Relazione di Mons. Francesco Savino al convegno “Legge Basaglia 47 anni dopo; Una storia ancora da scrivere” a Roccaraso

01-10-2025

 

La Chiesa e la salute mentale: accoglienza, dignità e comunità

Riflessione spirituale e sociale sul ruolo delle istituzioni religiose

Parlare di salute mentale significa toccare il cuore della nostra fede. La dignità di chi soffre nella psiche e nello spirito è misura della nostra umanità e della nostra fede. La Chiesa non è spettatrice: è chiamata a farsi casa, comunità e profezia.

  1. Accoglienza: il primo volto della Chiesa

La Legge Basaglia, nel 1978, non ha soltanto chiuso i manicomi: ha incrinato l’idea che la follia potesse essere espulsa come un corpo estraneo. Ha mostrato che la fragilità non è un accidente ma una possibilità dell’umano, una ferita che ci accomuna. La prossimità indicata da Basaglia diventa così gesto politico e, insieme, esperienza spirituale: un invito a non sottrarsi alla vulnerabilità dell’altro, che è anche la nostra.

Nel Vangelo risuona l’appello: «Ero malato e mi avete visitato» (Mt 25,36). Non è una frase di consolazione, ma un imperativo che rovescia ogni distanza. Ogni persona fragile diventa sacramento vivente, segno che la salvezza non si dà senza il contatto con l’ombra e con il dolore che ci attraversa.

Massimo Recalcati, in La notte del Getsemani, parla dell’ora in cui Gesù sperimenta il massimo abbandono, la vertigine della solitudine davanti al Padre. Accogliere chi soffre di un disagio psichico significa sostare in quel Getsemani: restare accanto senza offrire risposte prefabbricate, condividere il buio senza pretendere di illuminarlo.

Le parrocchie, le Caritas e i gruppi di volontariato possono diventare giardini notturni in cui l’ascolto è resistenza alla fuga, luoghi di alleanza più che di assistenza: corpi che si fanno prossimi, silenzi che custodiscono, mani che accompagnano. Formare operatori pastorali capaci di dialogare con i servizi di salute mentale non è un compito tecnico, ma un apprendistato alla compassione; imparare a reggere l’assenza e a riconoscere che la guarigione non è sempre possibile, ma la presenza sì.

  1. Dignità: fondamento della cura

La malattia psichica non annulla la dignità: la rivela nella sua essenza più profonda. È nella frattura della mente, nell’opacità della sofferenza, che l’umano mostra la sua inviolabilità. La dignità non è un merito, ma un dato originario che precede ogni diagnosi e ogni caduta.

Fratelli tutti ricorda che “ogni essere umano possiede una dignità inalienabile”. È un’affermazione che non ammette condizioni: nessuno stato psichico può sospenderla. Laudato si’ lega la salute personale a quella sociale e ambientale, mostrando come la cura dell’altro sia parte di un’ecologia integrale, in cui la guarigione interiore dipende anche dalle relazioni e dall’armonia con il mondo.

Recalcati ci insegna che il volto dell’altro è sempre eccedente, un enigma che nessuna definizione clinica esaurisce. Nella malattia psichica questa eccedenza diventa più visibile: ciò che la psichiatria può nominare non esaurisce mai il mistero della persona.

Per questo la Chiesa non è solo chiamata a offrire assistenza, ma a custodire l’unicità irripetibile di ciascuno. Denunciare lo stigma è un atto di fedeltà al Vangelo, che vede in ogni volto l’icona di Dio. Difendere politiche di accesso equo alle cure e garantire risorse adeguate non significa solo assicurare servizi, ma testimoniare che nessun essere umano può essere ridotto alla propria ferita.

Custodire la dignità chiede di trasformare la compassione in pratiche quotidiane: garantire cure accessibili e relazioni che diventino responsabilità condivisa, affinché la persona sofferente non sia “oggetto di cura”, ma interlocutore capace di donare senso e legame.

  1. Comunità: una rete che guarisce

La guarigione, quando si parla di salute mentale, non può essere confinata all’atto clinico. La letteratura sociologica mostra come il benessere psichico nasca dall’intreccio tra fattori individuali e contesti di vita: reti sociali solide, fiducia reciproca, capitale relazionale. Robert Putnam parla di social capital come risorsa primaria contro l’isolamento e la marginalità. Dove i legami sono fragili, il disagio si aggrava; dove la comunità pratica prossimità, le ferite trovano spazi di cura che la medicina da sola non garantisce.

La comunità ecclesiale, in questo orizzonte, può divenire non solo “ospedale da campo”, ma laboratorio di fraternità, dove dimensione spirituale e sociale si sostengono a vicenda. Recalcati invita a pensare la comunità come “luogo del desiderio”, non come recinto normativo: uno spazio che non normalizza, ma offre parole e gesti capaci di dare forma alla mancanza e al dolore. È una Chiesa che non teme l’alterità e riconosce la fragilità come parte costitutiva dell’umano.

Da qui la necessità di alleanze concrete: parrocchie in dialogo con centri di salute mentale, cooperative sociali, scuole e amministrazioni; reti in cui la preghiera e il sostegno spirituale non sostituiscono la terapia, ma la accompagnano e la arricchiscono. Gruppi di ascolto, laboratori creativi e percorsi di auto-aiuto possono diventare dispositivi comunitari che restituiscono senso di appartenenza e, per usare un’espressione cara a Recalcati, “tengono in vita il desiderio”.

Il compito non è moltiplicare spazi fisici, ma generare capitale relazionale: una trama di fiducia e reciprocità che, come confermano molte ricerche, è fattore decisivo per la salute mentale e per la resilienza collettiva.

  1. Prospettiva profetica

La Chiesa, radicata nel Vangelo, non si limita a erogare servizi: annuncia una visione dell’essere umano in cui corpo, mente e spirito sono intrecciati, immagine viva di Dio. La cura diventa atto sacramentale: ogni gesto di prossimità è segno del mistero dell’Incarnazione, dove il Verbo assume la carne ferita del mondo.

In questa prospettiva, collaborare con le istituzioni civili e sanitarie non è accessorio ma esigenza evangelica. La tradizione cristiana ricorda che la diaconia non separa il pane dell’eucaristia da quello della giustizia sociale. «La carità o è organizzata, o resta una buona intenzione», ammoniva don Luigi Sturzo: la profezia non vive di parole ardenti, ma diventa tessuto di alleanze, capacità di incidere nelle politiche pubbliche, costruzione di strutture che custodiscano la dignità di ogni persona.

La teologia del Corpo di Cristo ricorda che nessun membro può dire all’altro “non ho bisogno di te”. Quando la comunità cristiana abita questa logica, diventa segno del Regno: le ferite della mente e del cuore non sono scarti, ma feritoie attraverso cui passa la grazia. Così l’azione ecclesiale si fa davvero profetica, capace di denunciare l’esclusione e generare forme nuove di cura condivisa, dove l’umano intero—spirito, psiche e corpo—trova un’ospitalità che è già vangelo in atto.

La salute mentale non è un tema marginale ma una prova di verità del Vangelo: ogni persona che soffre è un “luogo teologico”, un incontro con Cristo stesso. Custodire accoglienza, dignità e comunità significa trasformare la Chiesa in una rete di fraternità concreta, capace di curare le ferite visibili e quelle invisibili, e di scrivere una storia di speranza che appartiene al presente e al futuro che vogliamo generare.

 

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