Una cultura inedita palpita e si progetta nella città. […] Ciò richiede di immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane. Gli ambienti rurali, a causa dell’influsso dei mezzi di comunicazione di massa, non sono estranei a queste trasformazioni culturali che operano anche mutamenti significativi nei loro modi di vivere. […] È necessario arrivare là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle città» (EG 73). È questa, così efficacemente descritta da papa Francesco, forte della sua esperienza di pastore in una megalopoli del Sud globale, la posta in gioco della nostra missione. Saldi nella speranza e nella diaconia: così prende forma storica la nostra sequela di Cristo, il movimento della nostra fede. Essa matura nelle nostre biografie, si nutre di quella che il Sinodo ci ha educato a chiamare “conversazione nello Spirito”, ha bisogno cioè di nuove pagine degli Atti degli Apostoli che dobbiamo scrivere insieme.
«Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37)» (EG 49). Quanta libertà e quanto coraggio ci ha ispirato e ci ispira Papa Francesco. A volte ho l’impressione che, noi vescovi per primi, ne abbiamo paura. Paura: il contrario della fede. Quando la tradizione e la dottrina danno voce alla paura esprimono il contrario della fede. Paralizzano, raffreddano. Ricordate che cosa dice il Signore alla Chiesa di Laodicea? «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice» (Ap 3, 15-17). A volte ho l’impressione che, irrigiditi e intiepiditi, neghiamo di essere infelici. Lo capiscono però gli altri, specialmente i giovani, le donne, i poveri: chi, insomma, ha fiuto e ha sensibilità e cerca la vita, cerca autenticità.
Le giornate di studio e di lavoro che stasera inauguriamo, col risuonare della parola “speranza”, ci preparano al Giubileo. Dobbiamo permetterci il coraggio di credere che la forza rivoluzionaria del giubileo biblico non si è esaurita. Alcuni studiosi sostengono che mai in Israele si realizzò alla lettera tutto ciò che le Scritture chiedono per l’anno giubilare. Tuttavia, l’ideale cui tendere è così chiaro e a tal punto trasformativo da farci dire ancora oggi: qui soffia lo Spirito di Dio. Qui le sfide della storia con cui le diverse generazioni sono alle prese si illuminano come luoghi teologici: le nostre sfide sono luoghi di rivelazione. Certo, non per se stesse, ma per la conversione che ci chiamano a osare, per la grazia divina che ci sospinge alla radicalità. La speranza non riguarda l’utopia, un luogo che non c’è, ma i luoghi in cui noi siamo, il tempo con cui facciamo i conti. Qui esercitiamo la diaconia della profezia, il servizio della discesa agli inferi dove col Signore Risorto prendiamo per mano gli scartati, i precipitati, gli invisibili. Le loro storie, la loro carne, sono il tesoro della Chiesa. Essi ci motivano a ridistribuire le risorse, a ripensare il rapporto con la terra, a fare giustizia, a uscire dalle diseguaglianze, perché solo così diventiamo il Corpo di Cristo. Come predicava Sant’Agostino: «Non rattristatevi o lamentatevi perché siete nati in un tempo dove non potete più vedere Dio nella carne. Egli, infatti, non vi ha tolto questo privilegio, come lui stesso dice: Qualunque cosa voi fate ai miei fratelli, l’avete fatta a me». Solo così la risurrezione di Uno diviene risurrezione di tutti. Sì, Gesù ci ha potentemente tratti fuori dalla morte, ma la sua mano che ci afferra – come nelle antiche icone – e ci trae verso l’alto, lascia libera l’altra nostra mano, con cui afferrare quella di chi ci è prossimo e portarlo – e portare tutti – nella vita.
Ebbene, che volto ha la morte in noi? Che volto ha la morte attorno a noi? La domanda è terribile e non ci deve meravigliare se chiunque spontaneamente la respinge. Scegliere la vita, però, significa dare un volto anche alla morte, per dirle: No. No, dunque, alla rassegnazione, che nella Chiesa esattamente come nelle culture – pressoché in tutte le culture, a ogni latitudine – suggerisce che non possiamo far nulla, che a decidere sono altri, che il futuro incombe come un destino oscuro. Noi diciamo no a una rappresentazione della storia che ha l’amaro sapore dell’ineluttabile: si tratta di una sfida teologica, che investe alle fondamenta un modello economico, finanziario, culturale, politico che tende a rendere naturale la diseguaglianza, che naturale non è, l’ingiustizia, cui il cielo e la terra gridano: No. Il grande merito delle teologie della liberazione, delle teologie femministe e post-coloniali – al netto di tutti i loro limiti, non maggiori dei limiti di ogni punto di vista particolare – è di averci restituito l’attualità di una lettura messianica della storia. Noi crediamo nel Dio che ascolta il grido di Israele schiavo, nel Dio che si piega sulla terra, nel Dio che libera e accompagna, nel Dio che dai poteri civili e religiosi si lascia crocifiggere per sconfessare la loro rappresentazione del mondo. Santità è portare nel mondo la differenza di Dio e lasciarla agire nella sua forza rivoluzionaria. Le sfide della mobilità umana – migrazioni volontarie o costrette -, le sfide del clima e degli ecosistemi devastati, il futuro del lavoro e dell’intelligenza umana in rapporto alle macchine, il futuro della partecipazione democratica, il futuro dei diritti umani e delle organizzazioni internazionali: sono questioni che ci riguardano. Non riduciamole a questioni politiche o di morale sociale: esse riguardano il cuore stesso della fede, la bontà della cristologia e della ecclesiologia che nutrono i pensieri e la preghiera di quasi due miliardi di cristiani nel mondo.
Giubileo è restituire la terra, toglierla ai falsi padroni, liberarla dai nuovi tiranni che con la violenza delle parole, la polarizzazione dei discorsi, la concentrazione dei capitali, la criminalizzazione del diverso fanno di questo mondo un inferno. Quante volte il nome di Dio è sulle labbra di chi distrugge la terra, di chi calpesta la dignità umana. Ebbene, diamo gloria al nome di Dio incarnandone il volto rivelato. Scendiamo dal trono, disponiamoci a servire. Gesù è il nuovo umanesimo. Assumiamone i sentimenti e la direzione: scendiamo, serviamo. La sua diaconia è potenza di Dio e speranza per tutti. Scriveva su Avvenire il 27 luglio 2008 il cardinale Martini, a proposito delle sfide di un millennio iniziato fra molte crisi: «Forse questa situazione è migliore di quella che esisteva prima. Perché il cristianesimo ha la possibilità di mostrare meglio il suo carattere di sfida, di oggettività, di realismo, di esercizio della vera libertà, di religione legata alla vita del corpo e non solo della mente. In un mondo come quello in cui viviamo oggi, il mistero di un Dio non disponibile e sempre sorprendente acquista maggiore bellezza; la fede compresa come un rischio diventa più attraente. Il cristianesimo appare più bello, più vicino alla gente, più vero. Il mistero della Trinità appare come fonte di significato per la vita e un aiuto per comprendere il mistero dell’esistenza umana».
Cari amici, ritorno allora – non tanto per concludere la mia prolusione, quanto per avviare il processo di riflessione dei prossimi giorni – alla bella espressione che ci posiziona nel “mistero dell’esistenza umana”: «Saldi nella speranza e nella diaconia». Ho evocato la roccia che tiene, la fede che riconosce Dio fedele. Direbbe Pierangelo Sequeri: fede nel Dio affidabile. La credibilità della fede cristiana, compromessa da molti aspetti della nostra storia, più che dalla finezza degli argomenti, più che dal gioco delle parole, si manifesterà nella speranza e nella disposizione a servire che narreranno le nostre vite. Non è una svalutazione del pensiero – più necessario che mai – ma la coscienza tipicamente cristiana che la rivelazione avviene nella carne, quindi nelle biografie, nei luoghi, nelle circostanze mai ideali in cui ciascuno può rimanere o fuggire, può simulare o scegliere l’autenticità, può divenire falso o vero profeta. Saldi, quindi sereni persino nella tempesta, quando sotto i piedi non si sente la roccia, ma un mare agitato. Ricordiamo Gesù che dorme, mentre noi discepoli ci affanniamo. Saldi nella speranza, non tanto e non solo perché – come talvolta diciamo con fare troppo rassegnato “siamo nelle mani di Dio” – ma perché crediamo nel Regno di Dio, nella dolce potenza che Gesù narrava in parabole. Saldi nella speranza di ciò che nasce e silenziosamente cresce, nella speranza dei “novissimi” che riguardano non la fine, ma il fine. «Guarda – ci dice colui che siede in trono – io faccio nuove tutte le cose». Diaconia, infine, perché guardiamo, sì, ma non come spettatori. Saldi nella diaconia, perché partecipiamo al suo fare nuove tutte le cose: i “novissimi” – perdonate se ritorno a questa espressione antica: lo faccio per la sua straordinaria efficacia – agiscono in noi, rendono “novissime” le nostre decisioni e azioni, ci inseriscono nel movimento di kenosi, di discesa, di carità liberante e trasformativa, per cui l’Agnello immolato è Signore. L’ultimo dei luoghi di questa terra, come il primo, è adatto a vivere così. Si può essere al centro e si può essere fuori: fuori dalle mura della città. Si può vivere così. Si può amare così. Madeleine Delbrel – se penso al diaconato femminile, credo dovrebbe avere in lei la patrona, la matrice – ha cantato sia la solitudine, lo straniamento, la croce, sia la danza, la gioia, il trionfo di una simile speranza.
Grazie!
✠ Francesco Savino
Vescovo di Cassano all’Jonio
Vicepresidente Conferenza Episcopale Italiana